Holy EYE

CERTIFIED

di Hanry Menphis e Giorgia Tribuiani

 

Verrà un tempo in cui un meteorite grande come l'Alaska si abbatterà violentemente sul nostro pianeta, deformandone l'assetto e mutandone radicalmente l'atmosfera. I cieli si oscureranno e l'aria diventerà irrespirabile; allora per la specie umana sarà finita. E in che modo avremo lasciato il segno in questo universo? Come potranno, un giorno, esseri di altre galassie sapere che l'uomo, in queste poche centinaia di migliaia di anni, ha saputo sfruttare il proprio cervello anche in maniera positiva?

Stefano Benni un'idea ce l'ha. Per lui sarà l'arte a rappresentare il meglio della storia umana e allora, accompagnato dal maestro Umberto Petrin al pianoforte (il tutto nel suggestivo allestimento scenico di Fabio Vignaroli), si è fatto portavoce di tutti gli uomini e, all'Auditorium Parco della Musica di Roma, il 21 gennaio 2011, ha selezionato per noi cosa portare su L'ultima astronave.

Dunque gli alieni si ritroveranno fra le mani il frutto tangibile dello storico desiderio umano di comunicare: dai graffiti paleolitici al genio di Leonardo Da Vinci, dall'immaginario fantastico di Hieronymus Bosch ai ritratti di Diego Velàsquez, da Vincent Van Gogh a Cy Twombly; ma anche Klee, Bacon e Walt Disney con i suoi elefanti rosa.

Benni non fa economia di sentimenti, buoni o cattivi che siano, per accompagnarci in questo viaggio interspaziale in cui verremo giudicati non per quello che siamo, ma per ciò che abbiamo creato, sia esso letteratura, musica o pittura. E quando giunge la conclusione, coinvolgente è la chiusura dell'artista, un crescendo che appare come una spasmodica ricerca del senso della vita e dell'arte e che approda in quei definitivi punti di sospensione che ancora lasciano l'umanità col fiato sospeso e che trovano espressione, per Stefano Benni, nelle parole di Van Gogh: “Sto ancora cercando”.

Lo spettacolo è finito, ma il sipario non si chiude: l'artista ha ancora un regalo per il suo pubblico. Un racconto, stavolta, una storia fantastica su quella vecchiaia fin troppo reale che ha il sapore della solitudine. Ma anche della speranza, racconta Benni, poiché al di là di cosa è reale e cosa no, al di là di cosa sia l'arte e di ciò che ci riserveranno il futuro e la fine del mondo, l'uomo - così come l'anziano del racconto - non cerca che una mano da stringere e un cielo dove poter volare.

 

di Hanry Menphis e Giorgia Tribuiani

Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Quando hai iniziato  a scrivere e quanto tempo ci è voluto prima che iniziassi a recitare i tuoi versi in pubblico?
Queste son due domande…

Ne faccio due a due così fingo di farne la metà.
Ho iniziato da subito. Appena ho imparato a scrivere mi è interessato subito mettere su carta le emozioni, anche quelle infantili. Credo sia una cosa che nasca da dentro. Per quanto riguarda i reading, invece, ho iniziato in maniera casuale: non avevo nessuna intenzione di diventare performer di quello che scrivo, tuttavia ho sempre amato la tradizione orale e quando mi son trovato per caso con Vinicio Capossela a recitare i versi di John Fante abbiamo colto l’occasione per vedere che effetto avrebbero fatto i nostri scritti recitati. Mi è piaciuto, ho scoperto che potevo pagare le bollette: perché non andare avanti?

Preferisci avere un lettore che si avvicini in maniera intima leggendo quello che scrivi oppure un ascoltatore che partecipi alla performance?
È uguale. Quando scrivo non penso a come sarebbe se le raccontassi io o se le leggesse qualcuno. Le mie emozioni sono le mie emozioni, mi piace l’idea che chiunque legga o ascolti le trasformi in sue.

Chi sono i tuoi maestri?
Il più grande maestro è Cesare Pavese. Amo molto Emanuel Carnevali, come tanti altri autori italiani dimenticati, ma anche Dostoevskij e l’Hemingway poeta. Mi piace spulciare.

Vincenzo Costantino e Chinaski sono la stessa persona?
Certo, è solo uno pseudonimo che mi diedero da ragazzino, dato che già allora bevevo molto. Bevevo e scrivevo: l’accostamento con Bukowski è stato immediato.

Come vedi l’attuale disfacimento culturale in Italia?
Vuoi un suono gutturale come risposta?

Andrebbe benissimo, purtroppo l’intervista sarà scritta…
Ti dico solo una cosa: l’Italia in questo momento si merita Federico Moccia.

Quindi è la domanda a stuzzicare l’offerta?
Il lettore intelligente fa il buon scrittore, non il contrario. Se uno scrive bene ha buoni lettori, se uno scrive male ha pessimi lettori.

Progetti nell’immediato?
Ad ottobre è uscita una mia raccolta di poesie e racconti brevi: Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare.

Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (http://www.collisioni.it)

Partiamo dai tuoi inizi: come ti sei avvicinata alla musica lirica?
Io nasco come attrice di prosa, poi sulla mia strada si è infilata quasi per caso la lirica. Kuniaki Ida, il mio insegnante di recitazione della scuola “Paolo Grassi”, aveva come collaboratrice una cantante lirica che mi ha sentito cantare e mi ha incitato a provarci.

Spesso una forma d’arte come la lirica ha una scarsa visibilità rispetto ad altre più commerciali. Tu hai avuto difficoltà?
Di difficoltà ce ne sono state tante. Nonostante l’Italia sia la patria del bel canto e della tradizione operistica, non c’è spazio per iniziare una carriera. Se non hai fatto gavetta non lavori ad alti livelli. Purtroppo, però, non c’è la possibilità di fare questa gavetta. L’idea della “Compagnia Lirica di Milano” nasce proprio da questo presupposto. Eravamo un gruppo di persone con un’ottima capacità lavorativa ed eravamo stanchi di bussare a tante porte per poi lasciarci trattare in maniera poco carina. Se non hai tanti soldi da investire non riesci a entrare in questo mondo, è tutto mercificato e mercificante. Noi eravamo consapevoli di avere delle capacità, così abbiamo provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo fondato la Compagnia Lirica di Milano: oltre a me ci sono Alessandro Bares, direttore d’orchestra, e Marzia Scura, un altro soprano. Poi si è inserito anche Fernando Ciuffo, un baritono. Il nostro desiderio è di riportare l’opera ai teatri di provincia, poiché in Italia non c’è più quella via di mezzo che permetteva di far conoscere l’opera al grande pubblico.

Credi che manchi un’educazione all’opera?
Assolutamente. In Italia l’opera è un po’ come il cattolicesimo, mi si perdoni il paragone. Nel senso che anche chi non è cattolico conosce almeno in parte ciò che riguarda la religione, perché fa parte della nostra cultura. Tutti gli italiani conoscono l’opera, il problema sta nel fargliela sentire. Tutti amano ascoltare il tenore che canta “all’alba vincerò”, ma l’opera è considerata una cosa d’élite. Si è creata una spaccatura bizzarra.

