Holy EYE

CERTIFIED

di Daniele Epifanio


Concerto dei “Samsara Blues Experiment
Barracudas, Madrid.
Venerdì 22/11/2013

Samsara Blues Experiment - Foto 2Non possedendo né un ingresso “artisti” né un backstage, l’attacco è diretto contro il pubblico. Alto quasi due metri, capelli biondi lunghi, barba aggressiva, sguardo da battaglia, uno dei due chitarristi, Hans Eiselt, si fa largo a colpi di custodia formato Les Paul tra la folla. La gente lo guarda, il pensiero è comune: “Cristo, arrivano i Vichinghi!”. A seguirlo, Thomas Vedder, moro, con gli occhiali e una barba fitta ma confusa, da pensatore, con un tamburo in una mano e uno sgabello ben foderato da batteria nell’altro. Tra i varchi che i due soldati aprono nella massa di gente, trova il tempo di infilarsi il bassista della band, Richard Behrens, nordico come gli altri due ma senza quella corporatura imponente che caratterizza i guerrieri norreni. Chi conosceva questa formazione sapeva che però mancava all’appello il fondatore, cantante e altro chitarrista della band: Christian Peters. Dal vociferare che si diffondeva tra il pubblico s’intuiva che il quarto elemento era impossibilitato a partecipare per causa di qualche virus intestinale…
Inizia il concerto senza neanche il soundcheck, i volumi sono equilibrati. Si alza un’onda di psichedelia, eco, delays, flagers, wah-wah. Interessante. Le canzoni sono senza testo e si costruiscono sopra un giro di basso sempre pulito, diretto, forte ma nel quale s’intravedono influenze Soul/Blues che trasmettono un’idea di leggerezza e di storia. Il batterista è una macchina, non perde un colpo e si districa perfettamente tra ritmi sincopati, controtempi e slanci metal. La chitarra, sempre distorta, si alterna tra assoli e ritmiche dure. Il pubblico, tranquillo ma affascinato, lascia andare la propria testa agli “headshakes”. Le canzoni variano tra alcune provate e preparate ad altre improvvisate, in cui a volte le chiusure suonano troppo strascicate o mancano di coordinazione.
Nel finale di uno dei brani, il vichingo più piccolo si avvicina al microfono e inizia a palare con un inglese molto tedesco “Do you understand English?”, domanda alquanto stravagante, “Well, as you know our band is composed of 4 elements, probably you are asking yourself why we are only three… well, the reason is SPANISH FOOD”. Un brusio gelido si diffonde tra gli spagnoli “Vorrà dire che mangiamo merda?”. Fortunatamente la ragazza accanto a me, ricoperta di tatuaggi, smorza la situazione generata dal complesso umorismo tedesco urlando “DIARREAA!”. Tutti sorridono e il concerto ricomincia.
Le canzoni continuano sulla stessa linea psichedelica, oscillante tra lo Space Rock e il Doom Metal ma sono ripetitive; la struttura è sempre la stessa, inizio mistico che poi raggiunge un apice distorto e irriverente con assoli carichi di effetti e pedali. Probabilmente il problema è la mancanza dell’altro componente della band.
Al di là della presenza scenica dovuta alla loro corporatura da invasori, della quale però dopo pochi brani l’occhio si stanca, l’attività della band sul palco è carente. Non s’impegnano in movimenti, espressioni o qualsiasi follia da riflettori per creare un rapporto più profondo con il pubblico, fanno molto formalmente il loro dovere da musicisti. Una carenza però facilmente colmabile, ad esempio con effetti visivi o video, che molto bene si associano con le atmosfere psichedeliche.
Samsara Blues Experiment - Foto 1

Qualche dubbio mi rimane però sul nome: “Samsara Blues Experiment” e in particolare sul secondo termine. Infatti interessante è la scelta di “sasāra”, termine sanscrito, che dovrebbe simboleggiare il “circolo della vita” e “l’oceano delle esperienze” e, meno originale ma egualmente adatto, il termine “Experiment”. Blues, invece, non me lo spiego. Oltre la struttura di basso il resto non ci si avvicina assolutamente, sarà forse una provocazione?

