Holy EYE

CERTIFIED

di Hanry Menphis e Giorgia Tribuiani

 

Verrà un tempo in cui un meteorite grande come l'Alaska si abbatterà violentemente sul nostro pianeta, deformandone l'assetto e mutandone radicalmente l'atmosfera. I cieli si oscureranno e l'aria diventerà irrespirabile; allora per la specie umana sarà finita. E in che modo avremo lasciato il segno in questo universo? Come potranno, un giorno, esseri di altre galassie sapere che l'uomo, in queste poche centinaia di migliaia di anni, ha saputo sfruttare il proprio cervello anche in maniera positiva?

Stefano Benni un'idea ce l'ha. Per lui sarà l'arte a rappresentare il meglio della storia umana e allora, accompagnato dal maestro Umberto Petrin al pianoforte (il tutto nel suggestivo allestimento scenico di Fabio Vignaroli), si è fatto portavoce di tutti gli uomini e, all'Auditorium Parco della Musica di Roma, il 21 gennaio 2011, ha selezionato per noi cosa portare su L'ultima astronave.

Dunque gli alieni si ritroveranno fra le mani il frutto tangibile dello storico desiderio umano di comunicare: dai graffiti paleolitici al genio di Leonardo Da Vinci, dall'immaginario fantastico di Hieronymus Bosch ai ritratti di Diego Velàsquez, da Vincent Van Gogh a Cy Twombly; ma anche Klee, Bacon e Walt Disney con i suoi elefanti rosa.

Benni non fa economia di sentimenti, buoni o cattivi che siano, per accompagnarci in questo viaggio interspaziale in cui verremo giudicati non per quello che siamo, ma per ciò che abbiamo creato, sia esso letteratura, musica o pittura. E quando giunge la conclusione, coinvolgente è la chiusura dell'artista, un crescendo che appare come una spasmodica ricerca del senso della vita e dell'arte e che approda in quei definitivi punti di sospensione che ancora lasciano l'umanità col fiato sospeso e che trovano espressione, per Stefano Benni, nelle parole di Van Gogh: “Sto ancora cercando”.

Lo spettacolo è finito, ma il sipario non si chiude: l'artista ha ancora un regalo per il suo pubblico. Un racconto, stavolta, una storia fantastica su quella vecchiaia fin troppo reale che ha il sapore della solitudine. Ma anche della speranza, racconta Benni, poiché al di là di cosa è reale e cosa no, al di là di cosa sia l'arte e di ciò che ci riserveranno il futuro e la fine del mondo, l'uomo - così come l'anziano del racconto - non cerca che una mano da stringere e un cielo dove poter volare.

 

Enrico Ruggeri è un artista che fuga il pericolo contenuto nel detto: “non esistono domande stupide, esistono risposte stupide”. Con Enrico non esiste mai una risposta banale, anche quando la domanda sembra ovvia le sue risposte sono ricercate e mai simili tra loro. In questi mesi Enrico è uscito dal suo seminato abituale. Infatti, la prestigiosa carriera di cantante è stata affiancata dal suo primo romanzo, intitolato Che giorno sarà edito da Kowalski. L’ennesimo tassello della sua poliedricità: basti pensare che una delle canzoni più amate e cantate dalle donne, Quello che le donne non dicono, sia stata scritta da lui e dal chitarrista che con lui ha condiviso trent’anni di percorso musicale, Luigi Schiavone.

In occasione del “tour” di presentazione del libro è nata questa piacevole intervista.

Il tuo libro narra di un cantante che realizza una sola canzone di successo e poi sparisce dalla scena. Scrivere di Francesco Ronchi, il protagonista del romanzo, è stata una forma di esorcizzazione?
Sicuramente, l’arte è una forma di esorcizzazione. Io faccio spesso l’esempio di Foscolo che fa morire Jacopo Ortis per non suicidarsi, oppure dei bisticci tra fidanzati o delle preoccupazioni per un parente. Queste cose ti portano a scrivere canzoni su due che si lasciano o sulle persone che non hai più. Scrivere è il modo migliore per esorcizzare le proprie paure e conoscersi meglio.

Hai detto che le bozze del libro, durante la sua stesura, sono state lette dal regista Fausto Brizzi. Se ne venisse fatto un film, che canzoni tue e non tue sceglieresti?
Di mie probabilmente non ne sceglierei, poiché questo libro è un po’ il contrario di me. Io non sono Francesco Ronchi, ma non sono nemmeno Paolo Europa (l’antagonista di successo ndr). Non ci sono personaggi riconducibili direttamente a me: parlo di un mondo degli anni ‘80 dal quale mi distaccai presto. Di canzoni non mie, forse sceglierei quelle delle meteore che attraversarono gli anni ‘80, gli eroi di una stagione.