Forse si è creato un meccanismo perverso. Se da un lato l’opera è considerata una cosa d’élite, dall’altra viene associata alla pubblicità…
Queste operazioni pubblicitarie partono dal fatto che anche la casalinga conosce le arie di Mozart o di Prokofiev. Solo che, estrapolate dal proprio contesto, finisce che vengono ricollegate ai pelati.

L’opera sta risentendo dei tagli del governo fatti alla cultura?
Per quanto mi riguarda, di soldi non ne ho mai visto neanche l’ombra. Tantissimi fondi vanno a pochissimi enti, non c’è una distribuzione sensata. Manca una regolamentazione logica.

Quali sono stati i tuoi maestri? A chi ti sei ispirata?
Io ho ricevuto un consiglio preziosissimo all’inizio dei miei studi: prendi meno riferimenti possibili, almeno tra i grandi nomi. Ascoltare tanta musica fa bene, prendere più spunti possibili anche, l’importante è non ancorarsi a un’immagine in particolare. Il voler assomigliare a qualcuno di famoso è un errore grossolano che fanno tanti.

Quali sono state le opere che hai preferito interpretare?
Sogno da una vita di essere una Mimì nella Bohème, ma purtroppo non ne ho ancora avuto la possibilità. Amo molto Mozart: è comodo per la mia vocalità. Adesso stiamo girando con il Don Giovanni e mi diverte molto essere Donna Elvira. La mia è una formazione da teatro di prosa, quindi mi piace molto il lato dell’interpretazione attoriale, cosa che viene spesso tralasciata. Per risolvere questo problema abbiamo scelto non un regista di opera ma uno di prosa. È stata una mossa sana.

Allora sei favorevole a una commistione di arti?
Certamente, proprio da questo nasce Masca in Langa, un festival di arte e cultura. Più si dialoga, più c’è la possibilità di inventare qualcosa di nuovo. Credo molto in questo.

Che tipo di consiglio daresti a chi volesse dedicarsi alla tua arte?
Tanta pazienza e apertura mentale. La mia prima insegnante diceva che per cantare ci vuole cervello, cervello e poi ancora cervello. Capire che il mondo non inizia e finisce con la lirica.

Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Quali sono i punti di contatto tra la cultura giapponese e l'arte operistica?
In realtà molto pochi. Forse solo ill modo in cui uso il respiro: è lo stesso del canto giapponese e del karate.

Il Giappone è molto famoso per i propri esecutori musicali virtuosi, anche enfant prodige. Cosa hanno le scuole di musica giapponesi che le altre non hanno?
Non è tanto l'istruzione ad essere speciale: i giapponesi hanno il dono di mescolare bene la cultura occidentale con la propria. Per cui un giapponese dotato di talento dispone di una percezione dell'arte più ampia rispetto ad altri.

In Italia l'opera lirica non gode di molta considerazione tra la gente comune, viene reputata come una forma d'arte di elìte. È lo stesso anche in Giappone?
In Giappone c'è lo stesso problema: solo una ristretta cerchia di persone si interessa all'opera. Tuttavia Riyoko Ikeda, con cui collaboro, ha una compagnia che aiuta i giovani ad emergere nel mondo della musica. Inoltre stiamo promuovendo un nuovo tipo di opera, metà narrata e metà cantata con i sottotitoli in bella vista. Così da estendere un po' la nostra arte a tutti.

Da parte delle istituzioni c'è un attenzione particolare per l'opera?
Il teatro dell'opera di Tokio è proprietà dello Stato, ma non hanno un'attività molto grande e lasciano esibire per lo più cantanti stranieri. Di tanto in tanto la televisione di stato trasmette l'opera nel fine settimana.
Devo dire che grazie ad alcuni manga molto famosi la gente comune si è avvicinata alla musica classica, però l'opera resta ancora qualcosa di troppo impegnativo.

Come ha iniziato la carriera operistica?
Di base ho la voce potente. Il mio maestro di musica mi ha convinto, senza alcuna preparazione, ad entrare nell'accademia di canto.
Quando mi sono diplomato non avevo lavoro, così ho iniziato a studiare opera in un laboratorio di ricerca musicale. Iniziando a recitare ho capito che avrei fatto questo per tutta la vita.

Quali sono le opere liriche che ha sentito più sue?
Da giovani, di solito, si hanno molti tormenti. Quando ho interpretato il Michele del Tabarro, un personaggio che diventa un omicida dopo essere stato tradito dalla moglie, mi sono reso conto che sul palco posso fare delle cose che non è possibile fare nella vita normale. È stata un'illuminazione, ho liberato il caos che avevo dentro.

Cosa del Giappone avrebbe voluto portare qui in Italia e cosa dell'Italia porterebbe in Giappone?
Dal Giappone sicuramente il riso, oltre ad un po' di cultura giapponese. Nel mio paese l'Italia è molto amata, più di quanto gli italiani possano immaginare; se fosse possibile prenderei una piccola chiesa ed un teatro: l'acustica qui in Italia è eccezionale.

Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Partiamo dal tour “Onda Libera”. Qual è la novità e qual è il rapporto con i beni confiscati alle mafie?
“Onda Libera” è iniziato nell'ormai lontano 2009. È un progetto particolare, durante il tour  abbiamo organizzato, insieme all'associazione “Libera”, una serie di concerti nei luoghi appartenuti alla mafia, come bar e hotel confiscati. Abbiamo suonato nella villa di Felice Maniero, in Veneto, anche per dimostrare che la mafia non è una cosa legata esclusivamente al Sud. Infatti abbiamo toccato regioni come la Lombardia, l'Emilia e la Toscana.

Ho visto che la copertina del CD è molto particolare. Com'è nata l'idea?
Diciamo che quella è la bandiera ideale. C'è un po' di Cuba, un po' di America; un mix dei colori del mondo, come del resto è l'album stesso.

Nel vocabolario dei Modena City Ramblers cosa c'è scritto accanto alla parola “libertà”?
Vita.

E accanto alla parola “censura”?
Non lo posso dire.

Voi credete che l'impegno politico da parte di un artista sia particolarmente importante?
La musica dev'essere prima di tutto divertimento, ma anche un modo per pensare, per veicolare dei messaggi e parlare di cose serie. Poi, girando molto e conoscendo tantissime persone, veniamo a contatto con una gran quantità di storie. È inevitabile che molte di esse colpiscano la nostra musica.

Quindi anche l'impegno sociale. Voi siete stati in Palestina...
In Palestina ci siamo stati tre volte, è stato molto bello. Con le vendite di un disco abbiamo finanziato la costruzione di un pozzo in un villaggio della campagna di Gerusalemme, presenziando alla sua inaugurazione. Abbiamo suonato in dei teatri e dopo abbiamo toccato con mano la realtà palestinese e quella israeliana, fatte di guerra e numerose crudeltà. Nel 2009 siamo ci siamo tornati per un evento bellissimo in cui abbiamo suonato con i ragazzi del conservatorio di Edward Said.

