di Emidio De Berardinis
Lo spettacolo digitale ha cannibalizzato le altre forme di spettacolo. L’ibridazione è il risultato della fusione dei linguaggi e dei codici “nuovi”. La narrazione è stata frantumata in eventi; la rottura della linearità è la risposta alla coscienza del soggetto “non lineare”. Non si segue più un fine, la struttura attanziale non è più norma e caratteristica principale della narrazione. Lo spettacolo digitale vuole raccontare un evento, il passare del tempo, le modificazioni spaziali e liberare le possibilità. L’arte dello spettacolo digitale è lo scarto tra dionisiaco e apollineo, lascia parlare il corpo, il gesto, il movimento, l’espressione, il perturbante. Quanto l’influenza del digitale, delle telecamere di sorveglianza e della televisione, abbiano influito su questa rottura della narrazione lineare è evidente, l’attore perde la sua predominanza scenica. Gli oggetti hanno la stessa importanza dei corpi che perdono vita (non è forse il digitale a ridurre una realtà qualsiasi, anche organica, ad un numero?), e lo spazio è parte dell’attore, dello spettatore, dell’oggetto. Non più uno spazio-topos (il teatro), ma uno spazio di Emidio De Berardinis Cinema e videoarte che può essere anche la strada, l’ufficio, una chiesa (Ocean without a shore – Bill Viola), qualsiasi luogo. Qui l’influenza dell’happening. Come un’ evoluzione della ricerca dell’arte del Novecento tra figura e ambiente, gli spazi si intrecciano, i livelli si fondono, sia da un punto di vista spaziale, sia a livello temporale. Non più una concezione “classica” di tempo e spazio: il tempo perde il suo valore “ordinatore” e “sequenziale”. È un tempo frammentato, esposto al peso della relatività, non ci sono più un prima e un dopo, ma “immagini cristallo”, “immagini tempo”. Il tempo è la durata di un evento, di una modificazione; può durare per sempre o essere impercettibile e dilatato, velocizzato, rarefatto. Presente e passato convivono, sono presenti nello stesso luogo o non luogo. Così come lo spettatore. Può rimanere fuori dall’evento e “guardare fuori dalla finestra” come nell’ opera-mostra di Maurizio Cattelan (la fuga dell’artista al castello di Rivara), ma è comunque parte dell’opera (Rirkrit Tiravanija). Dopo l’ happening è lo spettatore colui che rende possibile l’opera; è lo spettatore l’opera che si fa scena, il pubblico nel momento in cui interpreta dà valore e contesto all’avvenimento (o al non avvenimento) (Dominique Gonzales-Foerster). Nello spettacolo digitale forme narrative come spazio e tempo, ma anche lo spettatore, sono come “liberati” dalle possibilità, nelle possibilità, e spariscono il dentro e il fuori, il performer e lo spettatore, l’ora, il già stato e il sarà. I vecchi media sono presenti e attivi. Gli spettacoli hanno luogo in vecchi cinema, ad esempio, utilizzano proiettori o televisori in scena, giornali come materia per le sculture, etc. L’evento digitale non ha scartato i vecchi linguaggi. Nell’era della post-produzione dove l’artista è il DJ e il programmatore, comunque colui che si riappropria della cultura, il mixage è il montaggio materico, spaziale e temporale dell’evento estatico (Douglas Gordon). Non una sostituzione, dunque, ma una riconfigurazione, una decontestualizzazione funzionale, un passaggio da una convenzione ad un’altra
di Emidio De Berardinis
Bill Viola. Tra i più grandi della video arte, è l’anti-frenesia, anti-isterismo, anti-frammentarietà postmoderni. È la rarefazione dell’attimo. È la materializzazione delle forze arcane della natura, dell’evoluzione di un’emozione, delle sensazioni che attecchiscono il corpo, del corpo nell’ambiente etc. Mistico e spirituale in un’epoca di ateismo e superficie. Non si limita al qui e ora, ma all’eterno dolore, assenza, perdita, nascita, separazione. I suoi video sono suoni e i suoi suoni immagini; i quattro elementi interagiscono con il corpo: L’acqua, il fuoco, il vento sono varchi, sono trasformazione, sono mezzi per spogliare il nostro sé e allo stesso tempo per delinearlo nel processo. Il sé è un passaggio, come in The Passing, uno scarto tra termini irriducibili, nascita e morte, tra l’acqua e la terra, tra fluidità, dinamismo e staticità: il se è il ritmo dell’esistenza, è velo tra Apollo e Dioniso, uguali ma diversi.
