Da dove nasce la passione per la fotografia e perché?
Seppure una certa predisposizione per le immagini credo di averla sviluppata fin dall’infanzia, una tappa importante del mio percorso artistico è iniziata circa dieci anni fa dallo studio del collage. Trovavo molto divertente tagliare sagome di carta colorata, incollarle su un supporto, tela o tavola, per comporre una figura, quasi sempre soggetto erotico, come fosse un puzzle. Successivamente in parte la curiosità, in parte la necessità di ampliare le prospettive o raggiungere una maggiore precisione con un minore spreco di mezzi, mi hanno spinto inevitabilmente ad avventurarmi nel mondo della fotografia digitale scoprendo le sue sconfinate possibilità. Conservando la stessa tecnica del “taglia-incolla”, con il fotoritocco digitale ho raggiunto un impatto visivo di gran lunga superiore.
Dalle tue composizioni si evince una predilezione per soggetti inquietanti (o resi tali mediante elaborazione elettronica). Spiega il motivo delle tue scelte.
Sono un grande amante dell’animazione dei paesi ex-sovietici, capolavori assoluti di stop motion dalle ambientazioni surreali-oscure, che hanno ispirato successivamente autori geniali come Brothers Quay o Tim Burton e che a mio avviso ritrovo, seppur con un tono leggermente diverso, nei film e nella pittura di David Lynch. Vivendo in una civiltà sempre più stupidamente ottimista, sempre meno abituata a vedere il brutto, non è raro che il mio lavoro faccia uno strano effetto sulle persone. In ogni epoca ci sono stati canoni di bellezza da rispettare e in quella odierna regna un esagerato perfezionismo, dove esempi di uomini e donne che compaiono in tv, su internet o sulle pagine delle riviste, sembrano esseri disumani perfettamente proporzionati, del tutto esenti dai segni del tempo. Se solitamente la fotografia digitale, in tutti i suoi settori, ha consentito passi da giganti e viene sfruttata per meglio rappresentare questo superficiale immaginario perfezionista, io ho sentito il bisogno di riflettere su quegli aspetti sepolti dell’essere umano, rivelando quello che di più naturale possiede: i suoi umori, le sue contraddizioni, la sua fragilità , la sua morte. Oltretutto credo che il bene e il male si trovino dove tentiamo di sfuggirli. Avere il coraggio di guardare le nostre inquietudini, i mostri che popolano i nostri incubi o quello che non vogliamo essere, significa imparare a conoscerli, illuminare l’oscurità per smettere di temerla. Questo significa anche ampliare il concetto di bello, riuscirlo a trovare laddove si creda estinto, osservando con curiosa ammirazione una piaga o una ruga, cioè l’effetto dell'eterno divenire, di nascere e morire nel medesimo istante.
Ho avuto modo di notare che spazi anche nel campo dell'audiovisivo. Hai infatti realizzato diversi cortometraggi con la particolare tecnica dello stop motion. Parlaci delle tue opere.
Si potrebbe parlare di tecnica dello stop motion, sia per quanto riguarda la ripresa fotografica del movimento, sia per la frequenza dei fotogrammi per secondo (e quindi il suo tipico movimento leggermente scattante). Dal momento in cui costruisco con Photoshop fotogramma dopo fotogramma l’intera sequenza del film, con tempi di lavorazione esageratamente lunghi, potrei anche, da un certo punto di vista, paragonare questo metodo alle tradizionali tecniche di animazione disegnate a mano. Se lavorassi su immagini modellate mediante software di animazione 3d, non avrebbe lo stesso senso e non risulterebbe così fortunatamente imperfetto. Pur sfruttando i vantaggi della tecnologia, preferisco conservare una certa manualità.
Cosa ne pensi dell'attuale situazione artistica nella nostra regione, l'Abruzzo?
A parte gli ultimi fatti di cronaca, non occorre ricordarci della solita indifferenza riservata alla nostra regione sia da parte di tutta Italia (fino a qualche mese fa in molti ignoravano la collocazione geografica del nostro capoluogo!) e sia dal mondo intero. Nonostante ciò, per quanto riguarda il panorama artistico, non posso negare l’importanza e l’impegno esercitato da alcuni addetti ai lavori. Purtroppo, tutto questo è un eroico sforzo non sufficiente a sensibilizzare e a consentire uno sviluppo culturale di molti abitanti e istituzioni abruzzesi. Personalmente ho scelto di viverci perché mi permette di lavorare in tranquillità senza troppi stress.