Tuttavia, in alcune parti emergi prepotentemente. Nei capitoli si dipana una descrizione abbastanza cinica della parte peggiore dello show-biz musicale, personaggi grotteschi che sono pronti a sbranare chi sogna il successo. È possibile fare associazioni e provare a immaginare che dietro i personaggi fittizi del libro si nascondano persone che davvero hai conosciuto?
Sì, ma non in maniera automatica. Nessuna persona della mia vita assomiglia precisamente a quelle descritte nel libro: sono immagini sovrapposte. In questo credo di aver lavorato molto bene; ho utilizzato delle caratteristiche umane costruendo come puzzle i vari personaggi.

Alla luce di quanto hai descritto nel libro, come vedi il mondo della discografia italiana?
Adesso è un mondo più freddo. Forse ci sono meno cialtroni rispetto agli anni ‘80, ma è venuta meno anche questa forma grossolana di creatività. Cercare di lavorare più sul personaggio, oggi, è mordi e fuggi; in più la pirateria musicale ha creato un mondo in cui non si investe più con le risorse di prima, quindi i cialtroni nemmeno ci provano o restano subito confinati. Sicuramente era più romantico e meno cinico il mondo della musica degli anni ‘80. Oggi, con “Amici” e “X Factor”, le case discografiche vedono subito se il personaggio funziona e chi non funziona resta fuori; è tutto più asettico. Dai il disco alla radio, la radio non lo passa, fine della storia. Forse qualche personaggio del mio libro potremmo trovarlo, adesso, in qualche concorso canoro minore, ma le multinazionali fanno solo copia e incolla. Non per colpa loro, è il mercato che glielo impone.

Vittorio Gassman diceva che per esprimere la propria arte bisogna prima di tutto accettare compromessi con i media. Pensi che sia così oppure godi di molta libertà espressiva?
Con i media devi interagire, volente o nolente. Al di là di questa intervista, che è molto piacevole, devi parlare con giornali che non leggeresti mai e andare in trasmissioni che non vedi. La comunicazione è abbastanza indiscriminata. Credo che sia dannoso il compromesso artistico, come anche cercare le amicizie, il giro che conta, l’appoggio giusto. Anche perché essere riconosciuti come liberi pensatori è una soddisfazione.

In Italia sembra essere importante sapere da che parte sei schierato. L’autonomia di pensiero e di azione è cosa rara. Questo clima e questa esigenza di schieramento viene avvertito anche nel mondo della canzone?
È quella la vera prostituzione: andarsi a prendere l’applauso dicendo la cosa che è di moda e facendo il soldatino. Ho sempre evitato di far parte di uno schieramento: ogni volta è bello poter prendere una posizione a seconda di quello che ti suggerisce il tuo cervello.

Tempo fa hai detto che se adesso esistesse un De André farebbe molta fatica a venir fuori. Cosa consiglieresti tu a un giovane per farsi largo nel mondo musicale?
Di battersi affinché cessi la pirateria su internet, perché riduce gli spazi e la libertà nel mondo musicale, che sono la sua salvezza. In secondo luogo, preferire sé stesso ai propri modelli e considerare la musica come una bella esperienza, sempre e comunque.

Per una volta prova a essere presuntuoso, anche se non ti appartiene. Di cosa vai fiero?
Caratterialmente mi rende fiero il non abbattermi mai troppo per le sconfitte e il non esaltarmi troppo per i trionfi. Il fatto di non essere catalogabile artisticamente. Inoltre, mi sono tolto grandi soddisfazioni: la tournee con l’orchestra, quella acustica, da solo con piano e contrabbasso, da jazz folk con Alberto Guareschi e Davide Brambilla (ora fisarmonicista di Davide Van De Sfroos).

Hai una profonda cura, non solo della musica, ma anche dei testi. La tua cultura è figlia di curiosità o è un retaggio familiare?
Tutte e due le cose. Probabilmente la gente curiosa ha più cose da dire. Mi piace leggere, è una bella avventura.

Tra le tue canzoni e il repertorio altrui, c’è qualche brano che ti ha commosso particolarmente?
Ci sono canzoni mie che mi commuovono e che ho pudore di cantare: per esempio, La medesima canzone e Vorrei (l’una descrive un ospedale psichiatrico, l’altra racconta il momento in cui si sta per morire) le tengo per me. Non sono canzoni nate per essere passate in radio, chi ha voglia le ascolta su disco. Canzoni di altri che mi emozionano? L’album Berlin di Lou Reed: meraviglioso, uno degli imprinting del mio mondo musicale.

