Holy EYE

CERTIFIED

di Luca Torzolini

La poesia è monosemica o polisemica? Perché?
La poesia, almeno per come la intendo io, non può e non potrà mai essere monosemica. La poesia è l’anima che si mescola con il tutto che ci circonda e di conseguenza essendo il tutto che ci circonda eterno ed immortale, la poesia è per sua natura polisemica. Se una poesia ha un solo significato vuol dire che quella poesia è destinata a morire nel tempo. Al contrario, quando una poesia si muove su piani differenti, quando riesce a sintonizzarsi ovunque attraverso le giuste frequenze che poi non sono altro che mente e cuore all’unisono, allora, l’immortalità dell’anima è la giovinezza eterna della poesia stessa.

Come si diventa poeti?
Il poeta esiste ancor prima di nascere e questo mio pensiero non è un’iperbole, ma un pensiero frutto di un mio studio ben accurato, ovvero, lo studio della mia anima fragile/forte, e contorta. Il poeta non “ diventa “ poeta, ma “ è “ poeta. Tutto nasce dal capire quanta sensibilità riesce a sprigionare la nostra anima e per farlo, bisogna guardarsi dentro come un raggio di luce che penetra nella foresta. Noi siamo più profondi dell’Universo e siamo molto di più di ciò che crediamo di essere realmente. Il poeta, in tutto questo, ha la consapevolezza delle proprie capacità e la padronanza assoluta del suo unico mezzo; l’utensile del poeta è l’anima. Mentre la sua dote più rara, è la curiosità.

Sono più utili l'emarginazione, l'ossessione, la sofferenza e la rabbia o la serenità, l'allegria, l'amore e la passione per creare una poesia?
Per creare una poesia ci vogliono pochi ingredienti, anzi, pochissimi. Tutto ciò che serve è capire che ancor prima di essere uomini o poeti noi siamo un pezzettino di mondo che non vive nel mondo, ma dentro al mondo. Noi siamo il respiro di questo meraviglioso pianeta e il cuore è il nostro metronomo, il nostro ritmo perfettamente naturale. La poesia, quando trova un fertile terreno, sboccia per inerzia; nulla è più naturale della poesia anche oggi che di naturale c’è ben poco. La poesia ha quel dono meraviglioso di fermare il tempo guardando al futuro con la nostalgia di un presente in movimento.

Quali sono i tuoi temi più cari e perché ne parli?
I temi a me più cari sono: la vita e la morte. Sembra scontato ma sono due temi a cui non possiamo sottrarci in nessun modo. Siamo imbrigliati in questa ragnatela fin dall’inizio delle nostre origini e ci portiamo dietro questo flusso di energia come fossimo un tutt’uno. Mi piace parlare della vita, esplorarla, entrarci dentro come un carro armato, oppure come un leggero vento che sa perfettamente dove deve andare. Mi piace la vita perchè sono incuriosito della morte: nessuno la conosce, ma tutti la temono, anche se sono convinto che la morte sia più poetica della vita proprio perchè avvolta in quel suo mistero così tombale e nebuloso. Mentre la vita la paragono a un abile romanziere incuriosito del suo stesso romanzo, la morte mi da la vaga impressione di assomigliare ad una perfetta poesia scritta da un imperfetto poeta di periferia. In ogni caso, io sono affascinato da quelle situazioni di penombra; è lì che la poesia si nutre della vita e della morte. È lì che stuzzica l’anima del poeta tormentato.

Nell'arte e nella vita, quando si può infrangere una regola e quando si deve?
Non esistono regole, nè esistono momenti per infrangerle. Tutt’al più possiamo pensare che esistono le buone intenzioni ma poi, sappiamo benissimo che succederà tutto e il contrario di tutto. Nella vita, come nell’arte, bisogna osare; adoro questo verbo, mi fa capire che sono vivo e che vivrò ancora a lungo.

“[...] Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” con questo verso Montale chiudeva un famoso componimento. Dimmi cosa non sei, cosa non vuoi.
Io non sono quello che sono oggi, ma probabilmente, sarò quello che sono stato molto tempo fa. Cosa voglio? Con tutta onestà, vivere senza regole, e morire con l’unica regola possibile: “ vietato morire “.

Oscar Wilde diceva che l'arte non deve mai tentare di farsi popolare, è il pubblico che deve cercare di diventare artistico. Condividi?
Ma Oscar Wilde se non erro ha anche detto che “ tutta l’arte è completamente inutile “. In ogni caso il mio pensiero è molto più semplice; dico che il pubblico debba essere coinvolto nell’arte e che l’artista debba in qualche modo essere umile perchè solo attraverso l’umiltà l’arte sincera potrà penetrare nei cuori puri degli uomini.

Nella seconda strofa della poesia "Natale", Fernando Pessoa dice "Cieca, la Scienza ara gleba vana. Folle, la Fede vive il sogno del suo culto. Un nuovo Dio è solo una parola. Non credere o cercare: tutto è occulto". Commenta questi versi e dammi la tua opinione in merito.
In queste parole viene racchiuso quello che ho sempre pensato anche io: il mistero, ciò che è nascosto, ciò che è dietro ad una nuvola, è molto più importante di tutto ciò che possiamo e siamo in grado di vedere a occhi nudi. Quello che davvero conta è quello che riusciamo a vedere con la nostra anima, i nostri sensi: le nostre percezioni sensoriali hanno la straordinaria capacità di farci toccare con l’anima ciò che altrimenti non potremmo mai toccare con le nostre mani. E la poesia si nutre dell’occulto e vive nell’ombra come noi che siamo uomini di luce adoriamo la notte ancor più della penombra.

Che caratteristiche dovrebbero avere gli intellettuali che comunicano alle folle?
La caratteristica principale è l’onestà. Quando si ha a che fare con le parole c’è in gioco una grossa responsabilità e quando si parla alle folle bisogna essere se stessi, ma prudenti. Le tempistiche giocano un ruolo fondamentale. Non credo che l’intellettuale sia colui che sappia usare bene la penna, ma l’intellettuale è colui che sa parlare alle folle senza la penna.

Le lezioni americane di Calvino ti sono state utili? Quali altri testi possono insegnare a scrivere?
“Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.” ( Italo Calvino, Lezioni Americane )

Devo ammettere con tutta onestà che Lezioni Americane mi hanno fatto capire l’unicità dell’individuo, la sua capacità di racchiuderne tanti pur mantenendo la sua struttura di unicità assoluta. In sostanza, l’individuo è unico, è tanti pensieri, sentimenti e stati d’animo diversi. Calvino in quest’opera mette in risalto alcuni valori della letteratura: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza. Noi siamo tutto questo, forse, anche molto di più. Sinceramente ci sono molti testi che possono insegnare come scrivere, ma sono pochi quelli che rimangono nel nostro cuore per l’eternità.

Cos'è eterno?
Eterna è la poesia, eterna è la vita.

 

 

Che ne pensi dell'invidia?
Semplicemente non la penso affatto, l’invidia è un sentimento che non mi appartiene.
Per me ognuno ha quel che si merita, gode (nel bene e nel male) dei risultati per cui si è impegnato. Perché invidiare a qualcuno quello che non si ha, se non si è voluto? Amare, odiare o invidiare, portano via troppe energie, e siccome sono abbastanza pigro, le mie vorrei investirle solo per amare.

