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Enrico Ruggeri è un artista che fuga il pericolo contenuto nel detto: “non esistono domande stupide, esistono risposte stupide”. Con Enrico non esiste mai una risposta banale, anche quando la domanda sembra ovvia le sue risposte sono ricercate e mai simili tra loro. In questi mesi Enrico è uscito dal suo seminato abituale. Infatti, la prestigiosa carriera di cantante è stata affiancata dal suo primo romanzo, intitolato Che giorno sarà edito da Kowalski. L’ennesimo tassello della sua poliedricità: basti pensare che una delle canzoni più amate e cantate dalle donne, Quello che le donne non dicono, sia stata scritta da lui e dal chitarrista che con lui ha condiviso trent’anni di percorso musicale, Luigi Schiavone.

In occasione del “tour” di presentazione del libro è nata questa piacevole intervista.

Il tuo libro narra di un cantante che realizza una sola canzone di successo e poi sparisce dalla scena. Scrivere di Francesco Ronchi, il protagonista del romanzo, è stata una forma di esorcizzazione?
Sicuramente, l’arte è una forma di esorcizzazione. Io faccio spesso l’esempio di Foscolo che fa morire Jacopo Ortis per non suicidarsi, oppure dei bisticci tra fidanzati o delle preoccupazioni per un parente. Queste cose ti portano a scrivere canzoni su due che si lasciano o sulle persone che non hai più. Scrivere è il modo migliore per esorcizzare le proprie paure e conoscersi meglio.

Hai detto che le bozze del libro, durante la sua stesura, sono state lette dal regista Fausto Brizzi. Se ne venisse fatto un film, che canzoni tue e non tue sceglieresti?
Di mie probabilmente non ne sceglierei, poiché questo libro è un po’ il contrario di me. Io non sono Francesco Ronchi, ma non sono nemmeno Paolo Europa (l’antagonista di successo ndr). Non ci sono personaggi riconducibili direttamente a me: parlo di un mondo degli anni ‘80 dal quale mi distaccai presto. Di canzoni non mie, forse sceglierei quelle delle meteore che attraversarono gli anni ‘80, gli eroi di una stagione.

Tuttavia, in alcune parti emergi prepotentemente. Nei capitoli si dipana una descrizione abbastanza cinica della parte peggiore dello show-biz musicale, personaggi grotteschi che sono pronti a sbranare chi sogna il successo. È possibile fare associazioni e provare a immaginare che dietro i personaggi fittizi del libro si nascondano persone che davvero hai conosciuto?
Sì, ma non in maniera automatica. Nessuna persona della mia vita assomiglia precisamente a quelle descritte nel libro: sono immagini sovrapposte. In questo credo di aver lavorato molto bene; ho utilizzato delle caratteristiche umane costruendo come puzzle i vari personaggi.

Alla luce di quanto hai descritto nel libro, come vedi il mondo della discografia italiana?
Adesso è un mondo più freddo. Forse ci sono meno cialtroni rispetto agli anni ‘80, ma è venuta meno anche questa forma grossolana di creatività. Cercare di lavorare più sul personaggio, oggi, è mordi e fuggi; in più la pirateria musicale ha creato un mondo in cui non si investe più con le risorse di prima, quindi i cialtroni nemmeno ci provano o restano subito confinati. Sicuramente era più romantico e meno cinico il mondo della musica degli anni ‘80. Oggi, con “Amici” e “X Factor”, le case discografiche vedono subito se il personaggio funziona e chi non funziona resta fuori; è tutto più asettico. Dai il disco alla radio, la radio non lo passa, fine della storia. Forse qualche personaggio del mio libro potremmo trovarlo, adesso, in qualche concorso canoro minore, ma le multinazionali fanno solo copia e incolla. Non per colpa loro, è il mercato che glielo impone.

Vittorio Gassman diceva che per esprimere la propria arte bisogna prima di tutto accettare compromessi con i media. Pensi che sia così oppure godi di molta libertà espressiva?
Con i media devi interagire, volente o nolente. Al di là di questa intervista, che è molto piacevole, devi parlare con giornali che non leggeresti mai e andare in trasmissioni che non vedi. La comunicazione è abbastanza indiscriminata. Credo che sia dannoso il compromesso artistico, come anche cercare le amicizie, il giro che conta, l’appoggio giusto. Anche perché essere riconosciuti come liberi pensatori è una soddisfazione.