Chi vedi attualmente tagliato per cantare una tua canzone? Per chi ne scriveresti una?
Non so risponderti. Le mie collaborazioni nascono in maniera informale, per amicizia o tramite un contatto. È stato così con Fiorella Mannoia e con Morandi; l’ultima mia canzone per Giusy Ferreri è nata perché ci siamo conosciuti, abbiamo fraternizzato e tutto è sorto per caso. Se leghi con una persona che fa musica può essere che poi si faccia qualcosa insieme.

Con chi ti piacerebbe duettare, a parte le star che si sono succedute in All in (triplo album con una parte composta di canzoni in duo)?
Mi viene in mente mio figlio Pico, ma lui non vorrebbe e non è il caso. Mi direbbe di no e avrebbe ragione! Per cui non glielo chiederò mai.

Quale cantante della tua città hai più ammirato? E in assoluto?
In assoluto Francesco De Gregori. Della mia città, Nanni Svampa (cabarettista e cantante), perché ha fatto l’ironia de I Gufi (gruppo di cabaret da lui fondato) e perché ha tradotto Brassens, dicendo che lo traduceva mentre altri non lo dicevano.

Hai detto che rileggere il tuo libro, Che giorno sarà, prima di darlo alle stampe ti ha commosso, come convincere anche il pubblico che è un libro da leggere?
Prendo in prestito quello che mi ha scritto Dario Ballantini: questo non è il più bel libro che sia mai stato scritto nella storia dell’uomo, ma è un libro interessante e tratta temi attuali.

Aggiungo io, con un finale totalmente imprevedibile.

di Cesare Del Ferro

foto di Claudio Romano

 

“Madre Tierra” è solo uno dei tanti appuntamenti musicali organizzati nel locale albense “Peccato Originale”, punto di rendez-vous jazz nel Teramano, caratterizzato dall’ottima qualità dei cocktail, dispensati dal barman freestyler “Cugg”, e dalla particolare disposizione di luci e pitture. Rosalia de Souza, rinomata artista musicale del panorama brasiliano e celebre anche per la collaborazione con il musicista italiano Nicola Conte, stasera è accompagnata dagli arrangiamenti latin jazz di Daniele Ferretti e Martin Diaz.

Nel finale della serata l’artista brasiliana parla con me dei propri progetti:

Come definisci il tuo rapporto con la musica jazz?
Mi piace ascoltare la musica jazz, ma non ritengo di essere una musicista che si può racchiudere in questo genere musicale, perché non considero la bossanova come musica jazz, ma piuttosto un genere a sé. Artisti come Antonio Carlos Jobim, Stan Getz, Joao Gilberto e altri sono e rappresentano la bossanova, considerata il rifacimento della musica classica brasiliana. Per esempio, il modo di suonare di Jobim interpreta in chiave contemporanea la bossanova; le sue composizioni sono caratterizzate da accordi che tutti classificano come jazz, ma in realtà è musica classica brasiliana. Tornando al nostro discorso, il mio rapporto con il jazz è ottimo: nella sua concezione classica è un genere basato soprattutto sull’improvvisazione e l’interpretazione che il musicista sente di dare ad ogni brano. Amo spaziare e cercare il massimo della libertà sia negli accordi sia nella vocalità.

D’improvviso, il tuo ultimo album, fonde in sé sonorità classiche della bossanova, con qualche sfumatura afro e jazz. Come mai la scelta di introdurre una traccia in italiano?
Non è la prima volta che canto in italiano. Nel 1994 ho cantato con il gruppo Quintetto X la canzone Senza paura, cover di Ornella Vanoni. La gente, purtroppo, non l’ha recepita più di tanto. La scelta di introdurre D’improvviso è quindi dovuta al mio forte desiderio di richiamare il pubblico italiano. Sono diciotto anni che faccio questo lavoro e da sempre mi chiedono di cantare brani di Mina, Pino Daniele e altri; alla fine ho deciso di portare questo brano, originalmente scritto in spagnolo, anche in italiano, adattandone le sonorità.

So che vivi e lavori a Roma. Come trovi questa città dal punto di vista ispiratore?
L’ispirazione non la trovo nella città di Roma, anche perché i mie contatti musicali sono proiettati verso il sud. Roma è il centro dei miei legami familiari, ma per le mie performance mi sposto a Bari e Salerno.

Attualmente stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Sto lavorando a tanti progetti. Ho in cantiere un disco che sarà prodotto in Brasile e ne ho inciso un altro (che uscirà a marzo) di musica Drum’n’Bass con un gruppo tedesco. Mi piacerebbe fare tante altre cose, ma è difficoltoso per questioni di tempo e per le abitudini di alcuni musicisti. Non è un modo di fare cui sono abituata (i brasiliani in quindici giorni riescono a produrre un cd); qua le cose funzionano un po’ a rilento: da un progetto musicale alla relativa realizzazione passa davvero troppo tempo. All’estero è più semplice portare a termine certi progetti.
Il mio sogno più grande è quello di istituire un’associazione italo-brasiliana d’interscambio culturale: vorrei organizzare eventi legati non solo alla musica, ma anche al teatro, alla musica e alla pittura.

Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il modo più crudo per definire la storia degli ultimi decenni di questo paese e sono certo di non esagerare. Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il titolo di un romanzo gotico ristampato nei nostri giorni, oppure il nome di una tela di Hieronymus Bosch, ma in questa sede è soltanto il nome di una vulcanica rock band emergente che ho potuto ammirare qualche sera fa in un esaltante live a Parabiago (Milano).
La ragione principale che mi spinge a parlare di questi musicisti non risiede tanto nella loro capacità musicale quanto nell’aver proposto una forma alternativa di veicolazione del suono: il progetto musicale de Il Teatro degli Orrori ha solide fondamenta e intenti ben definiti circa l’utilizzo della teatralità come tecnica di amplificazione del linguaggio musicale.
Prima di proseguire è doveroso presentarvi la formazione attuale del gruppo: Gionata Mirai (chitarra-voce), Francesco Valente (batteria), Pierpaolo Capovilla (voce), Nicola Manzan (chitarra–violino) e Tommaso Mantelli (basso). La band attua un sapiente utilizzo del teatro per potenziare, e spesso sublimare, la parola; le pause, le pose stilistiche (affascinanti nei live) e i testi poetici di Capovilla formano un linguaggio parallelo alla musica che scolpisce puntualmente la natura dei brani. La voce di Pierpaolo Capovilla, la cui timbrica ricorda ai nostalgici Carmelo Bene, alterna un registro stilistico da puro frontman insieme ad un cantato pulito. Il testo in musica, generalmente subordinato al suono, ne Il Teatro degli Orrori diventa la linfa stessa della musica, dove ogni sonorità è incentrata a sottolineare la potenza del messaggio contenuto nel testo. Il suono esplode, commenta, culla, addolcisce e sopratutto scatena la poesia del testo, proprio come in una vera pièce condensata in pochi minuti, dove in parte vengono annullati gli stilemi tradizionali della canzone. Percussioni e chitarre lavorano freneticamente in partiture disparate, fatte di raddoppi improvvisi e arpeggi dolcissimi, supportati da grandi giri di basso. La distorsione del suono giunge a sbalzi tenebrosi, quasi ad accostarsi alle improvvise alterazioni vocali di Capovilla che prosegue a “narrare” la canzone da vero artificiere.
Rivendico con forza la capacità de Il Teatro degli Orrori di essere tornata, come tanti gruppi del passato, a ricreare quelle atmosfere e quei stati d’animo ormai annullati dall'infame modo attuale di concepire la musica, quasi sempre un insieme di dance, costume e sterile tecnica strumentale. Dove è finita la trasfigurazione e l’effetto psichedelico che dava alle note quelle tinte così forti e visionarie nel suono? Non troverete una canzone de Il Teatro degli Orrori che non faccia del proprio suono un edificio poetico dove ammassare messaggi, sentimenti, allucinazioni e tensioni molteplici.

Il Teatro degli Orrori è ora in giro per l’Italia ad assolvere le date del loro tour estivo e per promuovere il loro ultimo lavoro: A Sangue Freddo (La Tempesta Records, 2009). Tra i vari impegni musicali il cantante Pierpaolo Capovilla ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda.

Ho notato nella tua voce una tecnica interpretativa che vuole scardinare il cantato tradizionale per potenziare il “come dire” piuttosto che il “dire”, quasi che il canto divenisse un fatto meramente linguistico. Ritieni che nella vostra musica sia essenziale procedere in questi termini?
Non parlerei di tecnica interpretativa, direi "attitudine attoriale". Il fatto è che sono un pessimo cantante...
Cerco sempre di immedesimarmi nelle canzoni e mi piace pensare che queste vivano di vita propria. Non io, ma esse, vivono sul palcoscenico, quasi fossero momenti di reale vita vissuta, superando la realtà della rappresentazione. Ecco, io non sono un cantante, sono un attore.

All’inizio della vostra carriera avevate tutti un progetto differente che con il tempo si è amalgamato in un suono preciso, oppure qualcuno ha spinto più degli altri per trovare nel teatro la metafora vincente per una sonorità selvaggia e aperta a infinite suggestioni?
Non c'è dubbio che Giulio Ragno Favero ha sempre svolto un ruolo preponderante nella composizione, esecuzione e registrazione dei nostri dischi, ma sta di fatto che un "gruppo" è un organismo collettivo: è nella dialettica plurale che le canzoni vengono composte ed è questo il bello di "essere gruppo", di condividere obiettivi, aspirazioni, speranze e ambizioni. Il capitalismo ci ruba la capacità di "fare insieme"; esser gruppo è quanto di più intimamente e poeticamente democratico esista.