Ego: limiti e potenzialità.
Il limite dell’ego ci può essere solo quando scade nel narcisismo, altrimenti crea sempre potenziali opportunità, stimolando la crescita di ogni individuo.

Credi esistano regole essenziali nella fotografia?
Certamente! Se non conosci le regole, non sai neanche infrangerle. Se non sai fare fotografie tecnicamente perfette, non riesci a dominare e realizzare nemmeno quelle mosse. In quelle mosse ci sono tutti i dettagli e i contenuti di quelle tecnicamente perfette, sono solo messi in modo diverso. È come quando in scrittura togli le vocali alle parole, il nostro occhio abituato a quel codice di lettura, legge ugualmente senza problemi. Certo, per capire un’immagine bisogna avere il giusto grado di conoscenza visiva, altrimenti viene semplicemente percepita ma è comunque un risultato.

Qual è la dote più importante per un fotografo?
Di getto mi verrebbe da dire la curiosità, ma non basta. Quasi tutti siamo curiosi in modo maniacale, lo dimostrano le tante trasmissioni televisive girate (purtroppo) sulle disgrazie umane, ma la dote per un fotografo è quella di guardare dove gli altri non vedono. È talmente vera questa cosa che spesso due o più fotografi posti sulla stessa scena guardano e raccontano cose completamente diverse. L’abitudine a guardare con “occhio fotografico”, nel senso di inquadratura, composizione, equilibrio dell’immagine, ritmo e racconto dell’evento, è per me la dote fondamentale di un fotografo. Il fotografo, maturo e cosciente del suo modo di guardare, vede tante immagini e ne scatta solo alcune, quelle giuste.

E lo scatto cui sei più affezionato?
Un giorno il preside del liceo mi disse: “Quando dovrai scegliere le immagini per una tua mostra, sappi che sarò a tua disposizione e, conoscendoti bene, lo farò io per te. Tu non sei in grado di farlo. - e aggiunse - Come può un padre scegliere tra i suoi figli?”.

Forma o contenuto? Come le associ?
Sono inscindibili, per me la forma è la confezione del contenuto. Quando fotografo mi chiedo sempre “perché devo farlo?”. Se fotografo un prodotto, devo fare in modo che, per proporlo in vendita, il cliente non debba portarsi l’originale dietro. Devo, quindi, descriverlo, valorizzarlo e renderlo “appetibile”. Se fotografo una persona, devo renderla più bella, spontanea e comunicativa. Per tutti i generi di fotografia di cui mi occupo c'è sempre un fine con relativi mezzi e modi di fotografare.

Che cos'è la sperimentazione?
La sperimentazione spesso è figlia della casualità. A mio avviso, non decidi, a un certo punto, di fare sperimentazione ma, se osservi tutto quello che ti succede intorno, stai già sperimentando. Puoi solo codificare, archiviare e, successivamente, utilizzare tale ricerca.

Come si insegna a fotografare?
La mia idea è che si può insegnare a far fotografie ma non a fotografare. In matematica ci sono le quattro operazioni di base - addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni - e, una volta assimilate e scoperto il modo di incastrarle, il gioco è fatto. In fotografia gli elementi sono solo tre: tempi, diaframmi e messa a fuoco; muovendo ed incastrando questi elementi secondo le regole, o contro di esse, si ottengono infinite visioni. La tecnica fotografica è molto semplice! In conclusione, si può insegnare la base tecnica della fotografia ma non a fotografare. Saper fotografare è la somma di esperienze, sconfitte e conquiste stratificate nel tempo.

Perché hai utilizzato il mosso per riprendere una partita di basket di altleti diversamente abili?
Abbiamo realizzato il progetto semplicemente per raccogliere fondi per l'associazione “Polisportiva Amicacci” e con un’idea abbastanza banale e scontata di un calendario da vendere. Per fare questo, come in ogni altro lavoro, dovevo documentarmi. Capire cosa avrei dovuto fotografare, interpretare il soggetto raccontandolo e rendendolo fruibile all'occhio di chi ne avrebbe avuto visione. Detta così sembra una cosa abbastanza semplice e di routine, eppure quando partecipi a una loro partita di campionato ti si scombussola il mondo, ricevi un pugno allo stomaco e le emozioni ti scaldano il cuore. Vai alla partita (siamo onesti ed ammettiamolo, con un senso di pietismo per la condizione degli atleti) e ne esci frastornato, scopri il vero senso dello sport, noti i tempi, le cadenze e le sue regole. Mi spiego meglio, gli atleti si danno battaglia senza esclusione di colpi, con una cattiveria agonistica quasi a rivendicare una rivalsa sulla loro condizione, ma appena uno di loro è in difficoltà tutto si ferma, solidalmente gli si da una mano a rialzarsi e subito dopo… botte più di prima. Ti esalti, ti lasci prendere, non esiste una squadra più dell'altra e tifi indistintamente in modo sportivo per un gesto atletico di qualsiasi giocatore, perché sei convinto che alla fine comunque vincerà il migliore. Ah scusa, ancora non ho detto che gli atleti corrono, dribblano, palleggiano e fanno tutto quello di cui c'è bisogno in una partita di basket, stando seduti su una carrozzina. Mi è sfuggito di sottolinearlo prima perché inconsciamente non lo ritenevo importante, loro sono atleti con una carrozzina “fusa” nella parte inferiore del loro corpo. Devi, assolutamente devi, inserire nelle immagini che realizzi tutto questo, il tintinnio metallico delle carrozzine, la loro velocità di esecuzione, l'odore del sudore e i ghigni degli sforzi fisici. Ho pensato che il mosso, insieme alla scelta di un bianco e nero deciso, potesse rappresentare gran parte di questi elementi.

Quale sarà la tua ultima fotografia?
L'ultima immagine che avrò dinanzi ai miei occhi prima di addormentarmi per sempre. Spero solo di scattarla il più tardi possibile.

Che cos'è eterno?
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Siccome tutto quello che è sotto i nostri occhi è in continua evoluzione, nulla è eterno! Nel nostro settore, ad esempio, qualche anno fa era pensabile la scomparsa della Kodak? Assolutamente no! Eppure, riflettendoci un po', l'unico pensiero che possa essere eterno è l'amore per un figlio.

di Luca di Berardino e Luca Torzolini

 

Alessandro Scacchia 1

Che cos’è l’arte e come trova i suoi “artisti”?
“Arte” è un termine talmente abusato negli ultimi decenni da aver perso molto del suo significato autentico. Tutti si sentono artisti nella nostra epoca, è diventata quasi una fortuna non esserlo. Invece forse è proprio quando si smette di “essere” che la vera arte può trovare i suoi artisti. Come diventare indemoniati, posseduti da qualcuno o qualcosa che ci trascende. A quel punto non si fa più arte e si può diventare noi stessi un'opera d'arte o, ancora meglio, un capolavoro.

Il corpo femminile nutre un ruolo preponderante all'interno della tua produzione artistica. È una coincidenza, una volontà precisa o una decisione nata da una coincidenza?
Il corpo femminile è diventato il mio modo di celebrare la bellezza. Già da bambino amavo disegnare i personaggi femminili dei cartoni animati, me ne innamoravo con l'innocenza che poteva avere un bambino di sette anni. Ora è decisamente una volontà. Il corpo umano ha avuto da sempre un ruolo fondamentale nell'ambito artistico e filosofico, quello femminile per quanto mi riguarda possiede in più un fattore estetico e misterioso che lo rende molto più interessante di quello maschile.