Con l'avvento delle nuove video reflex in alta risoluzione si rischia l'annullamento delle distinzioni fra operatore video e fotografo. Cosa ne pensi?
Dal punto di vista concettuale l’ambiguità tra fotografia e video non credo si possa considerare una novità. Degli esempi significativi potrebbero esserci forniti dall’opera di Bill Viola basata su video istallazioni apparentemente immobili; dall’uso delle immagini fotografiche che si susseguono lentamente con cui Chris Maker realizza un film; per non parlare dei colossali light box di Jeff Walls il quale per raggiungere la massima dinamicità nella fotografia, si avvale letteralmente delle tecniche di ripresa cinematografica. Francamente, non avendo ancora avuto l’occasione di sperimentare nessuna di queste nuove fotocamere in grado di realizzare video ad alta definizione, mi astengo dal fare alcuna valutazione. Ovviamente, non posso negare di sentirmi un pochino sfiduciato guardandomi intorno, osservando la legge del mercato dell’usa e getta, di prodotti che ininterrottamente esordiscono con clamore e poi crollano svalutandosi pesantemente nel giro di pochi mesi, in un contesto generale disorientante.
Competenza tecnica o creatività?
Sono del parere che la creatività è l'espressione della personalità di un individuo, e dal momento in cui questa può stravolgersi da epoca ad epoca, da cultura a cultura, da persona a persona, trovo assurdo tentare di stabilirne un valore universale. Trovo altrettanto banale, l’esibizionismo tecnico da parte di alcuni operatori, sempre pronti a mostrare i propri muscoli e (visto i costi esagerati degli strumenti adoperati) il loro portafoglio. Come della tecnica non te ne fai nulla se non sai come sfruttarla, nemmeno le idee servono a qualcosa se poi, per superficialità o per incapacità, non ci si sforza minimamente di sporcasi le mani. Preferisco la sana umiltà di chi si sa arrangiare.
A cosa lavori attualmente e dove possiamo seguirti prossimamente?
Attualmente ho sotto i ferri svariati progetti sia video che fotografici. Per facile associazione raggruppo tutto questo lavoro sotto il titolo di Anthropomorphos, nome tratto dall’omonimo cortometraggio concluso pochi mesi fa, il quale per la realizzazione mi ha impegnato quasi un anno. Sarà presente ad alcuni Festival in giro per l’Europa. Per ogni informazione è possibile visionare i miei lavori e contattarmi su www.alessandrovitali.com
di Eclipse.154
Il rigore dello sguardo che caratterizza numerosi autori della storia del cinema ci consente di parlare di “cinema della crudeltà”, inteso, secondo Artaud, come “estrema lucidità dello sguardo e rigido controllo e sottomissione alla necessità”. Esponenti illustri (ne citiamo brevemente solo alcuni per ovvi motivi) che possiamo inscrivere in quest’area sono: Erich Von Stroheim, Carl Theodor Dreyer, Luis Buñuel (per approfondimenti si veda Re-volver n.03 pag.12, La visionaria ferocia di Luis Buñuel), Robert Bresson, Marco Ferreri, Roman Polanski, David Lynch, Michael Haneke.
Erich Von Stroheim nel 1908 tenta la fortuna negli USA e, nel 1915 diviene assistente di Griffith per Intolerance. Da qui ha inizio la tormentata carriera del grande regista-attore, che grazie a Femmine folli conosce l’immediato successo e a Greed (una delle vette del muto e uno dei più grandi capolavori della storia del cinema) lo scandalo. Il cineasta austriaco infatti disprezza ferocemente il cinema hollywoodiano, definendolo “fabbricante di salsicce”. Non tollera limitazioni di budget ed è in costante conflitto con i suoi produttori, che puntualmente censurano le sue opere perché troppo scabrose. In Femmine folli (1921) Stroheim narra una vicenda di adulterio mediante un melodramma a forti tinte. A Montecarlo (interamente ricostruita ad Hollywood) un falso conte russo sfrutta le sue due false sorelle e una cameriera, seduce la moglie di un ambasciatore americano e violenta la figlia ritardata di un falsario, il quale si vendicherà uccidendolo e gettando il suo cadavere in una fogna. “L'autenticità, per Stroheim, è il momento in cui il bluff viene visto, in cui il cinema, aggirando la realtà, scopre il volto nascosto dei personaggi...” (F. Savio). L'imperativo è etico: vedere chiaro e sino in fondo in sé e negli altri, scoprendovi le più segrete pulsioni di vita e di morte. Ma è con Greed (1924) che il regista porta alle estreme conseguenze il suo bisogno di verità. Mai nessuno è stato in grado di dare una rappresentazione tanto vivida dell’avarizia. L’opera narra le vicende di un impiegato che tenta di aprire uno studio dentistico, conosce la fidanzata di un suo amico, tenta invano di violentarla, gliela sottrae e la sposa. La donna vince una grossa somma in denaro e diviene sempre più avara. L’uomo, dopo aver perso la sua attività la uccide e fugge col denaro nella Valle della Morte dove morirà con il suo ex-amico.
