di Giacomo Ioannisci
A volte capitano libri che vorresti ricominciare daccapo appena dopo averli finiti di leggere. La sottile linea scura di Joe R. Lansdale è uno di quei libri. Come ha scritto Niccolò Ammaniti: «Consiglierei ad un analfabeta di imparare a leggere solo per poter conoscere Lansdale». E sì, perché lo scrittore texano ha la profondità narrativa di un veterano dei grandi temi esistenziali, ma che affronta da sempre con una sottile ironia, amalgamando il tutto con uno stile senza eguali, fatto di esperienze autobiografiche, b-movie, letteratura pulp, noir e fantascientifica. Il suo Texas è un vero e proprio stato mentale. Con La sottile linea scura si esce dai suoi soliti romanzi polizieschi e dalle assurde avventure della trilogia del drive-in per lasciar spazio ad una storia di crescita e formazione, molto più vicina a Stand by me di Stephen King.
Dewmont, Texas Orientale. Stanley Mitchell è un ragazzino di tredici anni che vive con la sua famiglia dietro il grande schermo del drive-in gestito dal padre. Nell’afosa estate del 1958 camminando nel bosco s’imbatte nei resti di una casa andata a fuoco e sotto un cumulo di terra scopre una cassetta contenente delle lettere di una ragazza morta qualche anno prima di cui non si è mai chiarito il mistero. Con il suo fedele cane Nub, la sorella Callie e il nuovo amico Buster, il proiezionista di colore che lavora al drive-in, cercherà di far luce sulla vicenda, scoperchiando verità troppo grandi per la sua stessa età, varcando quella “sottile linea scura che separa i misteri delle tenebre dalla realtà”.
di Giacomo Ioannisci
Cosa fareste se tutta la vostra vita andasse per il verso sbagliato? Senza coordinate? Solo con tanti piccoli rospi da mandar giù come medicine? Cosa vi resterebbe ancora a cui aggrapparvi per continuare a sentirvi vivi? Partire, ecco l’unica soluzione. Sfrecciare via come canzoni in un juke-box estivo. The Go-getter è tutto questo e tant’altro, un bellissimo road movie diretto da Martin Hynes che chissà se mai arriverà dalle nostre parti. All’apparenza sembra addirittura il fratello minore di Into the wild e Little Miss Sunshine, ma con uno stile registico da Sundance, più vicino a Juno. È la straordinaria esperienza di Mercer (Lou Taylor Tucci), un giovane ragazzo di Eugene (Oregon) che lavora in un autolavaggio, pieno di insicurezze, senza nessun familiare al suo fianco. Quando viene a sapere che la madre, ricoverata in una clinica, sta per morire, decide di partire per darle l’ultimo saluto e poi raggiungere il fratello in Messico per dargli di persona la notizia. All’autolavaggio prende in “prestito” la prima auto che gli capita sotto mano e via sulla strada, senza la più pallida idea di cosa lo aspetti. Ma la proprietaria di quell’auto non è una ragazza qualunque. Insomma, un viaggio pieno di imprevisti, alla ricerca del senso della vita, del vero amore e di una posizione nel mondo. The Go-getter è un film che accarezza il cuore e tiene incollati alla poltrona.
A volte New York City sembra essere davvero un unico grande giardino ricco di segreti. Non tanto per i numerosi parchi pubblici, né per il verde che, alzando lo sguardo al cielo, è possibile notare tra i vetri trasparenti degli edifici. Mi riferisco piuttosto agli eventi che la città propone, come le parate domenicali che oramai sono diventate tra gli appuntamenti più cool in assoluto dell’estate newyorkese. La Fifth Avenue, la via elegante dello shopping, ogni domenica si trasforma in un lungo palcoscenico, dalla cinquantanovesima strada, all’altezza dell’ingresso a Central Park, fino ai quartieri di Downtown. Ed è lì che ogni domenica la città assorbe suoni, colori e lingue diverse. La parata più conosciuta è tradizionalmente quella LGBT, che quest’anno ha festeggiato il trentanovesimo anniversario. Re-volver era presente all’evento.