Perché hai scelto il Théâtre de la cruauté di Antonin Artaud come scintilla ispiratrice per il gruppo?
Credo fermamente nella teoria del teatro di Artaud: il magnifico paradosso della rappresentazione più vera della vita stessa. Quando salgo sul palcoscenico finalmente vivo. Resuscito! Quando, invece, torno a casa a guardare la TV, o in ufficio a far di conto, o in fabbrica a menar bulloni muoio lentamente, senza neanche accorgermene. Quello che voglio da un concerto de Il Teatro degli Orrori è che il pubblico possa specchiarsi nel nostro spettacolo e portarsi a casa, non solo un semplice momento di intrattenimento e socializzazione, ma un pezzo, per quanto piccolo, di vera vita vissuta. Qualcosa che dura nel tempo e nel cuore.

Quali sono state le difficoltà principali riscontrate nell’editoria musicale per pubblicare il vostro primo lavoro Dell’Impero delle Tenebre (aprile 2007)?
Non c'è stata alcuna difficoltà, al contrario! C'è stato grande interesse da parte di più operatori discografici. Abbiamo scelto La Tempesta per simpatia ed affinità elettive.

Prendiamo in esame un ipotetico campione di vostri fans: credi che la poesia dei tuoi testi sia più veloce e penetrante della musica stessa per le loro orecchie, considerando anche la singolare performance della tua timbrica?
Non c'è dubbio. Da quando canto in italiano mi accorgo di quanta amorevolezza venga indirizzata verso le parole delle mie canzoni, nelle quali molti, giovani e meno giovani (il nostro pubblico, grazie al cielo, è davvero intergenerazionale), si riconoscono e si immedesimano. Che soddisfazione!

Che cosa è lesivo nella musica per quegli artisti che, come voi, tentano di affermarsi con le unghie e con il sudore?
La totale e sistematica indifferenza del legislatore nei confronti di tutto ciò che sia cultura. In altri paesi, come la Francia, lo stato ti da una mano. Qui no, mai. È uno schifo vedere un ministro dileggiare gli artisti, gli enti lirici, il cinema, i musicisti. Per l'attuale governo la cultura è un nemico da combattere, ma che ci vuoi fare? Con i Bondi, i Brunetta, le Gelmini e tutti gli altri ministri di questo miserabile esecutivo non si può far altro che collidere. Un giorno pagheranno, mi auguro, per il male fatto al paese.

Pensi che l’Italia potrà, un giorno, superare o modificare i pregiudizi in fatto di avanguardie musicali? In altre parole: perché i virtuosi e i veri talenti devono fuggire da questo inferno mediocre?
Beh... io non fuggo. Resto, per Dio! Resistere è la mia parola d'ordine.

In conclusione, Pierpaolo, credi che la poesia nella musica sia più estetica, etica o entrambe le cose?
Etica.

Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Quali sono i punti di contatto tra la cultura giapponese e l'arte operistica?
In realtà molto pochi. Forse solo ill modo in cui uso il respiro: è lo stesso del canto giapponese e del karate.

Il Giappone è molto famoso per i propri esecutori musicali virtuosi, anche enfant prodige. Cosa hanno le scuole di musica giapponesi che le altre non hanno?
Non è tanto l'istruzione ad essere speciale: i giapponesi hanno il dono di mescolare bene la cultura occidentale con la propria. Per cui un giapponese dotato di talento dispone di una percezione dell'arte più ampia rispetto ad altri.

In Italia l'opera lirica non gode di molta considerazione tra la gente comune, viene reputata come una forma d'arte di elìte. È lo stesso anche in Giappone?
In Giappone c'è lo stesso problema: solo una ristretta cerchia di persone si interessa all'opera. Tuttavia Riyoko Ikeda, con cui collaboro, ha una compagnia che aiuta i giovani ad emergere nel mondo della musica. Inoltre stiamo promuovendo un nuovo tipo di opera, metà narrata e metà cantata con i sottotitoli in bella vista. Così da estendere un po' la nostra arte a tutti.

Da parte delle istituzioni c'è un attenzione particolare per l'opera?
Il teatro dell'opera di Tokio è proprietà dello Stato, ma non hanno un'attività molto grande e lasciano esibire per lo più cantanti stranieri. Di tanto in tanto la televisione di stato trasmette l'opera nel fine settimana.
Devo dire che grazie ad alcuni manga molto famosi la gente comune si è avvicinata alla musica classica, però l'opera resta ancora qualcosa di troppo impegnativo.