Carl Theodor Dreyer debutta nella regia nel 1919, dando vita ad una carriera che durerà fino agli anni ’60. Dreyer, nel corso degli anni, mette a punto la sua tematica di fondo: la denuncia del fanatismo e dell’intolleranza. Arriva così il suo capolavoro, La passione di Giovanna d’Arco (1928), narrante le note vicende accadute alla giovane martire. Mediante un costante utilizzo di primi piani Dreyer fa un film profondamente antinaturalistico, stilizzato e dal gran ritmo, dalla recitazione moderna e da un estremo rigore compositivo. Grazie a questi fattori le tre unità aristoteliche sono frantumate e l’azione si catapulta in una dimensione infinita che consente allo spettatore di vivere il conflitto spirituale e la tortura fisica della donna.
Robert Bresson, dopo un anno e mezzo di prigionia, debutta con La conversa di Belford (1943), ma è con Il diario di un curato di campagna (1950) che il cineasta firma il suo capolavoro. Si narrano qui le vicende di un giovane parroco di un piccolo paesino francese, accolto male dai cittadini ed incapace di imporsi. È praticamente un film muto con sottotitoli commentati, che sviluppano un profondo realismo della vita interiore del protagonista. L’austerità e la sobrietà della regia lo rendono un film irraggiungibile. Con L’argent, infine, Bresson chiude la sua carriera e fa un film basato sulla predestinazione e la casualità. È un Bresson desolato, secondo il quale il mondo è dominato dalla presenza metafisica del Male, che conduce gli uomini in una voragine di eventi negativi. Nel film infatti, un orgoglioso operaio viene accusato ingiustamente di spacciare banconote false e in seguito ad una concatenazione di eventi diviene un pluriomicida, fino al momento della redenzione. Bresson filma il suo personaggio riducendo al minimo la parte superiore del corpo e mostrandone le mani, le gambe, i piedi, gli oggetti che vede e tocca. Rimane la densità dell'itinerario di un'anima verso il suo destino, raccontata da un cineasta mediante una recitazione quasi assente ed un occhio gelido e incredibilmente lucido.
Dopo aver lavorato in Spagna nella commedia grottesca, Marco Ferreri sposta la sua attenzione verso la Francia e, negli anni ’60 sviluppa nelle sue opere dimensioni allegoriche che lo accostano in qualche modo allo stile di Buñuel. Gli anni ’70 rappresentano per lui gli anni della consacrazione, grazie ad opere quali Dillinger è morto (1969) e La grande abbuffata (1974). Dillinger è morto è forse il più grande film di Ferreri, che mette in scena un notturno happening sulla nevrosi e l'orrore del quotidiano. Un ingegnere, infatti, torna a casa dal lavoro e mentre sua moglie dorme si prepara una ricca cenetta, pulisce una vecchia pistola, adesca la sua cameriera, uccide la sua consorte e fugge via in barca. L’astrattismo della rappresentazione non ostacola la forte concretezza che permea l’intera opera. Mediante questo apparente esercizio di stile Ferreri mette in scena la noia del quotidiano e l’alienazione dell’essere umano in modo davvero sconvolgente.
Il più grande successo internazionale per Ferreri arriva però cinque anni dopo, con La grande abbuffata. Quattro amici si riuniscono in una villa per trascorrere un weekend all’insegna del cibo e del sesso, che si trasformerà in un vero e proprio hara-kiri gastronomico. Ferreri qui analizza il rapporto cibo-erotismo-morte mediante un apologo iperrealista, una favola fantastica, un pamphlet satirico misto a humour nero, disperazione e irriverenza. La sua forza risiede nella calma lucidità dello sguardo, e nell'onestà di un linguaggio che Ferreri conserva sempre.
Doveroso ricordare Roman Polanski, autore polacco che nello stesso anno de La grande abbuffata gira ad Hollywood (prima di abbandonare l’America per un’accusa di stupro) Chinatown (1974), il suo film più politico. Profondamente chandleriano è un grande apologo sul capitale e sulla sua feroce onnipotenza. Rispettando con puntuale rigore la struttura classica del noir anni ’40, Polanski narra le indagini di un investigatore in seguito ad un delitto frutto di un caso di corruzione politica. Da qui la visione polanskiana secondo la quale il mondo è dominato dalla presenza diabolica, ossessiva e ambigua del male, a cui non è possibile sfuggire. Il potere genera corruzione e violenza ed è il vero protagonista del film.