Un’opera tra la vasta produzione di Viola: An Ocean Without a Shore (2007) è una istallazione intesa come limbo, un portale d’accesso per l’aldilà o per l’aldiquà. Nello schermo al plasma scorgiamo degli spettri avanzare da “lontano” in bianco e nero: non appartengono ai colori che ci circondano, ai colori del mondo, ai colori della vita. Sono i morti, spenti, che non abbandonano definitivamente la vita. Sono tra noi, stanno invertendo il loro percorso per tornare nel nostro mondo, per lasciare il buio. Un suono riverberato accompagna il loro cammino e i loro corpi si fanno più grandi, i contorni definiti, poi uno scroscio d’acqua li invade, li sommerge, li purifica dalla morte. Il confine è stato valicato, i defunti sono tra noi: l’acqua, anima oltre la materia, diventa il limite sottile che separa la vita dalla morte, una barriera esile, un confine fragile. Ora hanno il nostro stesso colore. Concreti, pieni, in alta definizione, tangibili, illuminati dalla nostra stessa luce, ci guardano dritti negli occhi. Spaesamento, stupore, che lentamente si trasformano in consapevolezza della fisicità e inquietudine. Le loro espressioni attonite si trasformano in disillusione, sofferenza, solitudine, rassegnazione di ciò che la vita offre. Emergono. Ed emergono soli, non si incrociano nel passaggio, ognuno è prigioniero di e in se stesso, suscitando la sensazione di non appartenere più al nostro mondo. Infine si voltano e attraversano di nuovo il velo d’acqua, per tornare nella dimensione originaria, nel non-essere, nella profonda oscurità della morte, nell’ “oceano senza approdo” da dove sono venuti. Il nostro universo è contiguo alla morte e scopriamo di come essa conviva continuamente con la nostra vita. Non si può avere pienamente coscienza di ciò che è la vita, finché non si compara alla morte; né del tempo, finché non si rapporta ad un universo eterno, che è stato, è, e sarà anche dopo di noi.
di Emidio De Berardinis
…L’arte di oggi guarda intorno a sé. L’artista propone ciò che vede e rielabora quelle che sono le proprie chiavi di lettura del mondo, dell’esistenza. Esemplare, quasi maniacale, a tal proposito è la vita e l’arte di Nan Goldin. Fotografa e scrittrice, ha trattato della vita quotidiana, dall’amore, all’amicizia, dalla metà degli anni ’70 ad oggi, guardandosi semplicemente intorno. Le sue straordinarie istantanee ritraggono parenti, amici, ex fidanzati, se stessa, un “album di famiglia”, come parte di un’esistenza comune. Dove non arrivano le foto, i suoi taccuini, rigorosamente uguali, narrano vicende, parole, legami e malattia: un diario di vita per fermare ogni cosa che il cervello non riesce. La macchina fotografica come mezzo per fissare ciò che vede l’occhio nell’arco della propria esperienza sulla terra.
Mi trovo nella piazza della torre a Stoccolma, davanti a me l’imponente Kultur Huset, tempio della cultura internazionale della capitale svedese, alzo gli occhi e imponente Nan Goldin si riflette nei miei occhi e dimentico ogni programma della giornata. Sconto universitario all’ingresso e subito le enormi strazianti fotografie invadono ogni spazio, a urlare disperazione, dipendenza, amore misto a violenza. Shock. The Ballad of Sexual Dependency. 700 scatti (nella mostra una cinquantina esposte e tutte e 700 in una presentazione proiettata con ballate rock scelte dall’artista) propongono la quotidianità, momenti intimi, sesso e preliminari, solitudine, depressione, vestirsi, spogliarsi e mangiare: un film sugli usi e costumi dei sobborghi in ginocchio dal dilagante virus d’ immunodeficienza.