Come ha iniziato la carriera operistica?
Di base ho la voce potente. Il mio maestro di musica mi ha convinto, senza alcuna preparazione, ad entrare nell'accademia di canto.
Quando mi sono diplomato non avevo lavoro, così ho iniziato a studiare opera in un laboratorio di ricerca musicale. Iniziando a recitare ho capito che avrei fatto questo per tutta la vita.

Quali sono le opere liriche che ha sentito più sue?
Da giovani, di solito, si hanno molti tormenti. Quando ho interpretato il Michele del Tabarro, un personaggio che diventa un omicida dopo essere stato tradito dalla moglie, mi sono reso conto che sul palco posso fare delle cose che non è possibile fare nella vita normale. È stata un'illuminazione, ho liberato il caos che avevo dentro.

Cosa del Giappone avrebbe voluto portare qui in Italia e cosa dell'Italia porterebbe in Giappone?
Dal Giappone sicuramente il riso, oltre ad un po' di cultura giapponese. Nel mio paese l'Italia è molto amata, più di quanto gli italiani possano immaginare; se fosse possibile prenderei una piccola chiesa ed un teatro: l'acustica qui in Italia è eccezionale.

Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Partiamo dal tour “Onda Libera”. Qual è la novità e qual è il rapporto con i beni confiscati alle mafie?
“Onda Libera” è iniziato nell'ormai lontano 2009. È un progetto particolare, durante il tour  abbiamo organizzato, insieme all'associazione “Libera”, una serie di concerti nei luoghi appartenuti alla mafia, come bar e hotel confiscati. Abbiamo suonato nella villa di Felice Maniero, in Veneto, anche per dimostrare che la mafia non è una cosa legata esclusivamente al Sud. Infatti abbiamo toccato regioni come la Lombardia, l'Emilia e la Toscana.

Ho visto che la copertina del CD è molto particolare. Com'è nata l'idea?
Diciamo che quella è la bandiera ideale. C'è un po' di Cuba, un po' di America; un mix dei colori del mondo, come del resto è l'album stesso.

Nel vocabolario dei Modena City Ramblers cosa c'è scritto accanto alla parola “libertà”?
Vita.

E accanto alla parola “censura”?
Non lo posso dire.

Voi credete che l'impegno politico da parte di un artista sia particolarmente importante?
La musica dev'essere prima di tutto divertimento, ma anche un modo per pensare, per veicolare dei messaggi e parlare di cose serie. Poi, girando molto e conoscendo tantissime persone, veniamo a contatto con una gran quantità di storie. È inevitabile che molte di esse colpiscano la nostra musica.

Quindi anche l'impegno sociale. Voi siete stati in Palestina...
In Palestina ci siamo stati tre volte, è stato molto bello. Con le vendite di un disco abbiamo finanziato la costruzione di un pozzo in un villaggio della campagna di Gerusalemme, presenziando alla sua inaugurazione. Abbiamo suonato in dei teatri e dopo abbiamo toccato con mano la realtà palestinese e quella israeliana, fatte di guerra e numerose crudeltà. Nel 2009 siamo ci siamo tornati per un evento bellissimo in cui abbiamo suonato con i ragazzi del conservatorio di Edward Said.

Mi ricollego al fatto che hai accennato alla guerra: nell'ultimo album avete parlato molto di guerra; guerra di vario tipo, come quella sul lavoro. Allora, tornando al vocabolario, cosa mettereste accanto a questa parola?
È una parola che non dovrebbe esistere. In un nostro brano, La ballata della dama bianca, parliamo delle morti sul lavoro. È una guerra non dichiarata, in Italia muoiono tre persone al giorno sul posto di lavoro.

Quali sono le principali influenze musicali nell'ultimo album?
In generale i Modena sono molto “irish”. L'ultimo CD è influenzato molto dalla musica del Sud: ci sono strumenti come mandolini e mandoloncelli, suoniamo in tre ottavi e ci rifacciamo alle tarantelle. Nel contempo ci sono band come i Gogol Bordello che ci ispirano sempre. Facciamo parte di una grande famiglia che parte dal folk e finisce al rock folk.

C'è anche una ricerca dialettale...
Sì. Ad esempio, nel brano Onda Libera il ritornello alterna frasi in napoletano e frasi in emiliano stretto.