Cos’è la sperimentazione?
Sperimentare e fare esperienza si equivalgono nell'etimo, hanno origine entrambe dal verbo latino “experior” che vuol dire provare, tentare. È ciò che ci permette di arrivare ad una qualche forma di conoscenza. In questo senso cerco di non pormi limiti, sia come disegnatore che nella vita.

L'ispirazione creativa è totalmente interna all'autore o risente anche della realtà esterna e del suo vissuto?
La realtà esterna è come uno specchio che ci permette di avere un confronto con noi stessi. Penso che tutto sia già presente all'interno di noi da sempre e che non ci sia nulla da creare. Citando Kenneth Grant, uno scrittore che apprezzo particolarmente: “La pittura, il poema, la canzone - qualunque sia il mezzo usato per esprimere la verità più segreta - non è la creazione in senso stretto ma il riflesso di un movimento fuori dal tempo e dallo spazio, dai quali essa, alla fine, trascende.” Si tratta di guardarsi in profondità e nell'abbandono prenderne consapevolezza. I sogni ad esempio, possono essere una fonte infinita di ispirazione.

Qual è l'opera che ti ha più soddisfatto dal punto di vista artistico? E la tua prima opera? Quale sarà l’ultima?
Cerco di trarre sempre il massimo della soddisfazione da ogni opera che decido di realizzare. Amo caratterizzare i miei personaggi, renderli in qualche modo vivi. La mia prima pubblicazione a fumetti risale all'anno 2000 negli Stati Uniti, una miniserie d'avventura ambientata nel Giappone feudale. Era un po' distante da quello che faccio ora, ma all'epoca mi diede la spinta per decidere quale fosse la strada da prendere. La mia ultima opera invece, forse sarà quella che non sentirò più il bisogno di disegnare, se mai esisterà.

Alessandro Scacchia 2

Quali sono le tue radici fumettistiche? Quali autori ti hanno conquistato e/o ispirato?
Ho iniziato da adolescente come tanti della mia generazione leggendo fumetti di supereroi. Ne rimasi affascinato. Poi col tempo a forza di vedere quei personaggi che si comportano da frigidi, in un certo senso sembrano mutilati, mi sono rotto le scatole e mi sono messo a cercare altro. Mi sono avvicinato così al fumetto erotico, specialmente quello prodotto tra gli anni 60 e 80, notavo che in molti casi avevano anche un maggiore spessore culturale rispetto agli altri, sia nei contenuti che nell'eleganza grafica. Mi limito a citare i più grandi come Crepax, Magnus, Manara, Pazienza, Liberatore...ma la lista sarebbe molto lunga. Un discorso a parte va fatto per il fumetto giapponese, che per qualunque genere tratti è sempre presente una sensualità intensa e quasi spirituale che l'occidente non è in grado di esprimere, non smette mai di meravigliarmi...primi tra tutti per me ci sono Go Nagai e Masamune Shirow.

Cosa non si deve assolutamente fare in un fumetto?
L'unica cosa che non si deve assolutamente fare è la censura.

Ti stai occupando di qualche progetto interessante?
Ho avuto da poco il privilegio di disegnare la Valentina di Guido Crepax. A breve insieme ad altri grandi autori ed amici presenteremo un nuovo personaggio a fumetti, che mette le sue radici nella più alta tradizione del fumetto horror erotico italiano.

L’interesse da parte del pubblico per i fumetti erotici è maggiore all’estero o in Italia? Il sesso e l'erotismo sono ancora tabù nella società italiana? Che futuro ha il fumetto erotico italiano?
Fino agli anni 80 in Italia il fumetto erotico spopolava, i migliori autori erano italiani e anche i fumetti più hard vantavano vendite paragonabili se non superiori a quelle della Sergio Bonelli Editore. Tutto questo ora non esiste più, in Italia più che in altri paesi. Con la diffusione della pornografia su internet il fumetto erotico nello specifico è quasi sparito. Siamo tornati in una sorta di medioevo culturale dove ogni forma di violenza è accettata, mentre la sensualità viene repressa. Anzi la sensualità viene più censurata della sessualità. Al futuro non ci penso, nel presente qualcosa lo stiamo provando a fare.

Analogico, digitale o entrambi?
Analogico, e non soltanto per una scelta tecnica. Il digitale è un surrogato, inventato per velocizzare i tempi di produzione. Non si accorgono che stanno trasformando in questo modo l'attività libera di un artista in un'industria da catena di montaggio. Il disegno digitale è solo una simulazione, non esiste fisicamente, se non come proiezione in uno schermo. Senza un supporto materiale sarà destinato ad andare perso molto velocemente. Il discorso cambia e sono favorevole se il digitale viene applicato a sostegno del disegno tradizionale. Io personalmente con il digitale mi limito alla sola colorazione, in modo da non invadere troppo il disegno originale e solo per determinate pubblicazioni.

Alessandro Scacchia 3

Quali sono le difficoltà nel narrare una sceneggiatura in maniera visiva? Nello specifico, cosa è più difficile trasporre?
È più difficile rappresentare in una pagina a fumetti persone che conversano semplicemente piuttosto che scene di azione. È più difficile narrare delle emozioni piuttosto che delle persone che combattono. C'è bisogno di molta sensibilità, la tecnica è importante ma non basta. Nei fumetti mainstream le scene di azione sono tutte stereotipate, le espressioni dei personaggi sono sempre le stesse. Io preferisco narrare le emozioni, e l'Eros è qualcosa di fondamentale nella vita di tutti.

È possibile stabilire se un fumetto sia migliore a colori o in bianco e nero? Che differenza c’è?
Un buon fumetto può funzionare benissimo senza colori. Un fumetto di scarsa qualità ha invece bisogno del colore per compensare le lacune del disegno. C'è poi la tradizione, come in Francia, che vuole il fumetto a colori, ma va considerato come un arricchimento. Accade lo stesso nel cinema: non importa se a colori o in bianco e nero, un bel film lo è a prescindere.

Come consideri il finale in un’opera e, di solito, come ci arrivi?
Non lo considero nel senso che fino ad ora ho sempre disegnato storie scritte da altri, finora è capitato così. In ogni caso, non mi interessa molto cosa racconta una storia, ma come lo racconta. Esistono delle regole da seguire nella costruzione di una sceneggiatura e sono anche troppe. Detesto le morali o peggio le storie a scopi educativi. Amo la mitologia e la psicologia. Quanto più il significato di una storia risulta incomprensibile tanto più io mi esalto, finale incluso. Mi interessa che tutto il fumetto nel suo complesso possa trasmettere qualcosa di irrazionale al lettore, il più irrazionale possibile.

Intervista a Manuel Norcini 3Com è l'attore perfetto?
L'attore perfetto è una chimera, non esiste e forse non esisterà mai. Il compito di un attore consiste nel vivere emozioni e trasmetterle al pubblico ma come può un solo uomo conoscere ogni emozione esistente? Dovrebbe, anche in maniera ridotta, averle provate tutte e questo mi sembra improbabile. Quello che più si può avvicinare alla perfezione attoriale sarebbe un artista in grado di “rubare” le emozioni degli altri ed, attraverso la tecnica e la creatività, riproporle a noi spettatori.