29 Giugno.
Ci sono giorni d’estate in cui New York è meglio evitarla. Il caldo secco e l’umidità creano quella sensazione di appiccicoso a cui nemmeno una bella doccia fredda può porre rimedio. La domenica del 29 Giugno scorso è stata una di quelle giornate. Nonostante la quasi totale assenza di smog, a spalleggiare le alte temperature c’erano gli odori di frittura dei carretti agli angoli delle strade, il sudore delle migliaia di persone ammassate come nei mercati del pesce di Chinatown e la presenza costante di grattacieli da toglierti il respiro solo a guardarli. In occasioni simili viene spontaneo pensare ai soffici venti estivi delle montagne appenniniche o alle azzurre acque tropicali.
Prima dell’esperienza newyorkese non avevo mai partecipato ad un raduno LGBT, ma anche poche settimane nella città che non dorme mai bastano a chiunque per capire che un evento simile lì deve avere un fascino del tutto particolare. Unico. Magico. Basta anche solo camminare di pomeriggio per le strade di Chelsea o del West Village, in un qualsiasi giorno lavorativo, per rendersi conto che New York è una città multiforme, dalle mille facce e da altrettanti misteri. La “comunità” omosessuale copre una grossa fetta della popolazione nella Downtown. Ma poi ci sono anche gli alternativi dell’East Village, molto più rockettari e di cui a volte si fa davvero fatica a capire l’orientamento sessuale. E infine c’è Brooklyn, con i suoi quartieri a ridosso dell’Hudson, come Dumbo e Williamsburg, un tempo zone di magazzini fatiscenti, oggi sempre più invasi da giovani artisti, alternativi e omosessuali per via degli affitti troppo alti di Manhattan.
Il punto migliore per osservare la sfilata dei carri è all’altezza della quattordicesima strada, la zona universitaria per intenderci. Ma il Gay Pride non è come il carnevale di Rio, sia ben chiaro. Dimenticate tette e culi al vento o scene di dubbio gusto. A sfilare non manca nessuno, dagli omosessuali ai transessuali, ma tutti al loro posto, ordinati come una qualsiasi processione del Venerdì Santo. Ci sono i ragazzi delle Università, ma anche le forze dell’ordine, i pompieri, gli atleti, i musicisti di Harlem, i piloti e le hostess delle compagnie aeree, i vecchietti dei circoli ricreativi, le spogliarelliste e i palestrati: un fiume di gente che per oltre cinque ore non finisce di sorprendere, anche lo spettatore più libertino.
Nel pomeriggio, poi, la pioggia è venuta giù a secchiate, ma non hanno smesso di sfilare. Anzi, sotto l’acqua sembrano tutti ancora più divertiti. Insomma, un evento unico ed indimenticabile a cui le parole servono poco. E allora spazio alle immagini...
di Giacomo Ioannisci
Febbraio 2008, Assago (Milano). Gli Smashing Pumpkins sono tornati a suonare in Italia in occasione dell’ultimo disco partorito dopo anni di silenzio, Zeitgaist (in tedesco Lo spirito del tempo). Non potevamo mancare.
La notte prima del concerto ad Assago ho avuto la fortuna di incontrare Billy Corgan nei miei sogni. Suonava, da solista, nel bagno di casa mia. Non sono ancora riuscito a capire il collegamento, ma devo ammettere che dava davvero gusto. Forse voleva essere una premonizione sul vero significato del disco, un modo inconscio per entrare sul serio a contatto con lo spirito del tempo, quello che non dimentica nulla, ma accumula informazioni, immagini, eventi che poi ripropone nei nostri incubi o in televisione con tutte le sue conseguenze irrazionali. Mi chiedo ancora perché il bagno. La soluzione che riesco a pensare è che forse si tratta dell’unico angolo della mia casa a non aver mai subito trasformazioni.