Progetti futuri?
Siamo reduci di un tour europeo ed è ripartito il tour italiano, il nuovo disco è in lavorazione e poi... suonare, suonare, suonare!

di Giorgia Tribuiani e Luca Torzolini

foto di Gianfranco Mura

Come e quando è nata l’idea di dar vita al festival Collisioni?
L’idea di Collisioni è stata prima di tutto una grande sfida. Quando ci siamo trovati e abbiamo deciso di farlo c’era un profondo malessere nel mondo della cultura, dell’associazionismo e soprattutto in quello dei lettori; nel mondo di persone autentiche come i miei amici di Alba e quelli espatriati da Alba.
C’era il modello del Premio Grinzane Cavour e abbiamo fatto Collisioni lavorando in antitesi a quel modello. Non ci piaceva l’idea di un festival di letteratura elitario, dove è necessario un invito per partecipare e dove si trova solo una cultura di tipo accademico. Lo trovavamo sbagliato, vecchio, legato agli anni ’80. Il Premio Grinzane ci aveva lasciato l’idea che il libro fosse qualcosa di estremamente noioso e sorpassato.

Da chi è composto lo staff?
Il bello di Collisioni è che lo staff si arricchisce ogni anno di nuovi elementi, spesso gli stessi autori che hanno partecipato nelle edizioni precedenti. Per esempio Hari Kunzru, uno tra i più promettenti autori inglesi contemporanei e nostro ospite lo scorso anno, ha collaborato con passione all’ideazione artistica del cartellone del 2011. Poi ci sono artisti, giornalisti, scrittori come Antonio Scurati, Emilio Targia, Piero Negri Scaglione, Sergio Dogliani, Valerio Berruti. E naturalmente i volontari, che devo ringraziare davvero per l’entusiasmo che mettono sempre nel loro lavoro: da Paola Eusebio, che si occupa dell’organizzazione e del Progetto Giovani (uno dei progetti di maggior interesse del festival, che prevede l’ospitalità di più di 200 ragazzi da tutta Italia), a Serena Anselma, Gianluca Lovisolo, Fabrizio Davico, Antonio Spampanato e i moltissimi altri volontari che da tre anni sostengono moralmente l’iniziativa e continuano a crederci. Senza di loro Collisioni non esisterebbe.

Quali sono i criteri che utilizzate per selezionare gli artisti?
Gli artisti che chiamiamo sono innanzitutto autori di eccellenza, sia nel campo della letteratura sia in quello della musica. Quest’anno abbiamo l’onore di avere alcuni tra i maggiori scrittori internazionali viventi: da Paul Auster, a Salman Rushdie, a William Least Heat-Moon, a Hanif Kureishi; mentre per la musica il simbolo per eccellenza del rock italiano, Luciano Ligabue. Ovviamente sono tutti autori che hanno lasciato un segno profondo nella nostra sensibilità e che sono in grado di parlare a un pubblico di generazioni diverse, che s’incontrano, entrano in contatto tra loro e discutono di argomenti attuali. Naturalmente la letteratura è mescolata alla musica, gli scrittori dialogano con i musicisti e con gli altri artisti, creando prospettive diverse e traiettorie che possano suscitare riflessioni nuove nel pubblico.

Chi, tra gli artisti, ha dato maggiore sostegno all’evento?
Ho già citato Antonio Scurati e Hari Kunzru, che ci hanno sostenuto molto, ma non sono i soli. Devo dire che tutti gli autori che sono intervenuti a Collisioni, anche durante la nostra rassegna annuale, ci hanno sostenuto: Paolo Rumiz, Vittorino Andreoli, Serge Latouche, Jonathan Coe, tutti sono rimasti davvero entusiasti della nostra iniziativa, perché si sono trovati di fronte a un pubblico numeroso e molto caldo; un pubblico di lettori accorso anche da lontano per ascoltare la loro voce. Questo ha dato loro una nuova energia e una grande soddisfazione.

È stato difficile convincere a partecipare personalità internazionali come José Saramago, Riyoko Ikeda o Abraham Yehoshua?
Più che difficile, lungo. Soprattutto per quanto riguarda l’autrice di Lady Oscar, Riyoko Ikeda, che abbiamo contattato molti mesi prima della manifestazione. In generale, la programmazione inizia diversi mesi prima: spiegare il nostro progetto, complesso e molto particolare, richiede tempo ed energie, ma alla fine il lavoro ci ha sempre dato dei grandi risultati.

Il pubblico è riuscito a interagire con loro?
Certamente. Gli incontri prevedono sempre un intervento del pubblico con domande agli autori. Anzi, spesso abbiamo dovuto escludere delle domande per mancanza di tempo. In generale, comunque, l’atmosfera rilassata della manifestazione e del paese di Novello rende i nostri ospiti sempre più allegri e disponibili al contatto diretto con la gente, anche al di fuori degli interventi veri e propri.

Com’è stato accolto l’evento in Italia?
Abbiamo avuto spettatori da tutto il territorio nazionale, molti ne hanno approfittato per fare un weekend in Langa. Il festival ha anche attirato l’attenzione di giornali e testate nazionali.