Mi ricollego al fatto che hai accennato alla guerra: nell'ultimo album avete parlato molto di guerra; guerra di vario tipo, come quella sul lavoro. Allora, tornando al vocabolario, cosa mettereste accanto a questa parola?
È una parola che non dovrebbe esistere. In un nostro brano, La ballata della dama bianca, parliamo delle morti sul lavoro. È una guerra non dichiarata, in Italia muoiono tre persone al giorno sul posto di lavoro.

Quali sono le principali influenze musicali nell'ultimo album?
In generale i Modena sono molto “irish”. L'ultimo CD è influenzato molto dalla musica del Sud: ci sono strumenti come mandolini e mandoloncelli, suoniamo in tre ottavi e ci rifacciamo alle tarantelle. Nel contempo ci sono band come i Gogol Bordello che ci ispirano sempre. Facciamo parte di una grande famiglia che parte dal folk e finisce al rock folk.

C'è anche una ricerca dialettale...
Sì. Ad esempio, nel brano Onda Libera il ritornello alterna frasi in napoletano e frasi in emiliano stretto.

Progetti futuri?
Siamo reduci di un tour europeo ed è ripartito il tour italiano, il nuovo disco è in lavorazione e poi... suonare, suonare, suonare!

di Giorgia Tribuiani e Luca Torzolini

foto di Gianfranco Mura

Come e quando è nata l’idea di dar vita al festival Collisioni?
L’idea di Collisioni è stata prima di tutto una grande sfida. Quando ci siamo trovati e abbiamo deciso di farlo c’era un profondo malessere nel mondo della cultura, dell’associazionismo e soprattutto in quello dei lettori; nel mondo di persone autentiche come i miei amici di Alba e quelli espatriati da Alba.
C’era il modello del Premio Grinzane Cavour e abbiamo fatto Collisioni lavorando in antitesi a quel modello. Non ci piaceva l’idea di un festival di letteratura elitario, dove è necessario un invito per partecipare e dove si trova solo una cultura di tipo accademico. Lo trovavamo sbagliato, vecchio, legato agli anni ’80. Il Premio Grinzane ci aveva lasciato l’idea che il libro fosse qualcosa di estremamente noioso e sorpassato.

Da chi è composto lo staff?
Il bello di Collisioni è che lo staff si arricchisce ogni anno di nuovi elementi, spesso gli stessi autori che hanno partecipato nelle edizioni precedenti. Per esempio Hari Kunzru, uno tra i più promettenti autori inglesi contemporanei e nostro ospite lo scorso anno, ha collaborato con passione all’ideazione artistica del cartellone del 2011. Poi ci sono artisti, giornalisti, scrittori come Antonio Scurati, Emilio Targia, Piero Negri Scaglione, Sergio Dogliani, Valerio Berruti. E naturalmente i volontari, che devo ringraziare davvero per l’entusiasmo che mettono sempre nel loro lavoro: da Paola Eusebio, che si occupa dell’organizzazione e del Progetto Giovani (uno dei progetti di maggior interesse del festival, che prevede l’ospitalità di più di 200 ragazzi da tutta Italia), a Serena Anselma, Gianluca Lovisolo, Fabrizio Davico, Antonio Spampanato e i moltissimi altri volontari che da tre anni sostengono moralmente l’iniziativa e continuano a crederci. Senza di loro Collisioni non esisterebbe.

Quali sono i criteri che utilizzate per selezionare gli artisti?
Gli artisti che chiamiamo sono innanzitutto autori di eccellenza, sia nel campo della letteratura sia in quello della musica. Quest’anno abbiamo l’onore di avere alcuni tra i maggiori scrittori internazionali viventi: da Paul Auster, a Salman Rushdie, a William Least Heat-Moon, a Hanif Kureishi; mentre per la musica il simbolo per eccellenza del rock italiano, Luciano Ligabue. Ovviamente sono tutti autori che hanno lasciato un segno profondo nella nostra sensibilità e che sono in grado di parlare a un pubblico di generazioni diverse, che s’incontrano, entrano in contatto tra loro e discutono di argomenti attuali. Naturalmente la letteratura è mescolata alla musica, gli scrittori dialogano con i musicisti e con gli altri artisti, creando prospettive diverse e traiettorie che possano suscitare riflessioni nuove nel pubblico.

Chi, tra gli artisti, ha dato maggiore sostegno all’evento?
Ho già citato Antonio Scurati e Hari Kunzru, che ci hanno sostenuto molto, ma non sono i soli. Devo dire che tutti gli autori che sono intervenuti a Collisioni, anche durante la nostra rassegna annuale, ci hanno sostenuto: Paolo Rumiz, Vittorino Andreoli, Serge Latouche, Jonathan Coe, tutti sono rimasti davvero entusiasti della nostra iniziativa, perché si sono trovati di fronte a un pubblico numeroso e molto caldo; un pubblico di lettori accorso anche da lontano per ascoltare la loro voce. Questo ha dato loro una nuova energia e una grande soddisfazione.

È stato difficile convincere a partecipare personalità internazionali come José Saramago, Riyoko Ikeda o Abraham Yehoshua?
Più che difficile, lungo. Soprattutto per quanto riguarda l’autrice di Lady Oscar, Riyoko Ikeda, che abbiamo contattato molti mesi prima della manifestazione. In generale, la programmazione inizia diversi mesi prima: spiegare il nostro progetto, complesso e molto particolare, richiede tempo ed energie, ma alla fine il lavoro ci ha sempre dato dei grandi risultati.

Il pubblico è riuscito a interagire con loro?
Certamente. Gli incontri prevedono sempre un intervento del pubblico con domande agli autori. Anzi, spesso abbiamo dovuto escludere delle domande per mancanza di tempo. In generale, comunque, l’atmosfera rilassata della manifestazione e del paese di Novello rende i nostri ospiti sempre più allegri e disponibili al contatto diretto con la gente, anche al di fuori degli interventi veri e propri.

Com’è stato accolto l’evento in Italia?
Abbiamo avuto spettatori da tutto il territorio nazionale, molti ne hanno approfittato per fare un weekend in Langa. Il festival ha anche attirato l’attenzione di giornali e testate nazionali.

In molti giustificano un’offerta culturale qualitativamente scarsa con una presunta domanda altrettanto bassa da parte del pubblico. Collisioni invalida questa tesi: com’è stato possibile coniugare la realizzazione di un evento “intellettuale” con un ampio successo di pubblico?
Questo è stato possibile con l’azione di coinvolgimento del territorio, l’atteggiamento aperto e collaborativo con qualsiasi realtà e associazione interessata a creare un sistema di rete, dove mettere in campo competenze e aiutarsi vicendevolmente. È importante, poi, non dimenticare i giovani, che se coinvolti possono dare un apporto rilevante alla cultura. Il grande lavoro che è stato fatto da Collisioni è stato aggregare persone, mettere insieme nello stesso cartellone nomi della letteratura e della musica più o meno popolari, non limitarsi a parlare linguaggi accademici, ma puntare sulla diffusione e sulla qualità allo stesso tempo; e soprattutto, avere stima del pubblico. Trovare seicento persone davanti a un teatro per ascoltare un incontro letterario suona quasi incredibile, ma dimostra come le persone non abbiano affatto smesso di leggere e di pensare.