La relazione dell’artista con Brian, anche il momento appena dopo l’atto sessuale, quando è chiara la mancanza di comunicazione dei due, ripresi a preferire orizzonti opposti alle effusioni dovute (Nan and Brian in bed). Un rapporto come distanza ed estraniazione, impossibilità di comunicazione, segnato da forti crisi in Nan One Month after Being Battered quando il viso dell’artista è saturo di lividi da pestaggio. The Cookie Portfolio. La straziante storia, in 15 ritratti, della vita di Cookie, amico della Goldin, che attraversa l’amore, il matrimonio, la malattia e morte del compagno, e la sua degenerazione a causa dell’AIDS. Le foto della Goldin sono gli occhi dell’americano della porta accanto che negli anni ‘80 e ‘90 vive, cresce, affronta diversi problemi, stringe amicizie, si innamora, si ammala, vive le perdite, beve, si droga, si rialza etc. fino alla conclusione del proprio percorso. Il desiderio che spinge l’artista a registrare e raccontare tutto ciò le accade intorno, è preservare la memoria di qualsiasi cosa abbia a che fare con la propria esistenza nel mondo dall’azione dissolvente del tempo, dal veloce susseguirsi di vite e immagini nella città caotica di oggi. Foto fuori fuoco, istanti sfuggenti impressi nella pellicola, sono l’altro da se dell’oggetto che viene fuori e ci parla, sono i sentimenti che bruciano i contorni di ciò che raccontano, sono pellicola sviluppata mentre va a fuoco per la benzina emotiva che l’alimenta. Nan è una delle maggiori artiste della fotografia odierna, ha documentato la solitudine dell’individuo, la vita e le debolezze, di un’intera generazione, anno per anno, ha descritto in immagini l’allarme AIDS, espone la sua storia, regala ciò che vedono i suoi occhi e odono le sue orecchie, attraversa l’urlo che irrita e violenta lo sguardo indifferente del passante qualunque…
di Emidio De Berardinis
Come descrivere l’ultimo, nuovo, paradossale, atteso, anche con curiosità o sarcasmo, lavoro di Pete Doherty e soci? Shotter’s Nation, come tutti gli album in cui è presente Doherty, e i Libertines ne sanno qualcosa, è già un miracolo che fosse uscito. È un miracolo perché alla produzione dell’album è stato delineato Stephen Street, che più che un produttore è un agente dei Marines, ottimo per disciplinare almeno un po’ il nuovo genio ribelle del rock, ed è un miracolo perché Doherty ha da raccontare qualcosa di nuovo. Il genere? Tra Indie-Rock, Brit-Pop, Garage-Pop, Punk-Blues etc. il genere è una commistione, rielaborazione, dissacrazione e rinascita di generi. La realtà è che Pete Doherty è davvero la nuova rockstar, conosce la letteratura, vive tra scandali e disintossicazione e fughe e Kate Moss, alzando tanto di quel polverone che è inevitabile l’affluenza nei concerti per il villaggio mediatico che oggi abitiamo. Pete compone al volo e compone bene, nei suoi testi c’è il riflesso della cultura e lo specchio del presente, invettive, sesso e sogni. L’album è sicuramente più maturo e rifinito del primo Down In Albion e forse per questo perde un po’dell’impatto cacofonico stile Sex Pistols, avvicinandosi più ai Kinks o ai Clash o ai Madness, staccandosi quindi dal Brit tradizionale e dall’Indie attuale. I Babyshambles sono un gruppo esclusivo e nessuno, Libertines a parte, si avvicina al loro sound. L’album inizia con Carry On Up The Morning, libertinesiana schitarrata, che fa già presagire però un album più pulito. Poi il singolo Delivery e la melodica You Talk. Poi Side Of The Road, molto punk, e il “new blues” di Crumb Begging introducono l’immancabile e classica ballata “UnBiloTitled” e un rock lento “UnStookieTitled”. French Dog Blues scritta pare insieme a Kate Moss sarà probabilmente una delle canzoni più suonate nei Baby live e “There She Goes (A Little Heartache)” già presente nelle “Babyshambles Sessions” dei Libertines è uno swing che entra nel cervello; Baddie's Bolgi” fa molto Strokes e Deft Left Hand molto Brit. Lost Art Of Murder è il talento in musica di Pete. Per concludere Shotter’s Nation è l’album di oggi, consigliato perché originale essendo il leader e compositore originale e attuale. Un in bocca al lupo a Pete con la droga, sperando che rimanga tra noi a cantarci cose nuove da guardarci dentro.