E’ comunque una band da conoscere, Live più che in studio e senza dubbio al completo.

di Daniele Epifanio

Robben Ford Live Orion Club 3/4/2013

Robben Ford Live Orion Club 3/4/2013

 

Live Orion Club 3 Aprile 2013.

 

Niente distorsioni brucianti, niente denti sulle corde, niente mirabolanti show di luci, niente pubblico preso da danzanti convulsioni musicali, solamente chiaro e sincero blues, proprio come doveva essere.
In una carriera musicale ricchissima di collaborazioni eccelse, tra le quali la più importante ai fini della sua notorietà fu probabilmente quella con Miles Davis (noto oltre che per la sua genialità creativa anche per il suo grandissimo intuito da talent scout), Robben Ford costruisce il proprio stile musicale nuotando come un pesce tra le fangose vasche del Blues, del Jazz e del Funk. Salta da una vasca all’altra, porta con sé la scia del liquido in cui era immerso e fonde così vari generi musicali, mantenendo però sempre il suo marchio di fabbrica. Effettivamente è forse quest’ultimo un termine adatto, “marchio Robben Ford” perché da quei due libri (rispettivamente di accordi e di scale Blues) che comprò per insegnarsi l’arte del Blues e dal derivante groviglio di conoscenze, è riuscito ad estrarre un timbro sonoro ed un stile musicale che per un orecchio amante del genere è difficile confondere.
Vedendolo muoversi sul palco mi è venuto da pensare che il tempo da lui passato negli anni ‘70 con il maestro di meditazione Chögyam Trungpa1 (riconosciuto come l’undicesima reincarnazione della linea Buddista dei Tulku Trungpa) deve aver prodotto i suoi frutti: sorridente sin dal primo momento in cui si avvicina al microfono, la sua presenza sul palco rimane, per le quasi due ore di concerto, fortemente positiva.
È accompagnato da un trio di musicisti di altissima qualità e i suoi assoli si alternano a quelli degli altri tre, in particolare a quelli di una piccola tastiera Hammond dietro la quale è appostato Ricky Person; talvolta, con i suoi movimenti scenici ed energici, è lui a incantare il pubblico, ancor più di Robben Ford stesso.
La band presenta l’ultimo album del chitarrista americano Bringing it Back Home e ne alterna i brani con alcuni pezzi storici di Robben, come Nothing to Nobody; un Cd morbido e sorridente, il suo recente lavoro, ricco di cover risalenti all’R&B e al Soul degli anni ‘60, nel quale la chitarra, saltando dallo Smooth Jazz al Blues, non dimentica mai la finalità dell’album stesso: portarvi nella serenità e nel relax con cui probabilmente l’autore sta vivendo i suoi anni. Sorprendente, invece, è stata la performance del pubblico: prevedibilmente statico. Rami d’albero tricolore, di cui le foglie neanche il vento caldo del singolare Blues “marchiato Robben Ford” è riuscito a far danzare. Mi chiedevo se gli occhi incollati sulle sue dita fossero segno di una divina contemplazione della poesia musicale oppure, grottescamente, invidia per un fenomeno artistico che più che meritare semplice apprezzamento necessita osservazione e studio scientifico… l’ennesima conferma che questo genere musicale, che storicamente non ci appartiene, ha attecchito nel nostro paese in modo superficiale. Immagino Robben e gli altri tre musicisti rimpiangere il pubblico americano che, al di là degli onnipresenti urlatori ubriachi, riesce non solo ad utilizzare la vista e le mani per gli applausi, ma è altrettanto capace di farsi trasportare con tutto il corpo dal profondo sound che musicisti di questo calibro sono in grado di regalarci.
1 : Robben Ford’s Bio. on www.robbenford.com

Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (http://www.collisioni.it)

Partiamo dai tuoi inizi: come ti sei avvicinata alla musica lirica?
Io nasco come attrice di prosa, poi sulla mia strada si è infilata quasi per caso la lirica. Kuniaki Ida, il mio insegnante di recitazione della scuola “Paolo Grassi”, aveva come collaboratrice una cantante lirica che mi ha sentito cantare e mi ha incitato a provarci.

