di Emiliano Ventura
Ho sempre avuto interesse per i progetti letterari non compiuti, molti gli esempi di celebri scrittori con taccuini colmi di idee non sviluppate, da Baudelaire a Mario Pomilio, piccole crisalidi letterarie che attendono il tempo della maturazione.
Tra i tanti penso a Dino Campana che tra i suoi progetti mai realizzati aveva in mente di pubblicare un Faust. Questa idea è stata ripresa e compiuta da Carlo D’Urso, autore di questa versione moderna del racconto Faustiano.
Parte da lontano questo mito che incarna la tragedia della conoscenza; nell’antico testamento l’uomo viene cacciato dal paradiso perchè ha colto il frutto della conoscenza.
Nell’era precristiana i greci raccontano la punizione di Prometeo, colui che aveva osato consegnare il fuoco all’uomo, con questo gli aveva donato l’arte della tecnica e della conoscenza; come premio Zeus lo lega alla roccia con un’aquila che gli mangia il fegato, la sua colpa è di aver insegnato all’uomo e di avergli consegnato un sapere.
Variazioni di miti che tornano nel pensiero cristiano che si afferma scalzando la cultura greco-romana. Epoca tra le più travagliate e affascinanti, penso al racconto di Plutarco dove si narra di una voce che spande nel mediterraneo il grido: “Il grande Pan è morto”, indicando così la fine del mito e della cultura greca, l’aneddoto non è immune da un’idea di nostos, una nostalgia che non è priva di desiderio, per dirla con Luzi.
Il cristianesimo si andava lentamente sostituendo nelle coscienze degli uomini, da culto perseguitato, o almeno minore, si andava trasformando in carnefice. Una volta approdato al potere si trasforma nel potere che aveva combattuto, con l’aggiunta di un acredine aumentata dalla frustrazione e dal fanatismo dei votati al martirio; su questo argomento Cioran nel suo Il Funesto demiurgo ha scritto pagine di sublime prosa filosofica.
L’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, nel IV sec. d.C., aveva sperato nella restaurazione del culto, una morte precoce ha impedito il suo sostegno alla causa della filosofia e del mito greco. Come non provare ancora commozione di fronte alle parole di Libano nel suo In difesa dei Templi, dove chiede che vengano rispettati gli antichi culti e gli antichi dei.
Ipazia, filosofa neoplatonica cresciuta nell’alveo dell’ellenismo alessandrino del V sec. d.C., è stata massacrata dai cristiani del vescovo Cirillo, fatta a pezzi con cocci e vetri, per ciò che il suo fervore di conoscenza rappresentava, la sua colpa era di insegnare e perseguire la ragione dei greci.
Uno dei padri della chiesa, Tertulliano, afferma che dopo la venuta di Cristo non si deve più essere curiosi, tutto è stato rivelato, il naturale istinto di sapere viene castrato da questi chiosatori del ‘verbo’. Da quando si è affermato il culto e la morale cristiana, l’anelito della conoscenza ha seguito traiettorie sotterranee e carsiche, quasi a ritrovarsi nelle catacombe dell’ufficialità come avevano fatti i loro perseguitori.
Non posso fare a meno di constatare in un quadro simile come sia di gran lunga preferibile, e auspicabile, rivolgere l’attenzione a coloro che si sono opposti a questa visione, vi è maggior ricchezza e simpatia per gli eretici che per i santi; Ireneo di Lione (II-III sec. d.C.) dice: ”gli eretici parlano come noi, ma pensano diversamente”, è quella diversità dall’ortodossia a rendere affascinate l’eretico.
È da questo mondo tartaro e autoctono che emerge il mito di Faust, lo ‘scienziato’ (o Alchimista) che anela alla conoscenza, il mito proviene dalla Germania e da Wittenberg, una cittadina universitaria intorno a cui orbitano i nomi di Lutero, Amleto e Bruno.
Ogni istituto di potere che sia religioso o politico, istituisce i suoi dogmi a cui ci si deve sottomettere, la pena varia dalle epoche e passa dalla morte all’isolamento, allo sberleffo e alla messa in ridicolo o alla damnatio memoriae di chi non si sottomette.
Ridicolo è solo chi si crede depositario di verità assolute, ridicolo è chi mette i libri all’indice, chi pratica censura. Eretico è etimologicamente colui che fa una scelta diversa, Faust per la conoscenza sceglie di dannarsi da solo, e non vi è scelta più assoluta e radicale.