In Italia sembra essere importante sapere da che parte sei schierato. L’autonomia di pensiero e di azione è cosa rara. Questo clima e questa esigenza di schieramento viene avvertito anche nel mondo della canzone?
È quella la vera prostituzione: andarsi a prendere l’applauso dicendo la cosa che è di moda e facendo il soldatino. Ho sempre evitato di far parte di uno schieramento: ogni volta è bello poter prendere una posizione a seconda di quello che ti suggerisce il tuo cervello.

Tempo fa hai detto che se adesso esistesse un De André farebbe molta fatica a venir fuori. Cosa consiglieresti tu a un giovane per farsi largo nel mondo musicale?
Di battersi affinché cessi la pirateria su internet, perché riduce gli spazi e la libertà nel mondo musicale, che sono la sua salvezza. In secondo luogo, preferire sé stesso ai propri modelli e considerare la musica come una bella esperienza, sempre e comunque.

Per una volta prova a essere presuntuoso, anche se non ti appartiene. Di cosa vai fiero?
Caratterialmente mi rende fiero il non abbattermi mai troppo per le sconfitte e il non esaltarmi troppo per i trionfi. Il fatto di non essere catalogabile artisticamente. Inoltre, mi sono tolto grandi soddisfazioni: la tournee con l’orchestra, quella acustica, da solo con piano e contrabbasso, da jazz folk con Alberto Guareschi e Davide Brambilla (ora fisarmonicista di Davide Van De Sfroos).

Hai una profonda cura, non solo della musica, ma anche dei testi. La tua cultura è figlia di curiosità o è un retaggio familiare?
Tutte e due le cose. Probabilmente la gente curiosa ha più cose da dire. Mi piace leggere, è una bella avventura.

Tra le tue canzoni e il repertorio altrui, c’è qualche brano che ti ha commosso particolarmente?
Ci sono canzoni mie che mi commuovono e che ho pudore di cantare: per esempio, La medesima canzone e Vorrei (l’una descrive un ospedale psichiatrico, l’altra racconta il momento in cui si sta per morire) le tengo per me. Non sono canzoni nate per essere passate in radio, chi ha voglia le ascolta su disco. Canzoni di altri che mi emozionano? L’album Berlin di Lou Reed: meraviglioso, uno degli imprinting del mio mondo musicale.

Chi vedi attualmente tagliato per cantare una tua canzone? Per chi ne scriveresti una?
Non so risponderti. Le mie collaborazioni nascono in maniera informale, per amicizia o tramite un contatto. È stato così con Fiorella Mannoia e con Morandi; l’ultima mia canzone per Giusy Ferreri è nata perché ci siamo conosciuti, abbiamo fraternizzato e tutto è sorto per caso. Se leghi con una persona che fa musica può essere che poi si faccia qualcosa insieme.

Con chi ti piacerebbe duettare, a parte le star che si sono succedute in All in (triplo album con una parte composta di canzoni in duo)?
Mi viene in mente mio figlio Pico, ma lui non vorrebbe e non è il caso. Mi direbbe di no e avrebbe ragione! Per cui non glielo chiederò mai.

Quale cantante della tua città hai più ammirato? E in assoluto?
In assoluto Francesco De Gregori. Della mia città, Nanni Svampa (cabarettista e cantante), perché ha fatto l’ironia de I Gufi (gruppo di cabaret da lui fondato) e perché ha tradotto Brassens, dicendo che lo traduceva mentre altri non lo dicevano.

Hai detto che rileggere il tuo libro, Che giorno sarà, prima di darlo alle stampe ti ha commosso, come convincere anche il pubblico che è un libro da leggere?
Prendo in prestito quello che mi ha scritto Dario Ballantini: questo non è il più bel libro che sia mai stato scritto nella storia dell’uomo, ma è un libro interessante e tratta temi attuali.

Aggiungo io, con un finale totalmente imprevedibile.