Dodici anni dopo è David Lynch il fenomeno registico del momento, autore divenuto popolarissimo grazie a film che mettono in luce il suo morboso talento. Basti citare Velluto blu (1986), un intrigo poliziesco classico che fa da filo conduttore ad una fenomenale parabola infernale in cui, come sempre per Lynch, Bene e Male si confondono. Qui un ragazzo apre una porta proibita e si trova proiettato in un mondo fatto di droga, violenza, sadomasochismo e depravazione. Un film torbido e allucinato, che si fonda su quelle che Angelo Moscariello definisce“perturbazioni semantiche” (Colpi di cinema, DinoAudino Editore, Roma, 2006) mediante le quali Lynch mostra la perversione che si cela sotto la superficie dell’America odierna.
L’ultimo cineasta (non meno importante) che ci sentiamo di citare e Michael Haneke, regista austriaco noto a tutti per il suo pessimismo nei confronti di una civiltà alla quale non concede sconti.
In Storie, Racconto incompleto di diversi viaggi, si narra una mezza dozzina di storie e si parlano quattro lingue diverse. I temi dell’opera sono quanto mai attuali: incomunicabilità, confusione delle lingue, immigrazione, xenofobia, alienazione urbana, freddezza e indifferenza della società dei consumi, deriva sociale e violenza. Mediante il suo caratteristico sguardo freddo e distaccato già visto in 71 frammenti di una cronologia del caso (vedi recensione alle pagine seguenti) Haneke racconta le sue storie con estremo realismo e lucidità.
L’anno dopo è la volta de La pianista (2001), in cui un’austera insegnante di piano è affetta da nevrosi e masochismo; vive con la sua anziana e possessiva madre e sfoga la sua sessualità repressa nel voyeurismo. Instaura una malsana relazione con un suo allievo, basata sulla sottomissione sessuale, ma fallisce impietosamente. La vicenda diviene metafora ed Haneke attacca duramente la società austriaca con un’analisi sarcastica ed esasperata, resa perfettamente grazie anche all’interpretazione straordinaria di Isabelle Huppert, che rivedremo due anni dopo in Il tempo dei lupi (2003). Nel film una ricca famiglia si reca nella casa di campagna per trascorrere qualche giorno e la trova occupata da profughi aggressivi ed affamati. Il capofamiglia muore e la moglie e i suoi due figli si ritrovano a vagabondare senza nessun bene di conforto in una terra desolata e piena di gente nelle loro stesse condizioni. Haneke, con la freddezza di un entomologo, non da risposte, si limita a mostrare le conseguenze della lotta per la sopravvivenza: uomini regrediti a bestie che hanno perso la propria umanità. “... Questo viaggio ai limiti dell'orrore è quello di una perdita di sé.” (Jean-Luc Douin)
Pensi che il Cinema sia l’Arte più elevata ed efficace. Spiega il motivo del tuo pensiero.
Mediante l’occhio della macchina da presa possiamo vedere quello che spesso, nella vita quotidiana, non riusciamo a percepire, o che non abbiamo mai avuto modo di vedere. Il cinema insegna a vedere il reale, è uno sguardo nuovo su realtà spesso inosservate. Il miracolo del cinema consiste proprio nel fornire quel ‘qualcosa in più’ che nessun altra arte può dare: il cinema non riproduce la realtà (come la fotografia), ma la produce. Attraverso l’inquadratura svela, sottoforma di esperienza vissuta, le forme esistenti nel reale. È, si, un insieme di fotografie in movimento, ma con annesse lo sguardo e la coscienza del regista e dello spettatore, fruitore dell’immagine. Il cinema genera così un processo d’identificazione impossibile alle altre arti. Il cinema rende vivo quel qualcosa che in nessun modo può essere fotografato, dipinto, scolpito: un qualcosa d’invisibile e abitante nell’animo dello spettatore. L’immagine filmica possiede sempre un qualcosa d’intangibile che va a stabilirsi nell’animo di chi vede, inducendo l’interazione, non la passività. Guardare lo sguardo, dunque. Inoltre, il cinema ha infranto la cornice dell’immobilità ottica. Un pittore può dipingere un volto arrossato, o un volto pallido. Egli non può dipingere un viso che da pallido improvvisamente arrossisce, a lui è precluso questo processo.