Che ruolo ha avuto il web nella promozione del festival?
I canali web sono stati molto importanti per noi e per la nostra diffusione. Soprattutto perché, avendo un budget sempre ristretto, sono i mezzi più economici e più seguiti dalla gente e dai giovani. Sono facilmente aggiornabili e, specie i social network, sono un ulteriore mezzo di aggregazione e coinvolgimento diretto delle persone.

Può anticiparci qualcosa sul prossimo festival e suoi personaggi che saranno presenti?
Ho già citato alcuni nomi, ma ne voglio svelare altri. Prima di tutto voglio ricordare che il concerto di Caparezza si terrà venerdì 27 maggio come apertura del festival, anticipato da un dialogo tra il cantante pugliese e Don Ciotti. Poi ci sarà il dialogo tra Francesco Bianconi e Paolo Giordano, l’intervento di Paolo Nori, Maria Luisa Busi, Enrico Ruggeri, Elio, del grande regista premio Oscar Michael Cimino, Luciana Littizzetto, Roy Paci e di molti altri ancora che potrete scoprire sul nostro sito. Non dimentichiamo i duecento ragazzi del Progetto Giovani, che ci raggiungeranno da tutta Italia, per festeggiare sui nostri palchi il 150° anniversario dell’unità italiana.

A cosa punta l’evento in futuro?
Naturalmente puntiamo a migliorare la nostra offerta culturale, a coinvolgere quanta più gente possibile e a creare un movimento di libero pensiero che scardini categorie culturali e mediatiche dalle quali ormai ci sentiamo sempre più ingabbiati.

di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani

foto di Gianfranco Mura

www.collisioni.it

C’è chi giurerebbe che il polpettone di cultura low-cost troppo spesso rifilatoci sia esattamente ciò che abbiamo ordinato. Peccato che il menù non presenti alcuna variazione. La verità, in fin dei conti, è che una produzione culturale da fast-food, con menù unico, comporta un dispendio di energie molto minore per chi è dalla parte dell’offerta.

Economie di scala.

Peccato che il processo globale non tenga conto di fiammelle pilota che, indirizzate nel verso giusto, sarebbero in grado di provocare un “incendio culturale” incline al contagio. Patologiche e forse non altrettanto remunerative del fast-food, tese verso il bisogno di qualcosa che non si focalizzi sul tornaconto finanziario, garantiscono tuttavia un maggiore “ritorno qualitativo”.

Nella stessa direzione si muove la “fiamma” Collisioni.

Filippo Taricco, organizzatore dell’evento, è un uomo diretto e cordiale. Nonostante la nostra giovane età ci invita ad assistere alle esibizioni artistiche dell’evento, concedendoci la possibilità di intervistare personaggi di rilievo nell’ambiente culturale italiano ed internazionale. Così, in soli tre giorni, riusciamo ad appuntare impressioni e pensieri di Lucio Dalla, Gino Paoli, Riyoko Ikeda, Dan Fante, Paolo Rossi e molti altri autori interessanti.

Ogni evento è vissuto nell’area circoscritta di Novello. A piedi, nell’area di un chilometro, si viaggia tra eventi musicali e teatrali nella grande piazza principale, interviste radiofoniche che si svolgono in piena strada e il mistico raccoglimento in una chiesa, dove la voce di Riyoko Ikeda accompagnata dall’organo dimostra che, se lo vuole, una sceneggiatrice di fumetto si può trasformare in una cantante lirica di fama internazionale.

L’atmosfera dell’evento è rara, quasi al di fuori del tempo, e tanto è il piacere di prendervi parte quanto quello di darvene adesso un assaggio.

di Giorgia Tribuiani

Regalaci uno tuo autoritratto: chi sei e da cosa nasce la tua passione per il fumetto?
Mi chiamo Alberto Dabrilli, ho 33 anni (vi ricorda qualcuno? Ahahah!) e, sebbene non sappia ancora che cosa farò da grande, di una cosa sono certo: da quando, a dodici anni, fui “folgorato” dal mio primo fumetto (Dylan Dog, La casa infestata), il mio obiettivo è diventare un autore di fumetti.
Da quel giorno gli anni sono trascorsi e le conoscenze aumentantate: ho incontrano capolavori, raffinato idee, avuto esperienze di ogni genere (mio Dio, quante poche donne!) e, dopo mille peripezie, sono arrivato ad oggi, con questa passione che mi accompagna da tutta la mia vita e con la quale vedo proprio pochi quattrini.

Quali sono i tuoi punti di riferimento riguardo al fumetto?
Sono davvero molti, ma mi soffermerò su quelli che hanno avuto una grossa influenza su tutto il mio percorso artistico.
Il primo fra tutti è Alberto Breccia (Buenos Aires), pilastro del fumetto, che ha saputo esprimere in tutta la sua carriera una versaltilità di stile e una genialità inconfondibili; l’influenza di lavori come Incubi, Dracula, I miti di Chtulhu, Mort Cinder, e Perramus è elevatissima (e anche quella del figlio, Enrique Breccia). Poi c’è il sognante veneziano Hugo Pratt con i suoi Scorpioni del deserto e Corto Maltese, autentico gioiello della letteratura mondiale; le sue opere sono intrise di cultura esoterica e riferimenti storici minuziosi e precisi. Infine, vorrei citare gli indimenticabili, sempre italiani, Sergio Toppi, Dino Battaglia, Alarico Gattia, Giovanni De Luca e Lorenzo Mattotti.

Preferisci seguire la tradizione del fumetto o sperimentare nuove tecniche illustrative? Miri a creare un tuo personalissimo genere?
Io credo che la sperimentazione sia alla base del progresso artistico di un autore, ma che non debba mai essere fine a se stessa: al contrario, dovrebbe concorrere a perfezionare uno stile fresco e capace di dar spazio all’ingegno.
Il genere che amo di piu è il noir, specie se intriso di motivi surrealistici, e spero che in futuro, considerando i molti progetti a cui sto lavorando in questo periodo, io possa svilupparlo con più determinazione.
Attualmente, i riferimenti artistici  attraverso i quali la mia ricerca va avanti sono alcuni pittori russi dell’Ottocento dalla sensibilità pittorica e dalla capacità narrativa molto elevate. Tra questi, mi sembra doveroso citare Michail Aleksandrovic Vrubel’, Abram Efimovic ArchipovLéon BakstNikolaj Nikolaevic (autore, quest’ultimo, capace di grande potere evocativo e di un uso sbalorditivo delle ombre).

