di Giorgia Tribuiani
Il protagonista (il primo che incontriamo) si chiama Ulisse. Il co-protagonista (e lo chiamiamo “co”, solo perché è il secondo che incontriamo… ma dalla sua parte ha il titolo), Achille. Lo scrittore, però, non si chiama Omero.
No, perché “Achille piè veloce” non è un libro antico, ma un libro davvero moderno e non solo perché Achille, idrocefalo, malato e paralizzato, parla digitando sulla tastiera di un computer, ma perché Stefano Benni affronta il tema della diversità col suo modernissimo stile carico di ironia (ma, al tempo stesso, privo di leggerezza), senza mai scendere nel patetico.
Così si può passare da discorsi su un libro scritto da autori che pesano più di 100 kg (“Aspetti… mi auguro che il taglio dell’intervista non sia sottilmente antiamericano” “Noi obesi non facciamo niente sottilmente”), a digressioni sull’arte dello scrivere (“un’operazione per dinosauri”, ragion per cui non bisognerebbe parlare di dattiloscritti, ma di “scrittodattili”) a toccanti dialoghi sui “piccoli malesseri transitori”(mordersi la lingua, farsi male radendosi, scordarsi il nome di un attore, l’autobus che è appena passato, eccetera), quelli per cui la gente comune si lamenta, mentre chiude gli occhi di fronte ai grandi dolori.
Achille, allora, in quest’ultimo caso, si assume il compito di “sensibilizzare” Ulisse, mentre l’altro lo aiuta a “vedere” ciò che lui – sempre chiuso nella sua stanza – non ha mai potuto vedere. E quest’impresa, quella di aprire gli occhi all’altro su un mondo mai vissuto, diventa degna dei nomi omerici che i personaggi portano. Dimostrando che non solo una battaglia combattuta con le armi può trasformare un uomo in un eroe.
di Luca Torzolini
È lui.
È sempre lui.
Il tratto distintivo delle storie di Bukowski è Bukowski.
Il poeta maledetto fra i maledetti, in grado di imboscare una riflessione filosofica tra un rutto e una scorreggia, diventato icona della letteratura “Pulp” degli anni ‘70, non smetterà mai di stupirci.
Storie di ordinaria follia è una raccolta di racconti osceni, assurdi e spesso inconcludenti.
Una poetica della disperazione, in grado di aggirarsi tra bar e bordelli, tira fuori, da questi luoghi dimenticati da Dio, lezioni sulla natura umana, spesso così profonde da essere fraintese per sciocchezze. Lo scrittore, lungi dalla ricerca della perfezione, utilizza meccanismi sintattici apparentemente semplici. Il testo, scarnificato dalle pesantezze linguistiche classiche dei letterati più famosi, è incredibilmente chiaro, ma nasconde complessi giochi letterari in grado di far “eiaculare” il lettore più volte (è una recensione di un libro pulp, cosa vi aspettavate?!)
Se leggi una riga, ti fermi e (senza sbirciare) cerchi dieci possibili continuity per il racconto, Bukowski ti fotte sempre: la sua “riga dopo” sarà più originale della tua.
Che altro dire del libro: c’è un tizio in grado di farsi licenziare di continuo, sempre sbronzo e in cerca di figa, che cerca di racimolare qualche vincita alle corse dei cavalli. E afferma di essere il più grande letterato dei suoi tempi!
Beh, è Bukowski… bisogna dargli ragione!