Come ti rapporti con te stesso? Dove finisce l'ego?
Quando ero bambino sono sempre stato molto chiuso, non parlavo con nessuno e passavo intere giornate a disegnare. Disegnavo di tutto, improbabili super eroi, mostri squamosi con un occhio solo, scheletri a cavallo, angeli e demoni in lotta e altre creature, e quasi sempre il buono faceva una brutta fine. Non lo facevo per timidezza, come ho creduto per molto tempo, lo facevo perché il mondo al di fuori del mio non mi piaceva. Quando ho capito questo ho capito cosa volevo fare nella vita, far vedere a tutti il mondo in cui “realmente” vivo, che non è questo, e per farlo ho bisogno del cinema, che altro non è che uno strumento. Come un artigiano usa chiodi e martello, i miei ferri del mestiere sono la luce e un buon punto di vista. L'ego è una componente fondamentale della personalità, deve esserci ma come tutte le cose deve essere controllato e in equilibrio con l'amore verso gli altri oltre che di noi stessi.

Intervista a Manuel Norcini 9Forma e contenuto: in che ordine di importanza? Quali sono gli stili che prediligi? Quali i temi?
Se non hai una buona idea il film sarà deludente, eppure anche una buona idea se non è supportata dalla tecnica e dalla bellezza estetica rischia di non arrivare a destinazione, cioè lo spettatore. Non basta avere un buon soggetto per fare un buon film, altrimenti quasi chiunque potrebbe farlo, ma neanche avere una profonda conoscenza della tecnica è garanzia di successo senza l'idea. Le due cose viaggiano sul medesimo binario, alla stessa velocità. Basta che una delle due cose rallenti o non va al passo con l'altra per creare un disastro. Il cinema, come la vita in generale, è fatto di equilibri. Nel cinema, lo sappiamo, sono molte le figure che contribuiscono a crearlo, dal regista all'ultimo dei macchinisti tutti hanno la stessa importanza in questo grande meccanismo, basta che un solo pezzo funzioni male per rallentare o addirittura fermare tutto.
L'arte è lo strumento grazie al quale l'artista riesce ad esprimersi, a far vedere agli altri ciò che ha dentro, sono tanti i motivi che spingono a fare arte ma l'artista prima di essere tale è innanzitutto una persona ed in quanto tale prova tutte le emozioni che una persona può provare e si serve dell'arte per renderle visibili. Personalmente non posso credere che un artista abbia uno stile o un tema prediletto, vorrebbe dire provare sempre la stessa emozione, e questo è contro la nostra natura.
Ci sono artisti che passano tutta la vita sullo stesso stile o tema, lo fanno perché in quello sono bravi e non hanno voglia di mettersi in discussione.

L'arte come catarsi? E cos'altro?
Ogni singola persona su questa terra ha un talento, nessuno escluso, alcuni hanno il dono di comporre delle melodie indimenticabili, altri usano la pittura, altri ancora la danza, ma l'arte non è soltanto questo. Anche un muratore molto capace a suo modo è un artista se quello è il talento che gli è stato dato. Penso che il valore del nostro talento sia dato da come lo usiamo, se viene usato esclusivamente per se stessi allora non ha nessun valore, penso che l'arte nasca nel momento in cui si riesce a regalare un'emozione ad un altra persona.

Perché fotografi? Parlami del progetto sull'India.
Fin da bambino ho sempre avuto un contatto stretto con la fotografia perché mio padre ne è un appassionato. Ricordo che fotografava di continuo ogni volta in cui, nei fine settimana, giravamo l'Italia, essendo lui anche un grande viaggiatore. Probabilmente la prima volta che ho scattato una foto ero talmente piccolo che non lo ricordo. Quindi mio padre ha avuto un ruolo fondamentale nella coltivazione di questa passione, tutt'oggi ci divertiamo a vedere chi tra noi fa le foto migliori. Crescendo ho deciso di concentrarmi sul cinema ma essendo un fissato di fotografia cinematografica non ho mai messo da parte l'amore per la fotografia “classica”. Quello che mi affascina è il fatto di riuscire a catturare una porzione di realtà che non tutti riescono a vedere, perché distratti, o perché non è nella loro natura, perché la bellezza non va creata, è già lì alla portata di tutti, il difficile è riuscire a vederla. Il progetto Bhaarat, che in uno degli innumerevoli dialetti indiani vuol dire solo India, è nato dal desiderio di riportare in Italia una realtà di cui si parla tendenzialmente molto poco. Tutti conosciamo l'India per le sue bellezze naturali, gli straordinari templi e l'affascinante religione ma quanti la conoscono per essere il luogo più inquinato al mondo? Quanti la conoscono per essere il luogo in cui più di due milioni di bambini muoiono ogni anno per infezione? Quanti la conoscono per quello che è veramente? Sono stato tre mesi in India, ed ho a malapena scalfito la superficie di quel muro che nasconde la verità, ho lavorato come volontario nelle case di Madre Teresa e nello slum di Calcutta grazie a persone straordinarie che hanno deciso di dedicare la vita a quelle persone, come Marta Monteleone, fondatrice dell'associazione “a mano a mano”, che con le poche donazioni che riceve da istruzione e cure mediche di base a quella gente che è stata dimenticata dal sistema. Bhaarat è stato il tentativo di rendere le persone in questa parte del mondo un po' più consapevoli di ciò che accade al di là dei loro smartphone.

Intervista a Manuel Norcini 5Cos'è il cinema?
Oggi il cinema è semplicemente una macchina da soldi, è diventato una fabbrica di proprietà del capitalismo. Come ogni cosa bella è stata distrutta in nome del denaro. La responsabilità di questo non va attribuita al capitalista, che per sua natura non conosce altra forma di piacere che quella di accumulare soldi, ma a noi altri. Abbiamo deciso di attaccarci alla grassa mammella dell'industria senza porci nessuna domanda, siamo pecore che seguono altre pecore, esseri lobotomizzati addestrati a non pensare, perché il pensiero è un male per gli affari. Gli abbiamo lasciato fare un così buon lavoro che oggi non c'è più soluzione, e i pochi che ancora resistono vengono etichettati come pazzi. Ma la fortuna vuole che la speranza sia l'ultima a morire, perché finché questi “pazzi” continueranno a resistere l'arte vera non morirà. La domanda giusta sarebbe un'altra: cosa DOVREBBE essere il cinema?

Scrivere sceneggiature: che differenza c'è nello scrivere per se o su commissione?
Quando scrivo una sceneggiatura immagino subito come la scena andrà girata, il processo di scrittura della storia e l'aspetto tecnico nascono nello stesso momento. Questo è senza dubbio un bene quando sei il regista della storia che scrivi ma può essere fastidioso quando il regista è un altro. È come affidare la donna che ami ad un altro uomo sapendo che non la tratterà bene come faresti tu, è frustrante. Generalmente ho la tendenza a scrivere per gli altri quelle storie che io non realizzerei e tengo per me le più intime in attesa di poterci lavorare.