Quando Marlowe ne fa il protagonista della sua tragedia, la modernità del testo consiste nella scelta del protagonista, non un re o un personaggio storico, ma uno ‘scienziato’, uno che per amore del sapere non esita a cedere l’anima al diavolo.
Il drammaturgo inglese scrive la sua tragedia in piena controriforma, nell’epoca (il XVI secolo) che vede la Chiesa reagire alla riforma protestante con il concilio di Trento che stringe ancora di più il cappio dell’ortodossia, di lì a pochi anni molti moriranno sul rogo per non aver creduto ai dogmi, per aver cercato una libera filosofia.
Questa figura che nasce in Germania ma ha echi nel mito di Prometeo, ha affascinato poeti e scrittori da Marlowe a Goethe, da Pessoa a Campana e questo la dice lunga sui nomi con cui ha deciso di misurarsi Carlo D’Urso.
Il suo Faust è ancora figlio dell’epoca della crisi, ha fatto sua la denuncia di molti pensatori e poeti, molti dei quali riconoscibili, affioranti come frammenti del naufragio della conoscenza e delle lettere: Byron e Nietzsche tra tutti sono i fari che ha seguito. Soprattuto il primo, il poeta inglese ha i tratti satanici del mito con il suo logorarsi fisicamente dalla passione della vita e delle lettere, come se un fuoco interiore lo avessere consumato anzitempo. Morto poco più che trentenne sui suoi organi interni furono ritrovati segni di consunzione tipica degli anziani. A Nietzsche si riconducono i continui riferimenti a Zarathustra resi pienemante nella scena del teatro.
Il Faust di D’Urso cresce su questo terreno fertile e coltivato da secoli, lo scritto ha la duplice natura dell’uomo medievale, e i diversi significati della stessa letteratura.
Nessun scalpellino intento alla costruzione delle cattedrali credeva di essere un semplice operaio o muratore, ma sapeva di essere geometra e alchimista; ogni artigiano, dal fabbro al dipintore, sapeva di essere stato iniziato a dei segreti per la sua arte, solo noi moderni ci siamo rassegnati ad avere una sola identità nella mediocre burocrazia del nostro operare.
Così questo Faust può essere letto per diletto come se fosse un racconto gotico ottocentesco, e non mancano i richiami a questo genere, ma è soprattutto un’opera di iniziazione (o controiniziazione) un cammino di conoscenza che principia proprio con una bevanda, da lì il lungo cammino di perdizione e di eroico furore che porterà Faust sì alla perdizione ma anche alla conoscenza, al rifiuto del suo stato asinino. I continui riferimenti al ‘libro’, all’opera dello scrittore in fieri, alla traduzione, lasciano indicare il processo di evoluzione e di cresita dello scrittore, del ricercatore e dell’uomo.
É difficile trovare questa molteplice chiave di lettura nella coeva letteratura della chiacchiera e della cronaca, D’Urso attualizza ancora i quattro significati dell’opera letteraria di cui parlava Dante nella famosa epistola a Can Grande Della Scala. Per arrivare a tanto ha però bisogno di più tecniche di scrittura, infatti il testo cambia tono in diversi punti e resiste bene nell’insieme (tra dialoghi, musiche, eserghi e prose poetiche, trasporti di tempo, veglia e sonno) nella sua metafora di contro iniziazione, di rifiuto del presente, del suo essere Inattuale come i quattro scritti nicciani. È una forma mista di scrittura che trova nei contemporanei pochi esempi, penso a Teorema o alla Divina mimesis di Pasolini.
Per presentarci questo mito che ha radici antiche che si protraggono nel medioevo, D’Urso non ha altra via che usare una tecnica che proviene dagli stessi anni.
L’attualità di questo mito risiede ancora nell’anelito di conoscenza, o nella tragedia della conoscenza, nella voglia, nonostante tutto, di continuare a fare ricerca.
Oggi Faust può essere il ricercatore universitario, colui che contro l’affiliazione alle sette, alle chiese, ai partiti continua a tentare una libera ricerca, per lui il Mefistofele ha il volto kafkiano dell’impiegato ministeriale che gli sottopone un contratto da fame (quando e se glielo sottopone) e da precario, non promette niente e non chiede niente in cambio, tanto il Faust odierno, il ricercatore, sa già di essersi dannato l’anima da solo.
di Guido Bancaldi
Pretenziosa la scelta del personaggio per il primo poema di Edgar Allan Poe. Appena diciottenne, lo scrittore bostoniano decise di vestire i panni del conquistatore mongolo Tamerlano, per di più sul letto di morte, e di raccontare una storia d'amore che sa di sconfitta - forse l'unica della sua vita - per il grande sovrano asiatico.