So che la tua passione originaria è la fotografia. Come sei approdato al cinema?
Potrei risponderti come sopra. Il processo è stato molto naturale. Amo molto la fotografia intesa come gioco soggettivo, come esperimento sul punto di vista. Ma quando fotografo il mio potere è limitato, nel cinema no: mediante lo sguardo filmico tutto è possibile e nulla mi è precluso. Entrare in sintonia con lo spettatore, per comunicargli il mio pensiero, la mia poetica, è possibile in maniera totale solo mediante il cinema.
Nel 2008 hai girato un cortometraggio dal titolo Chrysanthemum. Di cosa si tratta? Com’è nata l’idea? Qual è il linguaggio filmico che hai deciso di usare e per quale motivo?
L’obiettivo dell’opera è quello di analizzare il rapporto che l’essere umano ha con la propria emotività, e come questa influisce sulle sue azioni. Il concept è nato agli inizi del 2008. Ho sempre creduto che osservare le persone, la loro vita e le loro azioni sia fondamentale per la creazione delle idee. Per quanto mi riguarda il film è sempre figlio di un’acuta osservazione e reinterpretazione del reale. Mi affascinava molto l’idea di rappresentare la realtà emotiva di noi esseri umani, la sua irrazionalità. Trattandosi di un argomento molto complesso ho impiegato circa un anno per la stesura della sceneggiatura, cinque giorni per le riprese e tre mesi per la post-produzione, ma il risultato finale è stato soddisfacente. Per quanto riguarda il linguaggio stilistico ho avuto da subito la necessità di rappresentare la stasi del personaggio mediante l’uso della camera fissa. La narrazione, sin dall’inizio, prende subito una piega allegorica. La semantica di oggetti apparentemente insignificanti, che si ripetono nel corso della visione, va a costituire una parte imprescindibile della struttura narrativa. Anche l’uso del colore è determinante: diverso per ogni sequenza, come quello del montaggio. Alle sequenze in cui le azioni sono poche (o assenti) corrisponde sempre un’inquadratura fissa, un colore freddo e un montaggio quasi impercettibile. Scelte opposte si riferiscono a momenti dinamici, in cui lo stile deve per forza di cose riflettersi nelle vicende narrate e divenire forma espressiva. La ripetizione d’inquadrature già viste spinge lo spettatore attento a chiedersi se si tratta di impressionismo soggettivistico (della protagonista? dell’autore? dello spettatore?) o di “visione oggettiva” collimante con la realtà soggettiva della protagonista. La riflessione sulle vicende umane diviene così riflessione sull’immagine filmica e sull’arte cinematografica, sulle possibilità e potenzialità del punto di vista della telecamera, che al suo variare, genera da sempre grandi potenzialità.
Oltre a Chrysanthemum hai girato in co-regia con il regista Mauro John Capece il cortometraggio Les nouvèlles frontières de la sexualité. Per quale motivo è in francese?
Il progetto Les nouvèlles frontières de la sexualitè nasce dall’attenzione che da sempre io e il mio collega e amico Mauro John Capece nutriamo per le vicende umane. Il tema della vita di coppia è da sempre affascinante, con le sue dinamiche e problematiche. Fare un film sull’amore rimanendo aderenti alla realtà e non sconfinando nel romanticismo smielato non è cosa facile. In quest’opera abbiamo deciso di concentrarci sulla vita sessuale di una giovane coppia di sposi nella civiltà del consumismo. Le statistiche dicono che il 40% delle coppie hanno gravi problemi sessuali: da qui nasce il soggetto. Il film non è legato a una nazionalità particolare, poiché tratta problematiche globali. Abbiamo tuttavia deciso di ambientarlo in Francia, che da sempre è considerata la patria dell’amore, con la sua Parigi e i suoi amori da cartolina. Per l’impietà e la freddezza dello sguardo credo si tratti di un film scomodo e molto interessante.
So che recentemente si è chiusa la lavorazione di un altro cortometraggio, Letteratura contemporanea, per la regia dello scrittore abruzzese Luca Torzolini. Tu sei stato l’autore della fotografia: raccontaci questa esperienza.