Cinema industriale e cinema indipendente...credi esista una via di mezzo?
Torno a ripetere che la vita è una questione di equilibri. Oggi, purtroppo, l'ago della bilancia pende dalla parte del cinema industriale, risponde meglio alle esigenze di un pubblico sempre più pigro che vuole solo distrarsi dai problemi della vita. Il cinema indipendente è l'ultima salvezza per chi vuole qualcosa di più che esplosioni e automobili che in realtà sono robot che originariamente erano automobili venuti da un altro pianeta (Il senso di confusione della frase detta poc’anzi è voluto: assomiglia alla superficialità del cinema attualmente distribuito in tutte le sale). Spesso però il regista indipendente non ha i mezzi per poter realizzare storie che varrebbe la pena di raccontare, così si è troppo spesso costretti a “ridimensionare” le ambizioni, andando a discapito della storia stessa. La via di mezzo esisterebbe se invece di ostacolarsi a vicenda gli artisti si aiutassero, in questo modo si crescerebbe insieme e ne guadagnerebbero tutti.

Intervista a Manuel Norcini 1E la perversione? Cos è la perversione nel cinema?
Viviamo in un mondo fatto di regole, schemi sociali e convenzioni, spesso non ne capiamo il senso ma accettiamo passivamente questi comportamenti e chiunque rompa questi codici viene definito “strano”. Seguiamo così tanto le regole che siamo arrivati al punto di non riuscire più a comunicare. Si è vero, siamo costantemente collegati, attraverso internet, i cellulari, i social network, ma abbiamo perso la capacità di parlare davvero alle persone. Una vecchia canzone diceva: "[...]le persone parlano senza dire niente, sentono senza ascoltare, lo senti il suono del silenzio?”.
La perversione è un comportamento diverso da quello dettato dal senso comune, ma non è proprio questo tipo di comportamento che ha portato l'uomo a fare scoperte sensazionali? La storia è piena di esempi di uomini che hanno infranto le regole per arrivare dove nessun altro era mai arrivato, anche a costo di essere emarginati o peggio. La perversione nel cinema sarebbe un gran bel traguardo, arrivare a conoscere in modo così accurato ogni regola, ogni schema, da permettersi di abbatterli tutti.

Dove sono finiti gli spettatori?
Siete mai stati in un allevamento industriale? Quando entrate in un posto del genere siete invasi da un senso di morte indescrivibile. Centinaia e centinaia di animali accalcati l'uno sull'altro, incapaci di muoversi e talvolta anche di stare in piedi. Tutte quelle bestie sono lì inconsapevoli in attesa di essere uccise per gonfiare le tasche al potente di turno. Non si ribellano, non lottano, non cercano di fuggire, hanno gli occhi vuoti e anche se gli mostri la via di fuga non si muovono perché non sono stati abituati ad essere liberi, non lo sono mai stati. Ora, non voglio arrivare a paragonare lo spettatore odierno al bestiame da allevamento intensivo ma dovete ammettere che, se ci pensate bene, non c'è molta differenza.

di Luca Torzolini

foto di Chiara Francesca Cirillo

Un'intervista profonda, viva nei giochi di parole e nel sarcasmo disincantato del monito. Una lettura dell'agonia della Terra, per la presenza di esseri stolti, infimi e infami che sfruttano stelle di plastica. Un dialogo fra sé e sé, fra sé e l'umano, per chi è capace di leggere l'infinita meraviglia di essere parte dell'universo. 

 

Flavio Sciolè 1

 

PRIMO TEMPO

1-Puoi rispondermi, con una logica diversa da quella del dialogo convenzionale, a questa domanda?
Posso risponderti a questa domanda con una logica diversa da quella del dialogo convenzionale? Potrei ma non lo farò.

2-Dove si rifugia la purezza? Cosa la uccide? Cosa la fa rinascere?
Risiede nell’Infanzia e nella Follia. Col crescere le norme la uccidono, può restare in vita solo nello sguardo di un pazzo; siamo prigionieri alla vana ricerca di una medicina che ci salvi.

3-Se l’infinito fa l’amore col nulla cosa accade?
Appare Leopardi con in mano una copia di ‘Nature e Nulla’.

4-Ci si può liberare dai media negativi? O meglio: come si può mediare il proprio operato senza che si contamini d’altrui ‘visioni della cosa’?
L’unica risposta è data dal non-senso, dall’interagire al contrario rispetto all’interlocutore. Comunque, se l’opera non è esplicata dall’autore ognuno ne trae il senso che vuole; viceversa, se è esplicata, il senso dato dal creatore è postumo, successivo alla creazione e quindi parziale.

5-Quali sono le domande giuste? E soprattutto: per fare cosa?
Le domande giuste sono quelle che non prevedono una risposta; questa ad esempio e comunque, tanto per ripetermi: l’unica risposta è data dal non-senso, dall’interagire al contrario rispetto all’interlocutore, comunque, comunque.

6-Cosa faresti per distrarmi?
Guarda, c’è della gente che finge di respirare attorno a te. Ricorda che ti ho insegnato a mangiare il sale.

 

Flavio Sciolè 2

 

SECONDO TEMPO

7-Quando hai capito che ti saresti dedicato all’Arte?
L’Arte mi ha attratto-assorbito fin da bambino ( a sei anni avevo creato-generato delle poesie, alle elementari avevo scritto un libro sui pirati) per poi esplodere nell’adolescenza quando la Poesia è stata la prima istanza, urgenza indicibile. Spendevo, bene, i pomeriggi a scrivere ed a leggere. I miei temi erano già quelli che mi diverranno sempre cari come un ermo colle: disincanto, pioggia, delirio. Per stornare, tornare, alla domanda, la passione, il cammino, il kalvario verso il Golgota dell’Arte è divampato pian piano per divenire, dichiararsi, incendio immane ed io il primo dei piromani. Da un certo punto in poi l’attenzione è andata sempre verso gli altri artisti, le altre forme d’Arte, incontrovertibilmente. Dove c’era un suono inutile è arrivato il punk, l’hardcore, il noise; dove c’era la parola è nata la poesia; dove c’era la recitazione è arrivata l’antirecitazione; ed ancora: la rottura dei tempi, gli schermi spaccati, i teatri bruciati. Più che di vocazione, anche se l’accostamento sacerdotale mi soddisfa e disfà nel fa, nel farsi, nel fare, nel disfare, per Me si è trattata di un’Istanza, parola chiave di tutto il mio percorso di Vita-Arte. L’Arte è un’impellenza, una condanna, un qualcosa che divora il tuo corpo e la tua psiche. L’Arte è il tutto, la potenza generatrice, l’orgasmo eterno, dipendenza irrevocabile: pArte inscindibile di me. Ogni artista Reale è un condannato, un reietto, un maledetto nei secoli dei secoli, amen.