Probabilmente, fu proprio la scelta di un personaggio sconosciuto alle masse, unita allo stile ancora acerbo di Poe, a decretare l'insuccesso - al tempo - della raccolta contenente proprio il poema in questione. Ciò scoraggiò fortemente lo scrittore, che decise di arruolarsi nell'esercito per guadagnarsi da vivere, ma non a tal punto da impedirgli di continuare ad esprimersi tramite il mezzo a lui più congeniale.
Finalmente, a distanza di quasi due secoli, l'opera ci viene riproposta dalla Sacco editore, con l'accurata traduzione di Carlo D'Urso. E proprio grazie a questa ristampa, la prima in italiano, abbiamo la possibilità di rivalutare un poema, sì immaturo, ma carico di quel talento che ha fatto di Edgar Allan Poe il più grande scrittore americano dell'Ottocento.
Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il modo più crudo per definire la storia degli ultimi decenni di questo paese e sono certo di non esagerare. Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il titolo di un romanzo gotico ristampato nei nostri giorni, oppure il nome di una tela di Hieronymus Bosch, ma in questa sede è soltanto il nome di una vulcanica rock band emergente che ho potuto ammirare qualche sera fa in un esaltante live a Parabiago (Milano).
La ragione principale che mi spinge a parlare di questi musicisti non risiede tanto nella loro capacità musicale quanto nell’aver proposto una forma alternativa di veicolazione del suono: il progetto musicale de Il Teatro degli Orrori ha solide fondamenta e intenti ben definiti circa l’utilizzo della teatralità come tecnica di amplificazione del linguaggio musicale.
Prima di proseguire è doveroso presentarvi la formazione attuale del gruppo: Gionata Mirai (chitarra-voce), Francesco Valente (batteria), Pierpaolo Capovilla (voce), Nicola Manzan (chitarra–violino) e Tommaso Mantelli (basso). La band attua un sapiente utilizzo del teatro per potenziare, e spesso sublimare, la parola; le pause, le pose stilistiche (affascinanti nei live) e i testi poetici di Capovilla formano un linguaggio parallelo alla musica che scolpisce puntualmente la natura dei brani. La voce di Pierpaolo Capovilla, la cui timbrica ricorda ai nostalgici Carmelo Bene, alterna un registro stilistico da puro frontman insieme ad un cantato pulito. Il testo in musica, generalmente subordinato al suono, ne Il Teatro degli Orrori diventa la linfa stessa della musica, dove ogni sonorità è incentrata a sottolineare la potenza del messaggio contenuto nel testo. Il suono esplode, commenta, culla, addolcisce e sopratutto scatena la poesia del testo, proprio come in una vera pièce condensata in pochi minuti, dove in parte vengono annullati gli stilemi tradizionali della canzone. Percussioni e chitarre lavorano freneticamente in partiture disparate, fatte di raddoppi improvvisi e arpeggi dolcissimi, supportati da grandi giri di basso. La distorsione del suono giunge a sbalzi tenebrosi, quasi ad accostarsi alle improvvise alterazioni vocali di Capovilla che prosegue a “narrare” la canzone da vero artificiere.
Rivendico con forza la capacità de Il Teatro degli Orrori di essere tornata, come tanti gruppi del passato, a ricreare quelle atmosfere e quei stati d’animo ormai annullati dall'infame modo attuale di concepire la musica, quasi sempre un insieme di dance, costume e sterile tecnica strumentale. Dove è finita la trasfigurazione e l’effetto psichedelico che dava alle note quelle tinte così forti e visionarie nel suono? Non troverete una canzone de Il Teatro degli Orrori che non faccia del proprio suono un edificio poetico dove ammassare messaggi, sentimenti, allucinazioni e tensioni molteplici.
Il Teatro degli Orrori è ora in giro per l’Italia ad assolvere le date del loro tour estivo e per promuovere il loro ultimo lavoro: A Sangue Freddo (La Tempesta Records, 2009). Tra i vari impegni musicali il cantante Pierpaolo Capovilla ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda.