Devo dire che Letteratura contemporanea è stato un progetto molto interessante. Abbiamo dovuto fronteggiare diverse difficoltà produttive e non. Il budget ridotto di cui la produzione disponeva ci ha costretto a girare interamente fra Marche e Abruzzo, scelta della quale non ci siamo pentiti, grazie alla grande disponibilità e cordialità degli abitanti dei vari luoghi. Il soggetto del cortometraggio analizza in modo critico la letteratura contemporanea, ponendo l’attenzione su tutti i meccanismi narrativi in voga, le mode e gli iter dello scrittore d’oggi. La pochezza linguistica degli scrittori odierni si evince chiaramente da quest’opera, come anche il taglio politically incorrect dell’autore. So che il film ha accompagnato Luca Torzolini a numerosi reading letterari, e che gli spettatori lo hanno notevolmente apprezzato. Sono molto contento di questo: vuol dire che il pubblico ha recepito il messaggio e che gli sforzi necessari alla realizzazione non sono stati vani.
Per Chrysanthemum hai pensato a uno stile allegorico, pieno di simboli e dalla difficile fruizione, mentre Les nouvèlles frontières de la sexualité ha un taglio quasi mockumentaristico (documentario di finzione). Stai sperimentando vari filoni narrativi o si tratta semplicemente di adattare lo stile al tema da trattare?
Lo stile è sempre figlio del contenuto. Per ogni tema trattato, per ogni vicenda, bisogna valutare bene quale codice visivo applicare. Il linguaggio cinematografico è costituito da un “vocabolario” vastissimo, senza confini. Ma bisogna tener sempre presenti le regole. Lo sguardo con il quale osservo deve essere in sintonia con il prodotto filmico che poi mostro. Per Chrysanthemum ho utilizzato il linguaggio formale più idoneo secondo il mio punto di vista: concepirlo in maniera differente forse avrebbe dato vita ad un’opera meno efficace. È stato un lavoro complesso, perché dovevo tener presente contemporaneamente vari aspetti: il tempo diegetico, il tempo del discorso, le azioni, le diverse atmosfere e i diversi messaggi. Per Les nouvèlles frontières de la sexualité, invece, il discorso è totalmente differente. L’idea era di mostrare una determinata situazione di stasi e di presentarla nel miglior modo possibile. Ci siamo concentrati sull’indugio: riprendere lentamente la lentezza è stato a mio avviso un procedimento stilistico molto interessante.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nell’arte della fotografia?
Sono molti i maestri che hanno dato un contributo essenziale. Ad esempio Henri Cartier-Bresson, ritenuto il più grande fotografo del suo secolo, ha inventato uno stile tutto suo, basato su simboli e tratti grafici; Henry Peach Robinson, il quale poco più che ventenne anticipò di 150 anni il montaggio digitale, creando complesse immagini, frutto d’interessanti combinazioni; Man Ray, uno dei più grandi innovatori nel campo della sperimentazione (scattava foto anche senza macchina fotografica!); Eugene Atget, che con i suoi scatti anticipò il surrealismo; Joel Meyerowitz e il suo impietoso sguardo sull’America; Alfred Steiglitz, che contribuì non poco allo sviluppo della fotografia come arte meditativa; Robert Frank, grande foto-reporter della vita quotidiana americana; Andre Kertesz, grande maestro nella composizione delle immagini; Robert Mapplethorpe, che per eseguire uno scatto impiegava due giorni; Richard Avedon, il più grande ritrattista di tutti i tempi. Potrei andare avanti ancora per molto…
Quali nell’ambito cinematografico?
La perfezione formale di Tsai Ming-Liang; la poesia visiva di Kim Ki-duk; la capacità di cogliere l’interiorità di Michelangelo Antonioni; la stasi e la mimica di Robert Bresson; l’onirismo e l’irrazionale di David Lynch; i dialoghi di John Cassavetes; la grande micro-fisionomia di Clint Eastwood; la ferocia e il surrealismo di Luis Buñuel; le decine di punti di vista di Quentin Tarantino; il genio disarmante di Stanley Kublick; la visionarietà di Takashi Miike; i primi piani di Ingmar Bergman; il lirismo di François Truffaut; la non-narrazione di Krzysztof Kieslowski; la vita intera di Edgar Reisz, spesa per il suo Heimat; il cervello di Claude Chabrol; l’irriverenza di Jean-Luc Godard. Anche qui potrei andare avanti ancora per molto…
Che progetti hai per il futuro?