Trovi che le riproduzioni cinematografiche di fumetti classici siano un buon modo per valorizzare questo tipo di arte o credi che ogni trasposizione debba considerarsi un “tradimento” dell’opera originaria?
Il fumetto è un’arte che racchiude in sé molti generi, dalla letteratura (ricordiamo capolavori come L’eternauta, sceneggiato da Héctor Oesterheld e disegnato da Francisco Solano Lopez, entrambi collocabili a buon merito tra i maestri della letteratura disegnata)  alla pittura, passando per il cinema. Quest’ ultimo compare nel fumetto attraverso certe inquadrature e notevoli arricchimenti di particolari che caratterizzano personaggi e ambiente. È interessante poi notare come  lo storyboard di un film possa essere realizzato da un disegnatore di fumetti che si occupa della scenografia e di quelle che diverranno le inquadrature cinematografiche.
Riguardo all’interazione tra cinema e fumetto vorrei citare il caso particolare di Viaggio a Tulum, lo straordinario fumetto sceneggiato da Federico Fellini e disegnato da Milo Manara che, destinato al mondo cinematografico, non fu però mai portato alle riprese.
Credo che la relazione tra cinema e fumetto sia molto stretta, ma che non sempre il potere evocativo delle due arti possa coincidere: nel caso di Viaggio a Tulum, forse, un film non avrebbe avuto la stessa qualità del fumetto; il primo Batman, caso eclatante di cinema-fumetto, rende onore a tutti i personaggi e gli ambienti, ma credo che film come Hulk siano, in fin dei conti, fozature.
In conclusione, ritengo che un film tratto da un fumetto non debba voler rendere le stesse emozioni di quest’ultimo: le due cose sono slegate dal piano del dinamismo e un abile regista sa come donare al pubblico un gioiello.

Parlaci del fumetto “I confinanti” e dei temi che hai trattato nell’opera.
Si tratta di una raccolta di tre storie brevi: La risalita, Olsuatta e Quarantotto barra c. Grazie a queste storie ho sperimentato le potenzialità del mio stile e ricevuto grande soddisfazione. Credo che I confinanti abbia segnato per il mio stile un punto di rottura: qui le mie idee e la libertà espressiva si sono potenziate e maturate e anche le storie sono inserite in un contesto più letterario e surreale, basti pensare a Olsuatta (nome proveniente da un sogno che ho fatto molto tempo fa), ambientata in un paesino dagli abitanti simili alle vecchie bambole con gli occhi sbarrati.
Il fumetto, autoprodotto, è stato presentato a “Lucca Comics & Games” (edizione 2009) in collaborazione col gruppo Fumectory.

Hai più volte affermato di credere che, per quanto riguarda l’innovazione, il fumetto sia molto vicino al rock. Spiegaci questa tua convinzione?
Se la musica, grande fonte di ispirazione, presenta un potere visionario ancestrale che accompagna l’uomo da sempre, lo stesso vale per la pittura, basti pensare alle Grotte di Lascaux. Una sera mi soffermai a osservare queste opere piene di fascino e, percependo con grande emozione i suoni e i rumori che probabilmente si udivano in quel periodo, compresi quanto fosse forte la relazione tra disegno e musica: fu allora che mi posi l’obiettivo di far percepire un suono per ogni segno, generando un rapporto sinestetico con l’ opera. La mia conoscenza della musica, che spazia dal rock all’ ambient passando per il jazz, mi fu poi di grande aiuto, perché compresi che alcuni musicisti facevano il processo inverso: mostrare immagini attraverso la musica.
D’altra parte credo che già molti autori siano riusciti ad esprimere questo rapporto, in particolar modo perché penso che tutte le arti siano collegate da un unico comune denominatore: i sensi. A questo proposito mi sembra d’obbligo citare  György Sándor Ligeti, uno dei piu grandi compositori ungheresi del ventesimo secolo che, attraverso il brano Artikulation (ascoltabile anche tramite Youtube), ha saputo esprimere alla perfezione il rapporto tra segno  e suono.

A proposito di musica, affermi che il fumetto “Il sassofonista” fu composto tramite l’ascolto di brani musicali e la trasposizione di questi in immagini. Raccontaci questa esperienza.
Il sassofonista è un’opera monumentale di 160 pagine, suddivisa in due capitoli: per ognuno di questi mi sono ispirato ai musicisti  capostipiti di tre generi fondamentali: gli Hawkwind, Jon Hassell, e Throbbing Gristle.
Si è trattato di un’esperienza eccitante, stimolante dal punto di vista del rapporto tra segno e musicalità.
Il protagonista della storia è un sassofonista (si tratta di un tributo a Nick Tunnel) che improvvisamente viene catapultato in una dimensione dove la musica fa da padrona; qui incontra una strana figura simile ad un manichino completamente nero e un altro sassofonista di nome Gortn. Insieme vivono una strana avventura attraverso un paradiso e un inferno dove gli strumenti  imperano.
In uno dei capitoli invento gli “strumentosauri”, giganteschi strumenti  con il corpo di un dinosauro che simboleggiano  le immense potenzialità di uno strumento musicale.
Il terzo capitolo è dedicato al sogno di un’arpa morta.e con questo finisce la storia.

Parlaci della tua collaborazione con Enrico Teodorani.
Un giorno Massimo Perissinotto (sceneggiatore e disegnatore di rilievo nel panorama artistico italiano) mi propose di realizzare quattro tavole di una storia di Calavera, personaggio creato da Tim Vigil e Teodorani. L’esperienza fu molto bella. Chissà che in futuro non ci siano altre novità dal fronte americano.

Ci dedichi un’anteprima dei tuoi progetti futuri?
Ora sto lavorando ad un progetto molto ambizioso che vedrà la luce a “Treviso Comics 2010” presso la casa editrice Cagliostro.
Inoltre sto realizzando un altro progetto con un’affermata scrittrice veneziana, ma a tal proposito preferisco non svelare ancora nulla.

L’etichetta “Cavallotto” nasce nel 1948, portando con sé una ventata di innovazione. Cosa c’è di nuovo nella vostra scelta di produrre vino?
La principale novità risiede nel fatto che a quei tempi l’agricoltore piemontese che si occupava delle viti non procedeva alla produzione di vini in bottiglia: ovviamente tutti producevano un po’ di vino, ma lo finalizzavano al consumo familiare o alla vendita in damigiane; si trattava di una produzione ben poco commerciale. Nella nostra zona mio nonno è stato il primo a scegliere di seguire tutta la crescita della pianta per poi occuparsi della vinificazione, dell’invecchiamento, dell’ imbottigliamento e infine della vendita.

Inoltre sappiamo che la famiglia Cavallotto è stata pioniera della produzione artigianale biologica del vino.
Sì, esatto. Abbiamo intrapreso un percorso biologico con l’aiuto dell’Università di Torino e del Dott. Corino dell’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti, che ci ha aiutati a compiere i primi passi. I primi studi sono stati fatti nel ’74, quando la chimica in agricoltura aveva raggiunto livelli per noi insostenibili; abbiamo scelto di procedere all’inerbimento, un procedimento che può apparire banale, ma che allora si mostrava rivoluzionario: abbiamo lasciato crescere l’erba nel vigneto per far sì che non ci fosse più erosione; in questo modo, gli strati di terra superficiali non venivano rovinati dagli agenti atmosferici. Inoltre l’erba toglieva alla terra gli eccessi di acqua, facendo sì che si producesse un’uva con sostanze nobili più concentrate.