8-Perché ti definisci antiartista?
Nel divenire, nel trascorrere inesorabile del tempo, mi accorsi che il mio essere Artista (e di seguito Attore, Regista, Poeta, ecc., quindi Niente) andava esattamente nella direzione opposta a quello spirito che sentivo sgorgare furioso in me. Non cercavo le Sacre scritture dell’Arte, i cosiddetti maestri colmi di regolette pronti ad ammaestrarmi, non cercavo consigli e consigliori. I profeti del posto fisso nell’Arte, del raggiungere un obiettivo (ed io a tutt'oggi, ma anche domani, non ne ho), del prostituirsi a chiunque, li ho odiati subito, scacciati dal tempio, mandati a fanculo, sputati via con tutta la razza umana ed il suo desiderio osceno di dover avere, essere. Scalciavo, urlavo, iconoclasta ed in contrasto con tutto quello che non venisse da un sentire reale, dallo stare nell’atto, dall’evocare l’azione, dal tagliarsi e veder defluire sangue e poesia. Ho appreso di essere altro, ed altro erano anche tutti coloro che ammiravo: evocatori, poeti ubriachi, attori violenti, suicidi geniali. L’impossibilità ( e qui torna l’istanza) di essere artista mi ha portato a divenire un antiartista, d’altronde cosa avevo in comune con l’attore lecchino del capocomico, col poeta ragioniere di maniera, col lavoratore cineasta e cinematografaro? Quali colleghi? Creare, Essere, Evocare non replicare o meglio, per cita in armi: Arte non una parte. Cosa potevo avere in comune con questa mirabile, eccelsa schiera di impiegati, io, colle mani colme di poesie decadenti e sangue, cogli occhi pieni di meraviglia e stupore, deciso a morire giovane, intento a camminare nella pioggia tutto il tempo, colla distruzione a riempirmi di vita? Lo stupore, ecco cosa ho a lungo inseguito, lo stupore nell’Atto, che sia Artistico o Vitale, nell’Agire, nell’Essere. Il passo dall’arte all’antiarte è stato breve. Paradossalmente ero già un antiartista anche quando non lo ero e le mie disopere erano già antiarte. Oggi l’artista è divenuto un codice a barre, un prodotto da vendere. L’antiteatro e l’anticinema (Debord), sono concetti già codificati, io li ho presi e resi dogma, cifra unica del mio percorso, reiterazione ossessiva e continua, non atto casuale o isolato (come è stato ed è tutt’ora). Quanti iniziano sperimentali e muoiono narrativi? Troppi, quasi tutti. Le nuove avanguardie, se tali, comprendono benissimo l’antiarte ma credo che la sua portata sia spesso sottovalutata o non utilizzata come rimando culturale.

 

Flavio Sciolè 3

 

9-Come vedi il mondo dell'Arte?
Nel mondo dell’Arte stimo ‘solo’ chi fa dell’intransigenza, della coerenza ( fino a pagarne le estreme conseguenze), la propria cifra. Del mondo dell’Arte odio quasi tutto. La mia esperienza mi ha portato a comprendere che il tentativo continuo di modificare l’Io di ognuno, il volerlo subordinare alla norma, ingabbiarne l’anarchia in celle fredde e buie, è continuo, incessante, duraturo. L’Arte non è una merce; l’artista non deve essere un mendicante colla mano tesa in cerca di un misero obolo che ‘contribuisca’ alla sua consolazione. Non c’è consolazione, non c’è redenzione mai, ci aspettano i vermi, la fredda terra, polvere ritorneremo. Negli ultimi anni poi c’è stato uno spostamento netto verso l’Ignoranza. Critici scadenti e scaduti dominano il sistema e preferiscono portare avanti i mediocri, gli improvvisati, gli scopiazzoni della domenica. Questi lavoratori-artisti hanno il vantaggio, agli occhi del curatore, di essere mediocri, pieni di sé e manipolabili. Negli ultimi anni ho visto esposizioni davvero orrende, tutti a copiare ed a spacciare per nuove le loro operette (immorali) ai propri amici intervenuti di corsa al vernissage. Si tratta di patetiche scimmie; sfigati colmi di buonismo che devono riempire un vuoto. Poveri geometri che rincorrono poveri muratori che nel fine settimana non si accontentano di fruire d’arte, pretendono di crearla. Ripulire è facile, sporcare è difficile. Vi divertite a fare gli artisti con la pancia piena, vi terrei a pane ed acqua.

10-Se ti dico mestiere?
L’arte non è canalizzazione delle emozioni, mestiere. L’energia fa fatta fluire come un fiume in piena, gli argini vanno rotti per poter perdere il controllo. Solo nell’imponderabile può esplodere una pura verità, una restituzione altra.

11-Cos’è il talento, ne hai?
Il talento va sprecato, gettato alle famosissime ortiche. Bisogna mancare, perdere, per essere. Io, forse, potevo esserlo; sono una risorsa mancata, bastava cedere almeno lo 0,0001% ma non è andata così. Il sistema è questo: non dare spazio, mezzi, visibilità a chi non si allinea ad un agire artistico edulcorato. Se la resistenza del soggetto persiste si aspetta che si sfoghi, che invecchi, che muoia.

12-La provocazione?
Oggi la provocazione non ha più senso, la vera provocazione è l’oblio ‘il perdersi d’assenza nell’assenza’ (cita ‘di questa nebbia’, poesia/video del 2015). Bisogna dismettersi, scomparire.

13-Influenze?
La mia Vita d’artista, d’antiantiartista, è stata influenzata da tutto e niente, evocando: ogni avanguardia, ogni sperimentazione, mia madre, la poesia, la letteratura, la pittura, l’estetica beat, l’espressionismo, il surrealismo, il decadentismo, il romanticismo, il situazionismo, l’azionismo viennese, la performance fino agli anni settanta, il punk, il noise, l’hardcore italiano, il pogo, la body art, la pioggia, l’ateismo, l’antiteatro, il cinema sperimentale, Darwin, gli anni Sessanta, gli anni Settanta, parte degli Ottanta e dei Novanta, l’anarchia, le vite d’artista, Io.

14-Nel 2014 hai performato per due volte a Londra. Come vedi il mondo della Performance ?
La performance la frequento da oltre venti anni (i miei primi gesti sono degli anni Novanta) e, in essa, ho operato a diversi livelli. Ho messo in atto live dediti all’evocazione, al creare nell’Atto, spettacoli in cui nulla è preordinato e tutto diviene-avviene. A questo periodo poi ne è seguito un altro in cui ho attuato-esposto la mia estetica. In una fase finale le mie performance sono divenute un atto di critica alla razza umana ed ancora all’artista-performer che si atteggia a Vate senza realmente cadere nell’oblio, fingendolo. A questa zona, che reputo in parte conclusa, ho dato molto, speso energie e sangue, disperso forze. Nella performance tutto è già stato detto, il problema è che, in parte, non è stata ancora sdoganata integralmente e molti ripetono cliché obsoleti dichiarandoli originali. In questo momento non sto performando, d’altronde anche con Teatro Ateo ho smesso di andare in scena (dal 2008 con Icaro Caro, ndr); sono alquanto schifato dalla scena attuale; fatte le dovute eccezioni, la trovo falsa ed autoreferenziale. Condivido la critica fatta al sistema performativo italiano (e non solo) da Ilaria Palomba nello splendido ‘Homo homini virus’.