Sto lavorando alla pre-produzione del mio primo lungometraggio, Annabelle; per ora sono impegnato della stesura della sceneggiatura e nell’analisi delle possibilità distributive, attività che assorbiranno le mie energie per almeno un anno. Inoltre in cantiere ci sono altri due cortometraggi, che vorrei realizzare entro il 2009. Purtroppo però, devo dire che dopo le terribili vicende che hanno coinvolto noi abruzzesi, il mio progetto principale è di tornare presto all’Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine de L’Aquila, presso la quale studio. Purtroppo, i danni che il terremoto le ha inferto sono notevolissimi. Mi auguro che possa essere ricostruita e riattivata molto presto.
di Eclipse.154
Mulholland Drive è sinonimo di insonnia. Naturalmente non vi presento un horror: qui parliamo di David Lynch e del suo capolavoro. Un’opera quasi impossibile da interpretare in maniera attendibile. Dopo una prima visione del film si è turbati, confusi, travolti dal finale apparentemente sconnesso, capace di cancellare tutte le certezze che abbiamo accumulato pian piano. Le vicende costituiscono il sogno della protagonista Diane Selwyn (Naomi Watts), che proietta totalmente i suoi desideri, le sue paure e le sue angosce in Betty Elms, il suo alter ego onirico. Betty è una giovane e promettente attrice che, arrivata nella splendida Los Angeles, sogna di sfondare nel mondo del cinema. Alloggia a casa della zia, ma non è sola. In casa, infatti, si nasconde Rita, una donna che ha subito un terrificante incidente la sera prima lungo la Mulholland Drive, e che, a causa del trauma, non ricorda nemmeno il suo nome. Betty decide di aiutarla per fare luce sulla sua identità. Banale? Aspettate di arrivare all’epilogo! Con la comparsa di sempre nuovi personaggi, la trama si infittisce e la mente dello spettatore viene stuprata da una raffica di colpi di scena. Capolavoro da vedere tassativamente! E non dimenticate gli ansiolitici!
di Luca Torzolini
Il nome Charlie Kaufman vi dice qualcosa?
Se David Lynch proietta il suo mondo allucinato al di fuori della sua enigmatica testa, Kaufman cerca, al contrario, di trascinare il pubblico all’interno della propria. C’è chi, vedendo Essere John malkovich, avrà ben pensato che la fantasia del grande sceneggiatore non potesse concretizzare, nelle immagini di un film, nulla di più delirante.
“Chi” si sbagliava.
Infatti nel 2002, tre anni dopo il successo che lo rese famoso al pubblico, ecco che Charlie si ripresenta con una sceneggiatura che prevede lui stesso protagonista del film.
La nascita della trama è stata molto particolare.
Kaufman avrebbe dovuto scrivere un copione basato sul romanzo diSusan Orlean Il ladro di orchidee, ma durante quest'operazione si è ritrovato più volte in crisi, al punto che la sceneggiatura si è pian piano trasformata in un film biografico: due sceneggiatori, fratelli gemelli, Charlie e Donald, sono alle prese proprio con l'adattamento del romanzo in questione, Il ladro di orchidee.
Flusso di coscienza in voce off e destrutturazione totale dei classici schemi cinematografici propongono al pubblico un film alto di contenuti e innovazioni. Tramite la tecnica della mise en abyme viene presentata “una storia nella storia”, avanguardia di un effetto Droste sintomo della genialità di un vero artista.
di Luca Torzolini
Siamo angeli caduti che han preferito cadere
pur di sputare sulla propria dignità artistica.
Italia, Altrove 3 Ottobre 1990
Arthur è un bambino piccolo che ama le favole e lo zucchero filato.
- Arthur! Arthur! - fece la mamma - Vai subito dentro l’armadio e chiudi la porta che il papà è ubriaco! -
Arthur entrò nell’armadio, chiuse la porta e tornò nel suo mondo.
Vide cose mai viste, scoprì l’arte e disse a se stesso: - Pubblicherò una rivista un giorno. Si chiamerà Re-volver -
La mamma urlò. Il papà pure. Arthur uscì dalla porta dell’armadio e vide tutto.
Italia, Altrove 20 maggio 2008
Il suono del frustino era un tuono nel silenzio, il bacio di un rospo verso la farfalla. Un bacio cannibale.
Il cocchiere sembrava il tizio di Taxi driver, ma senza tizio. Etereo, silenzioso come un luogo pieno di rumori ma senza nessuno che può sentirli.
(Lo concepii bene, lo scrissi meglio).
Meccanico e vacuo, come un semaforo.
Nella carrozza due feti portati in braccio da Lucien, la bambola bambina. Con lei c’ero io, il fantasmagorico cronista di Re-volver, un free press. Il free press.
Passando attraverso la palude, osservavo i castelli di sabbie mobili che ingurgitavano ignari bambini, gli alberi capovolti che avevano radici nelle nuvole e si muovevano a seconda del vento e le brume senza cose che solo durante l'eclissi mostravano la loro ombra: l'oggetto che delineava i propri contorni. Contorni che confutavano l’oggetto, SPESSO.