In molti giustificano un’offerta culturale qualitativamente scarsa con una presunta domanda altrettanto bassa da parte del pubblico. Collisioni invalida questa tesi: com’è stato possibile coniugare la realizzazione di un evento “intellettuale” con un ampio successo di pubblico?
Questo è stato possibile con l’azione di coinvolgimento del territorio, l’atteggiamento aperto e collaborativo con qualsiasi realtà e associazione interessata a creare un sistema di rete, dove mettere in campo competenze e aiutarsi vicendevolmente. È importante, poi, non dimenticare i giovani, che se coinvolti possono dare un apporto rilevante alla cultura. Il grande lavoro che è stato fatto da Collisioni è stato aggregare persone, mettere insieme nello stesso cartellone nomi della letteratura e della musica più o meno popolari, non limitarsi a parlare linguaggi accademici, ma puntare sulla diffusione e sulla qualità allo stesso tempo; e soprattutto, avere stima del pubblico. Trovare seicento persone davanti a un teatro per ascoltare un incontro letterario suona quasi incredibile, ma dimostra come le persone non abbiano affatto smesso di leggere e di pensare.

Che ruolo ha avuto il web nella promozione del festival?
I canali web sono stati molto importanti per noi e per la nostra diffusione. Soprattutto perché, avendo un budget sempre ristretto, sono i mezzi più economici e più seguiti dalla gente e dai giovani. Sono facilmente aggiornabili e, specie i social network, sono un ulteriore mezzo di aggregazione e coinvolgimento diretto delle persone.

Può anticiparci qualcosa sul prossimo festival e suoi personaggi che saranno presenti?
Ho già citato alcuni nomi, ma ne voglio svelare altri. Prima di tutto voglio ricordare che il concerto di Caparezza si terrà venerdì 27 maggio come apertura del festival, anticipato da un dialogo tra il cantante pugliese e Don Ciotti. Poi ci sarà il dialogo tra Francesco Bianconi e Paolo Giordano, l’intervento di Paolo Nori, Maria Luisa Busi, Enrico Ruggeri, Elio, del grande regista premio Oscar Michael Cimino, Luciana Littizzetto, Roy Paci e di molti altri ancora che potrete scoprire sul nostro sito. Non dimentichiamo i duecento ragazzi del Progetto Giovani, che ci raggiungeranno da tutta Italia, per festeggiare sui nostri palchi il 150° anniversario dell’unità italiana.

A cosa punta l’evento in futuro?
Naturalmente puntiamo a migliorare la nostra offerta culturale, a coinvolgere quanta più gente possibile e a creare un movimento di libero pensiero che scardini categorie culturali e mediatiche dalle quali ormai ci sentiamo sempre più ingabbiati.

di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani

foto di Gianfranco Mura

www.collisioni.it

C’è chi giurerebbe che il polpettone di cultura low-cost troppo spesso rifilatoci sia esattamente ciò che abbiamo ordinato. Peccato che il menù non presenti alcuna variazione. La verità, in fin dei conti, è che una produzione culturale da fast-food, con menù unico, comporta un dispendio di energie molto minore per chi è dalla parte dell’offerta.

Economie di scala.

Peccato che il processo globale non tenga conto di fiammelle pilota che, indirizzate nel verso giusto, sarebbero in grado di provocare un “incendio culturale” incline al contagio. Patologiche e forse non altrettanto remunerative del fast-food, tese verso il bisogno di qualcosa che non si focalizzi sul tornaconto finanziario, garantiscono tuttavia un maggiore “ritorno qualitativo”.

Nella stessa direzione si muove la “fiamma” Collisioni.

Filippo Taricco, organizzatore dell’evento, è un uomo diretto e cordiale. Nonostante la nostra giovane età ci invita ad assistere alle esibizioni artistiche dell’evento, concedendoci la possibilità di intervistare personaggi di rilievo nell’ambiente culturale italiano ed internazionale. Così, in soli tre giorni, riusciamo ad appuntare impressioni e pensieri di Lucio Dalla, Gino Paoli, Riyoko Ikeda, Dan Fante, Paolo Rossi e molti altri autori interessanti.

Ogni evento è vissuto nell’area circoscritta di Novello. A piedi, nell’area di un chilometro, si viaggia tra eventi musicali e teatrali nella grande piazza principale, interviste radiofoniche che si svolgono in piena strada e il mistico raccoglimento in una chiesa, dove la voce di Riyoko Ikeda accompagnata dall’organo dimostra che, se lo vuole, una sceneggiatrice di fumetto si può trasformare in una cantante lirica di fama internazionale.

L’atmosfera dell’evento è rara, quasi al di fuori del tempo, e tanto è il piacere di prendervi parte quanto quello di darvene adesso un assaggio.

cartmagnifiercrossmenucross-circle linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram