Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni 2010.
Quest’anno al festival “Collisioni” abbiamo parlato di vite parallele, persone, esperienze artistiche che corrono l’una accanto all’altra, si intrecciano. La storia di Tonino Guerra è una storia di grandi intese creative: Antonioni, Tarkovski, Francesco Rosi, i fratelli Taviani, Angelopoulos. E Fellini naturalmente.
Fellini era di Rimini, io di Santarcangelo. Lui era della città ed io della campagna, a dieci chilometri. Ma il nostro incontro è avvenuto a Roma. Fellini mi ha aiutato molto nel lavoro, nei primi tempi, quando facevo la fame. Ed è stato un gesto di grande amicizia. Sono passati molti anni ed è venuto il tempo in cui abbiamo fatto insieme Amarcord, ricordando la nostra infanzia. Si sono inventati un sacco di balle sul titolo. Per trovare un titolo al film, nemmeno immaginate quanti giorni siamo rimasti a pensarci. Si navigava attorno a ipotesi come il Piccolo Borgo, Il borgo di Campagna. Poi un giorno dicemmo: “Qual era quell’aperitivo che andava di moda e che le persone ricche compravano? Mi dia un Amaro Cora. Un Amaro Cora… Ecco, Amarcord.” Tanti episodi; come la scena che tutti gli sceneggiatori del mondo m’invidiano.
Quella del matto che dice “Voglio una donna!”, sapete, è venuta da Torino. Un giorno, leggendo La stampa, fui attirato dalla notizia di un pazzo a Torino affacciatosi una domenica dal balconcino del suo manicomio che aveva cominciato a gridare “Voglio una donna!... Voglio una donna!”. Io intanto avevo scritto la storia di un uomo che saliva su un albero e gridava. Ed è così che nacque quell’episodio del film.
Lei ha lavorato con i più grandi maestri del cinema internazionale ed erano personalità molto diverse tra loro, con poetiche molto differenti. Immagino che con ognuno lei abbia dovuto trovare un modo per lavorare, un’affinità creativa...
In realtà erano loro che trovavano in me qualcosa da utilizzare. Ricordo una conversazione tra Fellini e Tarkovski. Uno di loro ha detto: “Ma sai, noi registi prendiamo sempre dei brandelli di un poeta”. Per questo dico sempre ai giovani: “Non scrivete sceneggiature o soggetti, sono inutili, dovete scrivere racconti, dimostrare che siete capaci di scrivere per conto vostro”. Io con Fellini, ma anche con Antonioni e Tarkovski, cominciavo a lavorare senza che nessuno di noi avesse la minima idea di quello che avremmo raccontato nel film. Le cose nascevano insieme, incontrandoci. Ho sempre avuto massima libertà creativa con loro, un rapporto alla pari. Una cosa che non piaceva a me, non si faceva. E viceversa. I litigi, poi, erano esplosivi. Per esempio con Antonioni in America, mentre lavoravamo a Zabriskie Point, si rasentò quasi la follia. Un giorno Sam Sheppard, che allora era giovanissimo e veniva lì a imparare, è uscito da casa dicendo: “Quei due sono pazzi, stamattina hanno rotto un armadio mentre litigavano sul film!”.
Nella miriade d’incontri che hanno costellato la sua vita, ce n’è uno che non posso fare a meno di ricordare: quello con Ennio Flaiano, con cui lei ha collaborato a La Notte di Antonioni.
Credetemi: nessuno parla come si deve degli sceneggiatori. Si parla del cinema italiano e non degli sceneggiatori. Prendete Sordi, per esempio: senza Sonigo non sarebbe esistito. Così Fellini non poteva fare 8½ senza Flaiano. In La Notte di Antonioni, la lettera finale scritta da Flaiano ha qualcosa di magistrale. Ricordo che, in quel periodo col regista, passavamo il tempo a giocare sul pavimento di casa sua. Perché con lui non si sceneggiava in modo convenzionale, si passava il tempo a giocare. E s’inventavano giochi, come vincere a tirare una palla di carta in un cestino. Appena ci incontravamo al mattino, lui chiedeva: “Che gioco facciamo oggi?” Ed erano giochi terribili. Ecco perché rompevamo i mobili! Sul pianerottolo della mia casa di Roma, per esempio, gareggiavamo a chi arrivava primo nell’appartamento, che era al quinto piano, lui di corsa, il grande tennista, e io con l’ascensore. Correva così veloce che quando aprivo la porta dell’ascensore lo trovavo già dentro casa. Prendeva molto sul serio i giochi ed era molto competitivo. Mentre scrivevamo La Notte, il nostro gioco consisteva nel tirare una pietra piatta sul pavimento di marmo di casa sua e nel centrare le strisce oblique. Un bel giorno arrivano i produttori dalla Francia dicendo: “Siamo pronti per girare”. Lui dice: “Sì sì, stiamo finendo”. Non avevamo scritto una sola riga, così telefonammo spaventati a Flaiano. Era un uomo spiritoso al massimo, tutta Roma andava avanti con le sue battute. Un uomo di un’intelligenza folle. Anche un uomo che si portava dentro un dolore enorme, però, per via di sua figlia paralizzata che viveva con lui. Poi purtroppo è morta.
Un po’ come tutta Roma andava avanti con le battute di Flaiano, una buona parte d’Italia, compresi noi che siamo nati dopo, è andata avanti con l’immaginario erotico di Amarcord. Questi personaggi, la Tabaccaia, la Gradisca, la Volpina, le mogli del Sultano, come sono nati? Che tipo di rapporto c’era tra lei e Fellini?
Un rapporto sincero, il rapporto tra due romagnoli! Ho centinaia di ricordi con lui. Spesso ci facevamo insieme una passeggiata. E un giorno abbiamo visto dalla vetrina di un barbiere due poltrone libere, siamo entrati e ci siamo seduti. Il barbiere ha chiesto: “Barba o capelli?”. “No, niente ci stiamo solo riposando”. “Ma ragazzi, queste sono le poltrone di un barbiere!”. “E dai! Dieci minuti, un attimo di riposo!”. In un’altra occasione, siamo entrati in una bottega, dove vendevano cravatte. Il problema di Federico sono sempre stati i capelli. Non riusciva mai a tenerli a posto. Entrando in quel negozio chiese: “Avete dell’unguento per capelli?”, e il commesso “No, qui vendiamo cravatte”. E Federico: “Va bene, prendo la cravatta. Mi piacciono le cravatte. Voglio questa, quant’è?” “Venticinque”. “Facciamo Venti”. “Il prezzo è fisso, non si può”. “Come non si può? Noi veniamo dalla campagna. In campagna il prezzo lo trattiamo sempre. Facciamo ventidue”. “Ma qui non funziona così”. “Va bene, me la dia”. Lui gli dà la cravatta e Federico paga trenta. “Scusi e il resto?” E lui: “Se devo pagare un prezzo fisso, almeno voglio deciderlo io!”, quindi se n’è andato. Di queste cose ne avremmo fatte a migliaia. Ne ricordo una in particolare quando arrivò a Roma una giornalista tedesca, un donnone che doveva intervistare Fellini. Io ero stato prigioniero in Germania durante la guerra, gli dissi allora: “Traduco io”. Non sapevo un cazzo di tedesco. La giornalista fa la prima domanda ed io traduco: “Ultimamente è andato a letto con molte donne?”. Lui fa un salto sulla sedia: “Com’è possibile che mi abbia chiesto una cosa del genere?” Ed io: “Cosa posso fare io, se non tradurre? Lascia stare e rispondi” Siamo andati avanti un’ora. C’era da morire.
Amarcord ci ha regalato l’immaginazione. Ginger e Fred ci ha profetizzato l’Italia che entrava nell’era della pubblicità e del Cavalier Lombardoni.
In Ginger e Fred quel che colpisce veramente è la presenza di un Mastroianni davvero potente. Guardatelo bene.
Questi due ballerini di campa- Cinema e videoarte gna finalmente hanno l’occasione di esibirsi in televisione. C’è quel momento prima del loro numero con tutte quelle ballerine intorno, una scenografia che loro nella vita non avrebbero mai sognato. Mastroianni è lì, in attesa, e ha paura. Gli brillano gli occhi per l’emozione. Lei è più composta, più sicura di sé. Da un momento all’altro lo spettacolo avrà inizio. Poi finalmente attacca la musica. Ma Mastroianni al primo passo subito cade. E lì non cade un uomo, cade l’umanità contadina, cade l’umanità povera, cade questa bellezza, questa ingenuità. È una cosa grandiosa, questa caduta. Non cade Mastroianni. Cadiamo tutti noi.
Che cosa direbbe oggi a un giovane che volesse intraprendere la carriera di sceneggiatore?
Dico di non seguire la mia strada. Viviamo in un momento terribile. Noi siamo stati fortunati. Venivamo dal Dopoguerra, quando la sofferenza era di tutti. E le storie avevano qualcosa di universale, il ritorno del soldato dal fronte, che fosse russo, inglese o italiano. Avevamo un sogno collettivo. È vero che i grandi temi tipo: “Perché siamo al mondo? Dove andiamo a finire? Chi siamo?”, restano universali. Ma questi non interessano più a nessuno.
Leggendo le sue opere, e anche sentendola parlare, mi pare che lei abbia un rapporto privilegiato con il paesaggio. E con la natura, ovviamente.
Io sono un uomo che non vorrebbe avvelenare l’aria e l’acqua come si sta facendo oggi. Ritorniamo ad avere devozione per la terra, a capire che tutto dipende da lei! Amiamo l’orto! Io amo l’orto, non il giardino. E alle persone anziane (come me) vorrei dire: “Non fatevi i giardini all’inglese vicino a casa, fatevi l’orto!”. Perché una persona anziana ha bisogno di veder crescere l’insalata, che nasce, che muore qualcosa. Cerchiamo di avere un rapporto con la natura. La cattiveria dell’uomo è incalcolabile. Fermiamo questa cattiveria. Qui vicino, nell’orto, è da stamattina che vengo a vedere un giovane albero fiorito, un piccolo melo che non aveva mai fatto niente. E adesso improvvisamente si è riempito di fiori tanto che non riesce più a stare in piedi. “Non esagerare”, gli ho detto passandogli accanto.