Lucien accarezzando le viscide melme disse - Sicuro di voler fare un’intervista al nostro signore? Lui riceve a stento qualcuno e, seppure sia apertissimo verso ogni possibilità, la sua immensa cultura ed eterogeneità nel linguaggio fa desistere chiunque dalla comprensione delle sue parole. Un’intervista addirittura... tsè, impossibile! -
La guardai con lo sguardo di sguincio dell'eroe, alla Klaus Kinski, uno sguardo fantasma. Sì, proprio così.
Il castello si materializzò all'orizzonte, in un jump-cut studiato e poco ortodosso. Pensai ad A Bout de Souffle e decisi di scendere dal mezzo. Il cocchiere fece per salutarmi, ma penso fraintesi, il suo doveva essere più precisamente un addio. Se ne andò.
Solo. Sulla porta il batacchio pesante delle classiche storie horror… mi ha fatto sempre un effetto misantropo, del tipo “non mi rompete i coglioni sennò... ” sennò basta, non mi va neanche di continuare: le spiegazioni mi stanno sul cazzo. Bastien cacciò le Camel. Senza filtro. Ah, Bastien è il mio apprendista, di solito è poco calcolato.
Al secondo sbuffo, che acrobaticamente cercò di assomigliare al salto di un delfino, il maggiordomo giapponese aprì. Senza parole mi fece capire la necessità di togliere le scarpe. Il pavimento era freddo e relativamente fluido, mi sembrò di mettere i piedi nella sabbia le sere d'estate, ma senza piedi.
Il pinguino credeva l'avrei seguito, ma tendo naturalmente a non assoggettarmi a nessuno. Soprattutto a Nessuno, cioè Tutti. Visitai il maniero in lungo, largo e 4°dimensione. Affacciandomi alla porta di una specie di ripostiglio, con relativa etichetta "Non aprite", trovai un Cuore rattoppato. Preso da un istinto malvagio stritolai il cuore, lo calpestai e poi inventai un senso di colpa derivante dai miei genitori. Mi avevano educato male.
Un grido discreto scese giù per le scale e si soffermò sulla porta, senza entrare.
- Toc, toc! - disse l'urlo.
- Avanti! - risposi.
- Aaaaaah!!!!!!! -
Corsi fino a che la milza non mi uscì dalle orecchie, seguendo le frecce sul muro. Mi ritrovai sul tetto: c'era un cesso. Il mio sogno, un cesso sul tetto.
Durante la cagata pensai a come cazzo aveva fatto Stallone a scrivere Rocky, una sceneggiatura geniale per fare soldi a palate. Pensai ai conigli sit-com di David Lynch e al cavallo che Nietzsche abbracciò in uno slancio umano che sottolineava la disumanità dell'uomo. E pensai a Laura… mmmh, si! All’Aura.
Sbadatamente tirai l'acqua. Me ne accorsi.
Non pulendomi il culo, lascia l’autografo dell’orifizio sul candore delle mutande e mi diressi verso l'uscita. Sbagliai strada e mi ritrovai nella sala del tesoro. Me ne accorsi perché c'era il tesoro. Svaligiai tutto, riempiendo le tasche del mio eskimo. Sì, adoro quella canzone di Guccini. E De André. E ogni singola digressione nata per libera associazione da una semplice parola.
Grasso di refurtiva mi accinsi a uscire con fredda e calcolata eleganza. Il maggiordomo mi squadrò da capo a piedi, ma non trovò nulla. Non c'è niente più nascosto dell'evidenza.
Il cocchiere era lì e c'era anche Lucien, la direttrice di Re-volver. Le dissi - Che belle gambe hai, a che ora aprono?! -.
- Una battuta anni '70 riciclata, a zampe d'elefante. Piuttosto, hai fatto l'intervista? - fece lei, serrando le gambe a mo’ di portone blindato.
Bastien sbucò dalla palude, senza un braccio ma con un atomo d’idrogeno in più. Porse il foglio.
Intervista ad Artur Mc Arte
Tu cosa vuoi da noi?
Voglio un’estinzione elegante.
Puoi curarci?
Sono la malattia e la cura di chi si occupa di me.
Sei immortale?
“Tu l’hai detto!”
Esisti veramente?
Posso esistere solo se tu mi dai un cuore, o così disse l’uomo di latta nel film di Fleming.
Qual è la cosa più importante per te?
Io.
Dimmi qual è la domanda cui non si può rispondere.
TU, esisti veramente?