Poi verso le sette del mattino la sveglia ha cominciato a fare capricci. Colazione e via in treno per raggiungere il capoluogo lombardo.
Il concerto è stato incredibile, come fluttuare nello spazio, senza gravità, con i piedi sospesi in aria, tutti compressi, sudati e con le labbra bagnate per la salivazione in tempesta. L’onda di gente sul parterre sembrava danzare nel cosmo come meteoriti impazzite, palline da flipper, mentre le zucche spappolate ci guidavano come fa il vento con la sabbia e la polvere nei deserti. I pregiudizi sul loro ritorno sono stati infranti in un anelito, prima con alcuni brani dell’ultimo disco, Tarantula, That's the Way (My Love Is), Bring the Light, come al solito a metà strada tra un rock duro, granitico e un tipo di pop malinconico e spirituale, poi con alcuni classici, da Tonight Tonight a Porcelina of the vast Oceans o Perfect e 1979.
Alla fine sono state oltre due ore di musica a ritmi vertiginosi, senza pause. Billy Corgan e compagni sembravano alieni scesi sulla Terra per illuminarci, quasi fossero le reincarnazioni dello Zeitgaist. I presenti hanno aspirato. Del resto la musica è proprio questo, un atto respiratorio di aneliti, suoni, odori, poesia.
di Giacomo Ioannisci
Io, i Múm e un buon caffè caldo: sarebbe davvero bello, non credete? Almeno così potrei chiedere loro cosa sentono di così drammatico nel passato e cosa di così buono nel presente, anche perché mi pare che sia tutto ribaltato seguendo i fatti storici. In effetti, però, l’OK dei Múm risale al 2000, ormai il passato. Si scrive Múm, ma si pronuncia /mu:m/: sono quattro ragazzi (due sono gemelle) della periferia di Reykjavik e propongono un’elettronica melanconica, quasi una ninna nanna, fatta di suoni analogici e digitali, strumenti vintage, tastiere giocattolo e attrezzi da lavoro. Non dicono nulla in particolare. Amici dei Sigur Rós e dei Kings of Convenience, questi giovani islandesi con il loro disco d’esordio del 2000, Yesterday was dramatic. Today is OK, si sono affacciati a testa alta nella scena indi europea. L’album è elegante, accattivante, di un’elettronica minimalista realizzata con il campionamento dell’ambiente circostante e rumori bizzarri come il tintinnio delle posate o le mitragliette giocattolo. Sembrano pernacchie elettroniche e, anche se privi di reali significati, le musiche dei Múm sono la riproduzione metaforica di tanti sentimenti e stati d’animo. Notevoli Smell Memory e Awake on a Train. Non fate come il sottoscritto, non aspettate una visita a Berlino per scoprirli e rimanerne affascinati...
di Giacomo Ioannisci
A volte la vita è come chiedere al vento di rallentare. Per Christopher McCandless (Emile Hirsch) è stata la stessa cosa, ma lui era il vento.
Into the wild, sesta regia di Sean Penn (Lupo solitario, La promessa), racconta la rivoluzione spirituale di un ragazzo stanco già a ventidue anni di essere preso in giro dalla società e di dover nascondere nelle sue letture i sogni e gli ideali maturati.
Eddie Vedder durante la realizzazione della colonna sonora ha capito bene il pensiero di questo giovane rivoluzionario. Addirittura lo canta quasi si sentisse parte di quella natura selvaggia e incontaminata che l’ha accolto nel fatidico viaggio.
In Rice (“Sollevarsi”) canta: «Così va il mondo. Non puoi mai sapere dove mettere tutta la tua fede e dove ti porterà». Nella struggente End of the road (“Fine della strada”) il testo è breve, ma di un’intensità unica: «Non sarò l'ultimo. Non sarò il primo a trovare un posto dove il cielo incontra la terra.