Un ulteriore passo è stato fatto invece dal ’76 al ’78 con l’introduzione di insetti predatori. Puoi spiegarci questa scelta?
La nostra intenzione era quella di eliminare, oltre ai prodotti chimici erbicidi, tutti i prodotti chimici di sintesi pericolosi, come gli insetticidi e gli acaricidi. Abbiamo scelto, perciò, di reintrodurre gli insetti predatori, insetti indigeni che erano stati distrutti. La loro azione si è subito dimostrata eccezionale, specie con il Ragnetto Rosso, un piccolo acaro molto pericoloso che si era arrivati a trattare chimicamente dalle quattro alle sei volte all’anno. Siamo stati i primi a portare avanti questo esperimento, facilitato anche dal fatto che la nostra azienda, essendo accorpata, era abbastanza isolata dal resto.

Non vi è mai capitato di avere problemi con confinanti che utilizzavano prodotti chimici?
Sì, i confinanti continuavano ad utilizzare prodotti chimici distruggendo anche gli insetti buoni. Il problema principale è che gli insetti vegetariani, che sono dannosi perché si nutrono della linfa delle foglie o vanno a rovinare l’acino, hanno dei cicli di riproduzione molto più veloci dei carnivori: per ogni generazione, o al massimo due, di insetti buoni, abbiamo almeno sei generazioni all’anno di insetti negativi. Quindi bisogna cercare di raggiungere un equilibrio con il trattamento e riuscire a mantenerlo.

Ci sono dei metodi per far sì che l’agricoltura biologica non venga danneggiata dai confinanti?
Per chi ha degli appezzamenti molto piccoli, questo diventa molto difficile. Dovrebbero essere degli enti super partes a creare una regolamentazione, ma capita che ci siano troppi interessi e troppi soldi in gioco. Inoltre, per noi che siamo produttori di vino, la qualità è importante in tutte le fasi della lavorazione; per un’azienda più industriale, invece, diventa più importante l’abbattimento dei costi di produzione, obiettivo che viene raggiunto anche attraverso l’uso di prodotti chimici.

Quanto tempo è necessario perché un terreno trattato chimicamente divenga depurato e possa essere finalizzato ad una coltivazione biologica?
Il suolo acquista di nuovo l’humus molto rapidamente: bisogna attendere un paio di anni per avere il primo riscontro; poi, dopo cinque o sei anni, la cosa comincia a funzionare veramente. Più delicato e più complicato è avere una buona ecologia sulla pianta, perché oltre agli insetti e agli acari ci sono altri fattori di rischio, come le malattie fungine. Chi ha una produzione convenzionale e usa prodotti chimici fatica molto, nei primi due anni, a cambiare sistema: il prezzo da pagare può essere molto salato, soprattutto in annate sfavorevoli, quando la pianta è preda di molti attacchi. Bisogna mettere in conto una certa perdita nei primi due anni, se si sceglie di fare agricoltura biologica, ma poi la pianta ne giova sicuramente.

Quanto è importante, per il viticoltore, essere preparato scientificamente per la coltivazione?
La preparazione scientifica è importantissima e il viticoltore impreparato dovrebbe affidarsi ad agronomi nel caso della viticoltura e ad enologi nella fase della vinificazione. Io, personalmente, sono agronomo ed enologo. Il punto è che al giorno d’oggi è possibile fare vigneti nel deserto, in punti estremi, ma senza preparazione si va incontro a grossi rischi. Il primo rischio è quello di produrre un vino senza difetti, ma privo di personalità; un rischio maggiore è invece quello di ottenere un effetto chimico negativo: magari si usano sostanze che, pur non contenendo rame, possono essere ugualmente molto pericolose: entrano nel sistema circolatorio della pianta e rovinano l’uva. In generale il mondo agricolo si affida troppo alla chimica, sia in agricoltura che in cantina: usano una miriade di prodotti, come un eccesso di solforosa, e hanno sistemi negativi di concentrazione. La tecnologia è utile perché consente di ottenere un vino buono a prezzi bassissimi, ma non bisogna abusarne.

 

Voi non utilizzate anidride solforosa?
Oggi, con molta tecnologia, con anidride carbonica ed azoto, si riesce ad avere un imbottigliamento privo di ossidazioni: grazie alla mancanza di ossidazioni, possiamo risparmiare tantissima solforosa. L’utilizzo di solforosa è dunque minimo, ma viene fatto poiché il rischio di ossidazione durante la fase di invecchiamento nel legno è molto alto. Se io aggiungo solforosa al vino, l’ossigeno viene captato da questa molecola e si trasforma in solfato, che ha una nocività a livelli di milligrammi per litro: nulla, quindi. Ci sono miriadi di prodotti naturali che contengono solfato e sono naturalissimi. Il problema non è quindi l’aggiunta di solforosa; il problema si presenta quando queste aggiunte sono molto grandi: quando si mette tanta solforosa c’è il rischio che la quantità di ossigeno nel vino non sia sufficiente a combinarla.

Ci sono vini per cui è maggiore il rischio di concentrazione di solforosa?
Sì, questo accade più frequentemente con i vini bianchi, che contenendo poche sostanze riducono le possibilità per la solforosa di legarsi all’ossigeno. È possibile che bevendo dei vini bianchi giovani o degli spumanti con le bollicine venga il mal di testa: bere un bicchiere di questi vini non è un problema, ma berne mezza bottiglia non è salutare. Vini con un buon invecchiamento come il Barolo, invece, sono nettamente più genuini.

Abbiamo parlato di vinificazione e invecchiamento. Quali procedimenti seguite per queste due fasi?
Le modalità di invecchiamento cambiano a seconda dei vini. Qui nelle Langhe il vino più importante è il Barolo, che richiede tempi molto lunghi: il nostro Barolo Bricco Boschis richiede un mese per la vinificazione e poi, per l’invecchiamento, da tre ai quattro anni e mezzo. Anche il Vignolo, che è una seconda tipologia di Barolo, ha un invecchiamento molto lungo: dura anche quattro o cinque anni. Altri vini importanti per la zona sono la Barbera (la chiamiamo al femminile), che ha tempi di vinificazione e invecchiamento abbastanza simili a quelli del Barolo, e il Dolcetto. Noi qui abbiamo il Dolcetto d’Alba, che ha un invecchiamento nel legno di soli sei mesi.

Quindi adesso quanti vini producete?
Abbiamo tre tipi di Barolo: il Barolo Bricco Boschis, il Barolo con riserva Bricco Boschis e il Vigna San Giuseppe. Poi abbiamo un tipo di Barbera e due tipi di Dolcetto. Oltre a questi vini tradizionali abbiamo dei vini molto rari, come la Freisa e il Grignolino, che in questi anni è andato scomparendo. Probabilmente siamo gli unici, qui nella zona del Barolo, a sacrificare una piccola parte di terra, che potrebbe essere dedicata al Barolo, a vini più rari. In una zona molto buona per la vite, coltiviamo anche un ettaro di Chardonnay: si tratta di un vino francese importato in Piemonte; abbiamo comprato questi vigneti nell’anno ’89 e sono tra i più vecchi delle Langhe.