di Emidio De Berardinis
L’arte non è esaurita. Oggi è sottilissima più che mai. È vero, probabilmente, come nella musica, è costituita da rielaborazioni, in sfumature di originalità, del passato, ma è proprio il fatto che sono sfumature a renderla originale e unica, e restituirla più sottile. Nella musica si utilizzano effetti per dare un suono attuale a ciò che si esegue. Così, l’arte che oggi maggiormente viene esposta nelle biennali è digitale. Non solo però. Ci sono artisti che rielaborano l’happening di Allan Kaprow, impersonando se stessi icone della musica e dello spettacolo. Altri, invece, cercano nell’attualità i soggetti delle proprie opere, tornando a un interesse verso ciò che è familiare, rifugio introspettivo. Altri combattono la concettualità, con soggetti contornati da luci e colori in un’armonia estetica. Vero è anche che oggi è difficile scindere ciò che è arte da ciò che non lo è, un filo capillare, perché ognuno ha una visione soggettiva dal giorno in cui tutto è stato definito arte.
L’arte è soggettiva: per qualcuno Basquiat ritrae soltanto scarabocchi, per altri Warhol è soltanto un pubblicitario, senza rendersi conto che è grazie a lui che l’arte è stata messa di nuovo in discussione. Questo spazio è dedicato a chi riesce a mettere del suo nell’arte di oggi, a chi riesce a distaccarsi dalle ridondanze di ieri, grandiose, e cercare di partire da lì, per rimettere in piedi un mercato di idee e intuizioni visive (e non) correndo sul filo invisibile al limite della non-arte. Picasso o Dalì, Michelangelo o Raffaello, celebri a tutti per ovvi motivi, non saranno presenti all’appello. L’interesse è di approfondire il perché si è arrivati a concepire tutto arte, partire dal recente, contestualizzarlo, rivalutare le idee di oggi e al massimo di “ieri sera”, basta parlare degli “anni scorsi”, basta Picasso, basta Dalì, basta Michelangelo e Raffaello. Se oggi è difficile creare del nuovo è perché si è rimasti ancorati all’apice passato, così nella musica, troppe orecchie ancora attaccate al “dadaumpa”, massimo splendore. È ora di andare avanti. È ora che Leonardo o i Led Zeppelin siano patrimonio culturale per andare oltre.
Una volta si conosceva l’oggi e non la storia, oggi tutti studiano la storia almeno nelle scuole dell’obbligo, ma pochi si interessano all’attuale, o almeno al recente ed è per questo che sarà presente qui, perché non è corretto che siamo nel 2008 e che nessuno parla ancora di Cattelan o di Klee, perché l’attuale è complesso, è fatto di uomini o donne che hanno studiato la storia e stanchi di rimanere lì hanno deciso di andare oltre. Siccome per la maggior parte di noi l’arte è un’opera realista, perché “sembra una foto”, è difficile comprendere la “Merda d’artista” e considerarla arte, pochi si sono chiesti il significato di tale provocazione. Parlo sempre di arte contemporanea. Questo non è uno spazio in cui si discuteranno, in lessico specifico, materiali e tecniche, ma si partirà anche da lì per capire i perché e le idee, attraverso gli occhi di chi è un semplice appassionato e scettico del classico “L’arte degli antichi è insuperabile”. C’è un motivo per cui si è passati dall’arte greca a quella medievale (e c’è voluto un po’ anche a me per capirlo). E c’è un motivo per cui si è passati da ciò che era concettuale agli espressionisti astratti, alle “Zuppe Campbell”, all’era digitale. Il flusso discorsivo non verrà mai interrotto, così come le idee nella storia sono sempre state riprese e innovate, un’enciclopedia di attualità divisa in piccoli specchi…