Ho notato nella tua voce una tecnica interpretativa che vuole scardinare il cantato tradizionale per potenziare il “come dire” piuttosto che il “dire”, quasi che il canto divenisse un fatto meramente linguistico. Ritieni che nella vostra musica sia essenziale procedere in questi termini?
Non parlerei di tecnica interpretativa, direi "attitudine attoriale". Il fatto è che sono un pessimo cantante...
Cerco sempre di immedesimarmi nelle canzoni e mi piace pensare che queste vivano di vita propria. Non io, ma esse, vivono sul palcoscenico, quasi fossero momenti di reale vita vissuta, superando la realtà della rappresentazione. Ecco, io non sono un cantante, sono un attore.
All’inizio della vostra carriera avevate tutti un progetto differente che con il tempo si è amalgamato in un suono preciso, oppure qualcuno ha spinto più degli altri per trovare nel teatro la metafora vincente per una sonorità selvaggia e aperta a infinite suggestioni?
Non c'è dubbio che Giulio Ragno Favero ha sempre svolto un ruolo preponderante nella composizione, esecuzione e registrazione dei nostri dischi, ma sta di fatto che un "gruppo" è un organismo collettivo: è nella dialettica plurale che le canzoni vengono composte ed è questo il bello di "essere gruppo", di condividere obiettivi, aspirazioni, speranze e ambizioni. Il capitalismo ci ruba la capacità di "fare insieme"; esser gruppo è quanto di più intimamente e poeticamente democratico esista.
Perché hai scelto il Théâtre de la cruauté di Antonin Artaud come scintilla ispiratrice per il gruppo?
Credo fermamente nella teoria del teatro di Artaud: il magnifico paradosso della rappresentazione più vera della vita stessa. Quando salgo sul palcoscenico finalmente vivo. Resuscito! Quando, invece, torno a casa a guardare la TV, o in ufficio a far di conto, o in fabbrica a menar bulloni muoio lentamente, senza neanche accorgermene. Quello che voglio da un concerto de Il Teatro degli Orrori è che il pubblico possa specchiarsi nel nostro spettacolo e portarsi a casa, non solo un semplice momento di intrattenimento e socializzazione, ma un pezzo, per quanto piccolo, di vera vita vissuta. Qualcosa che dura nel tempo e nel cuore.
Quali sono state le difficoltà principali riscontrate nell’editoria musicale per pubblicare il vostro primo lavoro Dell’Impero delle Tenebre (aprile 2007)?
Non c'è stata alcuna difficoltà, al contrario! C'è stato grande interesse da parte di più operatori discografici. Abbiamo scelto La Tempesta per simpatia ed affinità elettive.
Prendiamo in esame un ipotetico campione di vostri fans: credi che la poesia dei tuoi testi sia più veloce e penetrante della musica stessa per le loro orecchie, considerando anche la singolare performance della tua timbrica?
Non c'è dubbio. Da quando canto in italiano mi accorgo di quanta amorevolezza venga indirizzata verso le parole delle mie canzoni, nelle quali molti, giovani e meno giovani (il nostro pubblico, grazie al cielo, è davvero intergenerazionale), si riconoscono e si immedesimano. Che soddisfazione!
Che cosa è lesivo nella musica per quegli artisti che, come voi, tentano di affermarsi con le unghie e con il sudore?
La totale e sistematica indifferenza del legislatore nei confronti di tutto ciò che sia cultura. In altri paesi, come la Francia, lo stato ti da una mano. Qui no, mai. È uno schifo vedere un ministro dileggiare gli artisti, gli enti lirici, il cinema, i musicisti. Per l'attuale governo la cultura è un nemico da combattere, ma che ci vuoi fare? Con i Bondi, i Brunetta, le Gelmini e tutti gli altri ministri di questo miserabile esecutivo non si può far altro che collidere. Un giorno pagheranno, mi auguro, per il male fatto al paese.
Pensi che l’Italia potrà, un giorno, superare o modificare i pregiudizi in fatto di avanguardie musicali? In altre parole: perché i virtuosi e i veri talenti devono fuggire da questo inferno mediocre?
Beh... io non fuggo. Resto, per Dio! Resistere è la mia parola d'ordine.
In conclusione, Pierpaolo, credi che la poesia nella musica sia più estetica, etica o entrambe le cose?
Etica.