 

Flavio Sciolè 4

 

15-Parlami di Teatro Ateo.
Rispetto alla domanda, io rispetto la domanda, allora: con Teatro Ateo (la parola ateo è ‘inclusa’ in teatro) volevo un teatro che non avesse Dei teatrali da clonare, scimmiottare; almeno in partenza doveva essere il meno derivativo possibile e, comunque, sorgere-nascere-formarsi da un bisogno estremo, un’istanza, appunto, ancora l’istanza. In principio mi sono soffermato sulla scrittura, una scrittura poetica, neutra. Poi nella messa in scena il tutto si è ineluttabilmente disgregato, smembrato, inceppato, devoluto, trasfigurato. Il processo non è stato, comunque, propriamente tecnico, anzi. Dopo varie esperienze teatrali in cui ho acquisito la grammatica ( compagnie, laboratori, accademia, teatro stabile) mi sono dismesso dal ‘sistema’ per sgrammaticare, errare. Questa dismissione non è stata un atto artistico fine a se stesso ma un’istanza, sempre lei, un divenire irrinunciabile. L’antiteatro di Teatro Ateo si esplica coll’uso di luci non teatrali, colla rottura dei tempi teatrali, coll’immissione di elementi non teatrali e ateatrali (ad esempio la performance estrema), con un’antiscenografia fatta spesso di oggetti, simboli, rimandi. Il paradigma dell’intero percorso è la recitazione inceppata. L’inceppatura, l’errore pseudo teatrale non viene superato come indicherebbe la regola ma lì l’artista si ferma (e diviene antiartista) ed erra volontariamente, incespica, reitera e diviene uno sbaglio, lo sbaglio e quindi uomo, dato che non esiste un uomo perfetto. Rimanendo inceppato nel corpo e nella voce l’Uomo lì resta ed espone la propria imperfezione. La parola smembrata all’infinito, impedita, rotta, ripetuta mi porta all’antinarrazione, al non raccontare una storia, a far filtrare un pensiero, un’emozione attraverso una mezza parola, un mezzo gesto.

16-Cinema?
Anticinema: moduli principali dell’azione cinematografica: anticinema, estetica, uso deviato di luce, regia, recitazione, montaggio in macchina. In particolare qui lo sgrammaticare si applica usando al contrario le ‘norme’, non usando una sceneggiatura, esagerando; piccola digressione-trasgressione: cos'è l’arte se non esagerazione? Aggiungere, non togliere ( come tanto cinema ‘moderno’ impone alla recitazione), amplificare. Il montaggio in macchina che ho usato nell’80% dei miei video ( negli altri ho attuato la postdemolizione) ci riconduce ancora all’istanza, al fermare l’attimo, allo stare nell’atto, al non postfalsificare. Il cinema ha solo cento anni ed ha già deciso le proprie regolette (campo, controcampo, ecc.), credo ci siano migliaia di strade inesplorate in questo mezzo ( più del teatro che ha avuto millenni per definirsi, commentarsi, stilizzarsi). Ad esempio, quando ho iniziato cercavo di fare un uso sperimentale ( e non paracinematografico come si usava all’epoca, negli anni Novanta) dei formati non professionali, marcendoli, non migliorandoli. Questa mia ricerca della demolizione del mezzo, della tecnica, parte dalla convinzione che se il messaggio interno è forte passa comunque. Certe riprese disarticolate e di bassa qualità, a me usuali, sono poi state sdoganate da modalità-eventi (ricordo in particolare come al G8 di Genova dei girati con la camera accesa a riprendere il marciapiede e la corsa dell’operatore in fuga divennero valide, ‘normali’ perché valeva il loro contenuto) e dal digitale. L’uso di filtri è sempre stata una scelta chiara, creati da me, non professionali, mutuati dalla fotografia. Altro esempio: la scenografia, continuamente inficiata, sporcata, pulita ma con un elemento ad inquinare. La recitazione, inceppata, decontestualizzata, mostrata palesando il contesto, vilipesa ostentando lo sguardo all’inesistente monitor. L’assenza di musica (anche in Teatro Ateo) per cercarla nella voce, nei rumori incontrati e provocati d’attorno. Citandomi: l’estetica che è parte fondamentale della ricerca dell’artista si compenetra all’etica ed in maniera parallela le due istanze viaggiano sulle emozioni-azioni dell’uomo contemporaneo esplorandone i lati oscuri, affogando nei meandri dell’io, nelle buie nicchie della psiche. Ecco, l’antiarte per me è anche l’etica, assolutamente correlata all’estetica. Nessun compromesso, nessuna discesa nei gironi del patteggio, divenire puro è il fine, tornare feto, ricollegare il cordone ombelicale. La coerenza è alla base del mio essere antiartista. Non bisogna mai cedere alle lusinghe, mai piegarsi e diventare un bene di consumo. In questo, ecco, io mi sono rimosso, autorimosso.

17-Nella recente intervista-fiume per Cinecritica (n.80, 2015, a cura di Domenico Monetti) dici: “I contenuti restano superiori all’ottuso ed insensato cinema americano ma c’è un imbarbarimento generale. Le maestranze restano professionali ma poi: attori che non sono attori, registi incapaci, storie vuote: tutto è peggiorato. Le colpe principali le attribuisco alla politica ed alla TV. Nella fiera del luogo comune bisogna consolare, intrattenere, alleggerire. I talenti fanno il doppio della fatica ad emergere a causa delle corsie preferenziali attribuite ai soliti noti.” Cosa pensi esattamente del cinema americano? Segui gli oscar?
Penso che produca dell’ottima merce, dei prodotti ben confezionati spesso copiati a tanto cinema d’autore. Gli oscar li trovo assolutamente autoreferenziali e complementari all’orripilante sogno americano. Se un amorfo con una mezza espressione è il miglior attore al mondo a Gian Maria Volontè dovevano andarne almeno cento. Morricone, per fare un altro esempio, ne meriterebbe 3-400.

18-E la fiction?
Tranne rari casi è morta da decenni. Gli pseudo attori che interpretano le fiction non fanno altro che sussurrare, scambiano il recitare col sussurrare, l’italiano col dialetto; andrebbero presi a calci in culo e rispediti alle elementari.

19-Cos’è la realtà?
E’ la cosa più oscena da mettere in scena.

20-Come crei?
Dipende dall’Attimo che come sai sfugge. Di recente un video è diventato un testo teatrale ed una poesia è sbocciata in un video.

21-Come vedi l’Italia?
L’Italia è affetta-infettata dall’ignoranza, questo cancro osceno la sta divorando. Bisognerebbe obbligare ogni italiano a leggere. Ogni Utopia è bandita. L’unica via è la fuga. E’ un paese in lutto, morto, il cui cadavere è sbranato, vilipeso, da mille avvoltoi. E di certo la peggiore 'Itaglia' che io abbia (e dico abbaia) mai visto. E’ tutto un piagnucolare, solo quando si è colpiti direttamente ci si interessa a questo o quel problema. A questi italiani toglierei il calcio ed i soldi per vederli rantolare: unicamente in questo stato capirebbero il proprio Stato.

22-Non sarebbe ora di riesumare ‘Itagliano’?
Come ti dicevo sopra, la provocazione non ha più senso: la realtà di questo paese ha superato qualunque fantasia. Molti miei video, a distanza di anni, sono ancora attuali.

23-Cosa cerchi?
Lo stupore, lo stupirmi ancora nell’atto, eccedere, debordare. La strada è sempre la stessa, sbagliata e sghemba, inceppata. L’importante è non prendere quelle giuste, sempre troppe a provocarci, a proporci il compromesso, la norma, la regola. Non in fede, ti saluto.