Spesso una forma d’arte come la lirica ha una scarsa visibilità rispetto ad altre più commerciali. Tu hai avuto difficoltà?
Di difficoltà ce ne sono state tante. Nonostante l’Italia sia la patria del bel canto e della tradizione operistica, non c’è spazio per iniziare una carriera. Se non hai fatto gavetta non lavori ad alti livelli. Purtroppo, però, non c’è la possibilità di fare questa gavetta. L’idea della “Compagnia Lirica di Milano” nasce proprio da questo presupposto. Eravamo un gruppo di persone con un’ottima capacità lavorativa ed eravamo stanchi di bussare a tante porte per poi lasciarci trattare in maniera poco carina. Se non hai tanti soldi da investire non riesci a entrare in questo mondo, è tutto mercificato e mercificante. Noi eravamo consapevoli di avere delle capacità, così abbiamo provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo fondato la Compagnia Lirica di Milano: oltre a me ci sono Alessandro Bares, direttore d’orchestra, e Marzia Scura, un altro soprano. Poi si è inserito anche Fernando Ciuffo, un baritono. Il nostro desiderio è di riportare l’opera ai teatri di provincia, poiché in Italia non c’è più quella via di mezzo che permetteva di far conoscere l’opera al grande pubblico.

Credi che manchi un’educazione all’opera?
Assolutamente. In Italia l’opera è un po’ come il cattolicesimo, mi si perdoni il paragone. Nel senso che anche chi non è cattolico conosce almeno in parte ciò che riguarda la religione, perché fa parte della nostra cultura. Tutti gli italiani conoscono l’opera, il problema sta nel fargliela sentire. Tutti amano ascoltare il tenore che canta “all’alba vincerò”, ma l’opera è considerata una cosa d’élite. Si è creata una spaccatura bizzarra.

Forse si è creato un meccanismo perverso. Se da un lato l’opera è considerata una cosa d’élite, dall’altra viene associata alla pubblicità…
Queste operazioni pubblicitarie partono dal fatto che anche la casalinga conosce le arie di Mozart o di Prokofiev. Solo che, estrapolate dal proprio contesto, finisce che vengono ricollegate ai pelati.

L’opera sta risentendo dei tagli del governo fatti alla cultura?
Per quanto mi riguarda, di soldi non ne ho mai visto neanche l’ombra. Tantissimi fondi vanno a pochissimi enti, non c’è una distribuzione sensata. Manca una regolamentazione logica.

Quali sono stati i tuoi maestri? A chi ti sei ispirata?
Io ho ricevuto un consiglio preziosissimo all’inizio dei miei studi: prendi meno riferimenti possibili, almeno tra i grandi nomi. Ascoltare tanta musica fa bene, prendere più spunti possibili anche, l’importante è non ancorarsi a un’immagine in particolare. Il voler assomigliare a qualcuno di famoso è un errore grossolano che fanno tanti.

Quali sono state le opere che hai preferito interpretare?
Sogno da una vita di essere una Mimì nella Bohème, ma purtroppo non ne ho ancora avuto la possibilità. Amo molto Mozart: è comodo per la mia vocalità. Adesso stiamo girando con il Don Giovanni e mi diverte molto essere Donna Elvira. La mia è una formazione da teatro di prosa, quindi mi piace molto il lato dell’interpretazione attoriale, cosa che viene spesso tralasciata. Per risolvere questo problema abbiamo scelto non un regista di opera ma uno di prosa. È stata una mossa sana.

Allora sei favorevole a una commistione di arti?
Certamente, proprio da questo nasce Masca in Langa, un festival di arte e cultura. Più si dialoga, più c’è la possibilità di inventare qualcosa di nuovo. Credo molto in questo.

Che tipo di consiglio daresti a chi volesse dedicarsi alla tua arte?
Tanta pazienza e apertura mentale. La mia prima insegnante diceva che per cantare ci vuole cervello, cervello e poi ancora cervello. Capire che il mondo non inizia e finisce con la lirica.

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