Pensi sia una forzatura piantare dei vitigni lontano dal loro paese d’origine?
Finché lo si fa per divertimento e non si toglie spazio a vini locali, non è un male: il nostro Chardonnay impegna solo il 5% della produzione. Il problema è quando si inquina eccessivamente la produzione locale. L’Italia è un Paese che segue molto le mode ed è difficile abbinare una moda al vino: se voglio fornire dello Chardonnay dovrò prima piantarlo, poi aspettare tre anni per la produzione, poi un altro anno in bottiglia, eccetera: passeranno cinque o sei anni prima della messa in commercio e la moda sarà già passata. Questi vini quindi non possono andare a prendere il posto di vini storici come la Freisa o il Grignolino.

Abbiamo parlato di vini francesi. Puoi darci una tua personale opinione su questi vini?
C’è moltissimo da dire sui vini francesi, anche perché hanno iniziato a produrre vino circa duecento anni prima di noi: Borgogna e Bordeaux, ad esempio, hanno una storia molto più antica della nostra. Io paragono molto il Piemonte alla Borgogna e la Toscana con il Bordeaux. Al di là di questo, credo che i francesi abbiano dei vini straordinari, eccellenti, ma anche che noi siamo riusciti, soprattutto in questi ultimi trent’anni, ad avere una qualità uguale alla loro con vini diversi. Loro hanno delle strutture istituzionali che lavorano molto bene a livello di consorzio, di ministero; noi invece siamo lasciati liberi a noi stessi e questo può essere sia un bene che un male. Inoltre loro hanno un approccio commerciale diverso che noi piano piano stiamo imparando.

E dal punto di vista del gusto, cosa risulta dal confronto?
In media i vini italiani sono più buoni, secondo me. Nel loro caso c’è un enorme differenza tra un vino costoso e uno economico: per me i vini francesi, se vengono pagati poco, sono imbevibili; se invece si spende molto, questi vini possono essere buoni o buonissimi. In Italia, invece, non c’è questa regola: capita di bere dei vini economici buonissimi e capita anche, purtroppo, di pagare le bottiglie a prezzi altissimi per poi trovare un vino non buono. Questo non accade in Francia: loro sono riusciti a fare un mercato molto serio, per cui le bottiglie costose sono buone. Però se si spende poco il vino non è buono: per questo preferisco bere vini italiani, perché a dei prezzi bassi, entro i trenta euro, in Italia si beve nettamente meglio che in Francia; se si raggiungono invece i cento euro e da lì si sale, penso che i vini francesi possano essere veramente eccezionali.

Torniamo all’etichetta “Cavallotto”. Qual è la resa per ettaro dei vostri vigneti?
In collina ripida è molto bassa. Per il Barolo si parla di rese intorno ai 65 quintali per ettaro; alla fine si producono circa 35 quintali. Io sono contrario all’abbassare troppo le rese: queste possono essere ridotte anche in maniera molto semplice, manualmente, quando il grappolo inizia a cambiare colore. Però produrre troppo poco significa fare un vino particolare, non più tipico. Si rischia che ci siano troppi zuccheri, troppa acidità: bisognerebbe quindi raccogliere presto l’uva, rischiando che non sia matura, e fare vinificazioni molto brevi.

Voi vi occupate anche di esportazione?
Sì, le prime esportazioni sono iniziate già alla fine degli anni ’50 e in tutti gli anni ’60: c’è stato il boom nel ’61 e soprattutto nel ’64. Il ’71, poi, ha segnato una svolta, decretando il Barolo come uno dei migliori vini d’Italia, se non il più importante dal punto di vista qualitativo. La nostra esportazione, oggi, si aggira intorno al 30%, che in Italia è l’ideale per un vino come il Barolo o la Barbera. Per quanto riguarda il Dolcetto, invece, l’esportazione è sempre stata intorno al 50%. L’Italia ha sempre preferito vini più semplici: manca una cultura del vino.

Lei sostiene che l’unica vera regola della satira sia “non avere regole”. Quali sono, invece, i limiti e le regole della satira da un punto di vista “di genere”?
Quando si fa del teatro satirico, bisogna prima di tutto partire da un fatto drammatico, anche se poi lo spettacolo diventa comico. La base del teatro, e in particolare della satira, è costituita dal dramma: la satira deve andare contro l’ipocrisia, la violenza, la cancellazione della giustizia, l’abolizione dei diritti dell’uomo e della donna. Si tratta di momenti tragici che poi si capovolgono nel gioco del grottesco: è a quel punto che subentra l’elemento provocatorio, il capovolgimento della logica; si prendono consuetudini e luoghi comuni, li si capovolge e li si fa diventare risibili.

Quindi possiamo dire, in sintesi, che la componente tragica sia imprescindibile per la satira e che il riso non debba essere fine a se stesso. Quali sono, a suo avviso, gli altri elementi fondamentali che devono costituire uno spettacolo satirico?
Un elemento importante è la capacità di togliere il pubblico dalla sua condizione di “guardone”: il pubblico non deve ritrovarsi, al buio, ad osservare come un guardone una scena alla quale non è stato invitato. Questa situazione è pericolosissima. Per evitarla, allora, si può ricorrere anche ad un coinvolgimento fisico del pubblico. Si tratta di utilizzare espedienti anche banali: se uno arriva in ritardo o starnuta in modo esagerato, se una donna ride in maniera particolare o si addormenta, coinvolgere il pubblico in questi fatti estranei alla scena diventa importantissimo e contribuisce a rompere la “quarta parete”.

L’attore deve quindi puntare sul coinvolgimento del pubblico anche al di là della scena: lei ci ha parlato di fatti esterni che possono nascere “oltre il canovaccio” e che poi vanno valorizzati da parte dell’attore, che deve improvvisare. L’attore, comunque, può anche dare il “La”, stimolare la nascita di questi “fatti esterni”, giusto?
Sì, l’attore può provocare certe situazioni. In questo i Comici dell’Arte erano bravissimi: fingevano che accadessero degli incidenti gravi, simulavano un incendio del teatro, un allagamento (ad esempio a Venezia), un’improvvisa lite…

C’è qualche particolare espediente, tra questi, che l’ha colpita particolarmente?
Potrei fare l’esempio di un numero famoso, del quale però non abbiamo che una specie di canovaccio, che è quello della vespa. In scena entra una vespa e comincia a mordere qualcuno e a dar fastidio agli attori che, per questo, non riescono più ad interpretare i propri personaggi: la presenza di questa vespa diventa così importante da capovolgere tutto lo spettacolo e da divenirne la chiave fondamentale. Dà anche il nome allo spettacolo, che si intitola, appunto, La vespa. Tutto ciò che accade, invece, passa in secondo piano: gli innamorati che si lasciano, i personaggi che stanno male, eccetera.