È tutto giusto e tutto sbagliato. Per me comincia alla fine della strada. Veniamo e andiamo...». Ed è il quel preciso istante in cui Eddie Vedder da semplici aneliti musicali passa alle parole (“Society” in particolare) che il giovane Christopher diventa Alexander Supertramp (superviandante), un ricercatore della libertà che parla per citazioni e ascolta il suo cuore ogni volta che ne ha bisogno.
Insomma, un esteta ribelle, capace di annullare il gioco delle parti e preferire l’isolamento, come quello che concediamo nella mente alla nostra canzone del cuore. La fuga in questo modo assume caratteristiche di un ritorno alla felicità, quella vera, depurata dai falsi ideali e dal possesso, quella per la quale, quando la si cerca, bisogna stringere le chiappe e andare a prendersela. Ma soprattutto che solo ad obiettivo raggiunto ci si accorge che va condivisa, perché è proprio allora che piangeremo tutte le nostre lacrime.
Il film di Sean Penn è tratto dal libro Nelle terre estreme (Corbaccio) di Jon Krakauer, alpinista professionista che dopo la morte di Chris scrisse un lungo articolo sulla rivista Outside e, quasi ossessionato, con l’aiuto della famiglia McCandless per oltre due anni si è dedicato alla ricostruzione del lungo viaggio del ragazzo. Penn, evitando la retorica spicciola, punta dritto al cuore dello spettatore. Inutile, tuttavia, nascondere l’insensata e ingiusta disattenzione dei membri dell’Academy agli Oscar 2008. Forse, allora, è vero quel detto popolare: il troppo storpia. Into the wild, infatti, ha una regia troppo attenta e ribelle, anarchica, estrema, intima, eastwoodiana, dall’impostazione anni Settanta; una fotografia troppo bella, profonda e sensibile; musiche troppo intense e poetiche; un protagonista davvero troppo bravo. Andrebbe mostrato nelle scuole se fosse possibile.
Un autentico capolavoro. Troppo.
di Giacomo Ioannisci
Ha due divorzi e un soggiorno in galera alle spalle. Poi è arrivato il Vietnam, ma è fuggito in Messico per evitare di rimetterci la pelle. Neanche lì è poi andata tanto bene: due anni di calci in culo e cazzotti un po’ ovunque. Per Willie (Billy Bob Thornton) la bottiglia è da sempre la sua miglior amica e preferirebbe scolarsi un intero negozio di liquori che lavorare come un onesto e rispettato cittadino. Ogni Natale, però, con il suo compare, un nano di colore, mette in scena un grazioso teatrino vestendosi da Babbo Natale nei centri commerciali. Ma lui odia i centri commerciali, odia il Natale e i marmocchi con la puzza del latte appena ciucciato dalla tetta della mamma. Odia anche essere sobrio e preferisce fare sesso nei camerini delle taglie forti. Quando è sul lavoro, se non riesce a trattenersi, si tocca il culo come fosse un gratta e vinci. E sì, ogni anno è sempre la stessa storia. L’ultimo giorno di lavoro, infatti, svaligiano il centro commerciale e riprendono la bella vita di sempre in attesa del Natale successivo. Willie nel frattempo torna alle sue sbronze nei motel di periferia e ai rapporti sessuali occasionali. Con il ritorno delle festività tutto ricomincia: è sempre la stessa storia. A Phoenix, però, le cose vanno diversamente. Willie non è più quello di un tempo. L’amore e un marmocchio convinto che sia davvero Babbo Natale lo aiutano a ritrovare la diritta via, quella smarrita da sempre.
Babbo bastardo è una fottuta e dissacrante commedia senza regole, nata da un’idea geniale dei fratelli Coen e realizzata in maniera eccellente da Terry Zwigoff (Ghost world). C’è un po’ di Lebowski certo, ma Billy Bob Thornton è la grande sorpresa. E il Natale finalmente non vi apparirà più come prima. Era ora. Certo che è curiosa la vita, c’è da crepare dal ridere, non credete?