Questi espedienti richiamano molto quelli del teatro futurista, dove lo spettatore finiva per diventare l’attore.
Esattamente. Il senso era sempre quello di provocare lo spettatore affinché prendesse posizione e magari arrivasse ad insultare l’attore, a smentire dei fatti o a salire sul palcoscenico. Anche Pirandello, con Sei personaggi in cerca d’autore, parte da quella chiave, nonostante poi lo spettacolo diventi letterario e perda di efficacia. Un altro testo importante, russo, parla di un personaggio che inizialmente muore, ma che poi improvvisamente sale sul palco e dice: “Scusate, io non sono morto e tutto quello che avete raccontato di me è falso”. E allora lo spettacolo viene recitato nuovamente da capo, nella chiave di lettura che, tenendo conto del nuovo personaggio, corregge lo spettacolo visto fino a quel momento e lo svolge in maniera differente.

Possiamo affermare, dunque, che il coinvolgimento del pubblico sia una componente essenziale e imprescindibile dello spettacolo?
Il coinvolgimento è la chiave fondamentale del teatro: se un teatro non coinvolge, se non rompe la “quarta parete”, significa che non comunica; lo spettacolo, per essere efficace, deve attraversare quella parete che divide il pubblico dalla scena. Le maniere per arrivare a coinvolgere il pubblico sono multiple: una di queste è quella del “teatro di situazione”.

Rimanendo in tema di “satira”, a questo punto, vorrei chiederle come se la passa oggi con la censura.
Essenzialmente noi non abbiamo una censura diretta: le leggi che abbiamo non permettono al potere di censurare. Accade però che alcuni programmi siano cancellati, che siano promulgate delle leggi che non permettono di parlare di determinate questioni o che non venga dato spazio ad alcune trasmissioni: è ciò che è accaduto, ad esempio, ad Anno Zero. Si crea, inoltre, un’altra cosa molto grave: l’autocensura.

In conclusione, quale beneficio può apportare il teatro alla società, rispetto alla parola scritta? Il teatro, a livello sociale, dovrebbe affiancare la comunicazione giornalistica?
Molti cardinali, molti vescovi pensano che il teatro sia una cosa quasi “immonda”: pensano che la parola scritta debba rimanere parola scritta. Se noi ostacoliamo il teatro, però, quel poco che viene letto da chi legge non basta. Col teatro, anche coloro che non si interessano di politica possono venire a sapere cosa sta succedendo: il teatro viene a far parte del gioco della comunità; lo spettacolo riesce a coinvolgere molta gente, una società intera. È per questo che non bisogna proibirlo.

di Giorgia Tribuiani


“Volevo far sì che la pittura servisse ai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico. A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente […] Di fatto fino a cento anni fa, tutta la pittura era stata letteraria o religiosa: era stata tutta al servizio della mente. Durante il secolo scorso questa caratteristica si era persa a poco a poco. Quanto più fascino sensuale offriva un quadro – quanto più era animale – tanto più era apprezzato”. A quindici anni, Duchamp cominciò a dipingere sotto l’influenza degli impressionisti, dai quali prese poi le distanze per abbracciare il Fauvismo, altra corrente che avrebbe presto abbandonato; non ancora trentenne, insoddisfatto dalle possibilità espressive che la pittura metteva a disposizione degli artisti, cominciò a dedicarsi al Grande Vetro, opera costituita da un insieme di elementi grafici riportati su lastre di vetro e metallo, permeata da una serie di simbologie e da apparenti non sense. Duchamp voleva dimostrare che l’arte non era rappresentazione, ma presentazione; il compito dell’artista, perciò, consisteva nel donare un senso all’oggetto. “La pittura – sosteneva Duchamp – non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe avere a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria. Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare”. Dalla necessità di donare il senso agli oggetti, nacquero allora i “ready-made”, strumenti d’uso comune che, attraverso la “scelta” dell’artista, si trasformavano da elementi ordinari in opere d’arte. Un esempio lampante è quello della ruota di bicicletta, o quello ancor più famoso di Fountain, l’orinatoio rovesciato che la giuria della Society of Independent Artists rifiutò indignata. In realtà quella di Duchamp non era una provocazione, ma l’espletazione di un concetto: da quel momento, per lui, il lavoro dell’artista non consisteva più nella creazione dell’opera, ma nella selezione e ricontestualizzazione dell’oggetto che, in questo modo, avrebbe perso il proprio significato oggettivo per acquistare il valore soggettivo proposto dall’artista; al contempo anche lo spettatore, divenuto “soggetto interpretante”, avrebbe acquisito un ruolo attivo rispetto all’opera.

di Giorgia Tribuiani


Fu romanziere e drammaturgo, Alexandre Dumas, nonché una delle migliori firme dei romanzi d’appendice: i “feuilletons”, antenati dei racconti popolari e delle storie a puntate, raggiunsero uno dei loro picchi più alti attraverso la penna dello scrittore francese e il pubblico dei lettori ebbe forse a reclamare il nuovo capitolo de Le Comte de Monte-Cristo più di qualsiasi altro inserto. Dumas visse del suo mestiere di scrittore al quale poté dedicarsi completamente, firmò importanti rubriche di famosi quotidiani ed ebbe accesso alla prestigiosissima “Comédie Française”. Cosa spinse quest’uomo, votato all’intelletto e alla cultura, a delinearsi nel marinaio Edmond Dantès, giovane protagonista del romanzo Le Comte de Monte-Cristo? La risposta a quest’interrogativo va rintracciata, probabilmente, in uno dei più profondi desideri dell’autore: quello di rappresentare, per i suoi nemici quanto per i suoi amici, la “Provvidenza”. “Ai tempi in cui scrive Dumas – afferma André Maurois nel saggio Le Comte de Monte-Cristo – l’Incantatore si confonde col Nababbo, la cui fortuna permette ogni fantasia e ogni audacia. Dumas sognava di essere il dispensatore di tali beni terrestri. Nella misura, ahimè ridotta, in cui le finanze glielo permettevano, egli si divertiva a interpretare questo ruolo per i suoi amici e le sue amanti. Una coppa bastava a contenere tutto il suo oro, ma egli la versava con un gesto generoso, come quello di un Nababbo”. Dal canto opposto, Dumas nutriva particolari risentimenti nei confronti della propria società, di cui suo padre era stato una vittima e che lo perseguitava attraverso creditori e calunniatori. In Edmond Dantès, dunque, Dumas vide l’oppresso per eccellenza, il calunniato che – imprigionato innocente nel Castello d’If in seguito a false testimonianze – ha l’occasione, grazie all’abate Faria, di ereditare una fortuna immensa e di trasformarsi nella Provvidenza, un uomo in grado di punire crudelmente i propri calunniatori e di divenire un magnifico benefattore per i propri amici. Nell’intelligenza con cui il piano di Dantès si compie, del resto, ritroviamo il logico e colto Dumas: la trasformazione del marinaio in conte è completa e l’autore può specchiarsi completamente nel suo protagonista. La storia di Edmond Dantès, nata da un fatto di cronaca, appassionò immediatamente Dumas, che trovò nelle vicende del povero Picaud l’intreccio perfetto per il suo romanzo. Romanzo al quale, d’altra parte, egli fu sempre legato, al punto da acquistare un terreno a Port-Marly per farvi costruire il proprio “Castello di Montecristo”, o da fondare un giornale intitolato appunto “Le Monte-Cristo”.