 

Di seguito una poesia e l'esplicazione del set fotografico

 

Santità di un pirata

stagliato

contro un cielo inutile ai vivi

cerco Mompracem

in nere ed immobili onde

e sono

colmo di bende

strette

a fasciarmi

sconnessi ventricoli d’infanzia

e sono un pirata

ed ho una conchiglia a forma di benda

ed ho una benda a forma di conchiglia

mentre vanamente felice

inciampo sulla rena bagnata

e rincorro il niente

ai bordi di un tempo finito

colle tasche piene

di clessidre, rotte.

 

 

Disesplicazione

Ciclo: 'Santità di un Pirata'

ProtoPerformer: Flavio Sciolè

Foto: Chiara Francesca Cirillo, Archivio Sciolè

Poesia: Flavio Sciolè

Anno: 2014

 

Esplicazione

In questo progetto Flavio Sciolè torna a tematiche a lui care esponendole in foto (fermandole, non un video quindi) all’interno di un set fotografico a cura di Chiara Francesca Cirillo. Contemporaneamente è arrivata la poesia (un’ulteriore immobilità, non la voce quindi) a restituire immagini alle immagini.

Sinossi

Esplicazione performativa in foto e poesia dell’agognata ricerca di un ritorno/ non ritorno ad uno stato infantile colmo di pirateria e santità. (FS)

di Luca Torzolini

in ordine foto di Ruggero Passeri, Giulia Brunelli e Luca Torzolini

Silvano Agosti - Foto di Ruggero Passeri

Che cos’è il Cinema per te? E la Scrittura?
Che importanza ha? La scrittura e il cinema sono la scrittura e il cinema in modo diverso per chiunque se ne occupi: non esiste di nulla una definizione che vada bene per tutti. Quindi mi rifiuto di darne una definizione. Ti posso raccontare gli orrori del cinema industriale, gli orrori della letteratura. Addirittura, gli autori stessi di letteratura non hanno più dentro il desiderio di essere letti, bensì il desiderio di essere venduti.

Cosa ti lega a Charlie Chaplin?
La stessa cosa che mi lega a qualsiasi essere umano. Charlie Chaplin, come qualsiasi essere umano, è un capolavoro assoluto. Solo che lui è riuscito ad esternare questo suo essere capolavoro, gli altri no.

Indira Ghandi, Panagulis, Osho: alcuni personaggi da te intervistati dal 1973 al 1987. Cosa ti hanno lasciato queste interviste?
Io non credo esistano personaggi importanti. Ogni essere umano è il personaggio più importante che esiste sulla Terra. Io sogno appunto un mondo dove il capolavoro dell’essere umano si rivela e tutti sono capolavori: viaggiando incontreremo 6 miliardi di capolavori. Chiunque io intervisti intervisto la sua infanzia, non lui, e la sua infanzia mi da come risultato il vero essere che lui è. Per disparati motivi questi personaggi famosi sono stati tutti imprigionati in una dimensione che non è la loro: è come se vivessero sempre con la statura della loro ombra, un’ombra molto grande, e quando vanno dal sarto a farsi fare il vestito si fanno il vestito sulle misure della loro ombra. Poi ci inciampano dentro. È orribile per certi versi la notorietà.

Perché l’essere umano è un capolavoro?
È come dire: perché il cielo è immenso? Si può azzardare un ipotesi: l’essere umano è un capolavoro inenarrabile perché l’insieme delle sue caratteristiche non ha eguali in tutto l’universo conosciuto. Inoltre, dell’essere umano si conosce pochissimo, quasi nulla, soprattutto se ci si riferisce alla parte più interessante dell’essere umano, il cervello. Per questo ho stimolato la totale e piatta inintelligenza delle istituzioni, chiedendo alle Nazioni unite e all’Unesco di nominare l’essere umano patrimonio dell’umanità perché sai, massacrare una serie di rivoluzionari è normale, far cadere dai tetti un qualche centinaio di operai è normale. Eppure se questi operai e rivoluzionari fossero considerati patrimoni dell’umanità uno direbbe “Chi è quello sciocco criminale che ha distrutto tutti questi patrimoni?” Perché un quadro di Caravaggio viene lasciato per strada sotto la pioggia? Quando vedo un barbone dico “Ma guarda, è assurdo che un capolavoro venga messo lì!”. Probabilmente perché nessuno ne conosce il valore. Pensano che un barbone è un barbone e basta.

Che significato riveste per te la parola sperimentazione?
Sperimentare è il settimo senso dell’essere umano. È impossibile concepire la vita quotidiana senza sperimentazione perché allora si tratterebbe solo di esistenza e non di vita. L’esistenza riguarda le pietre, il carbon fossile… invece la vita riguarda l’essere umano! Allora sperimentare vuol dire incontrare ciò che è eternamente nascosto in ogni cosa. Tu incontri il mistero delle cose, che peraltro è inesauribile… non è che uno dice “Adesso ho incontrato il mistero del mare, sono a posto”. No! Avrà incontrato una piccola parte del mistero del mare. La sperimentazione è il dato di eternità che è concesso di conoscere durante la vita terrena.

Qual è stato il tuo primo film?
Il mio primo film è stata la nascita, sono nato ed è cominciato il primo film. Poi il film non si è mai interrotto finché non ho fatto un cortometraggio, il primo di una trilogia sulla donna e sulla religione. L’ho fatto per entrare al CSC dove si doveva consegnare un piccolo film, io l’ho fatto e montato a mano. È la storia, che poi si è rivelata sconcertante e scandalosa, di una donna che non voleva fare più l’amore con gli uomini e allora andava in una chiesa e faceva l’amore con un bellissimo Cristo del quattrocento. Questo suscitò una specie di gatto in piccionaia: erano tutti furibondi. Essendo tutti cattolici e avendo il posto di lavoro che avevano perché erano cattolici e non perché erano bravi, erano tutti molto turbati “Qui c’è una donna che fa l’amore con Cristo, quindi Cristo faceva l’amore?!”. Tutte storie così… storie di “magia nera”!

Che destino ha avuto il tuo primo lungometraggio “Il giardino delle delizie”?
Fritz Lang, John Ford e Jean Renoir hanno scelto “Il giardino delle Delizie” come uno dei dieci film al mondo in quel periodo da presentare all’esposizione universale a Montreal.

Silvano Agosti - Foto di Giulia Brunelli

Raccontami del tuo incontro con Bergman.
Potrei dire, senza vanità, che non sono stato io a incontrare Bergman ma è stato lui a incontrare me: lui è venuto proprio a cercarmi dopo la proiezione de Il giardino delle delizie, mi ha aspettato fuori per un quarto d’ora, nell’atrio deserto del Film Istitute di Stoccolma. Quando sono arrivato li vicino a lui, mi ha detto “Sei tu l’autore di questo film?”. Già il fatto che abbia detto l’autore e non il regista mi ha dato un’emozione fantastica, perché io non credo nei registi, credo negli autori. Ho annuito e lui ha continuato “Sono arrivato qui con il mal di testa e il tuo film me l’ha fatto passare”…
Poi abbiamo parlato quattro o cinque ore, dicendoci le cose segrete che si dicono i bambini, alcune delle quali sono irriferibili. Ma soprattutto, io avevo deciso allora di non fare più del cinema, perché il mio film a Roma era stato massacrato dalle giurie più o meno vaticanesche, più o meno cattoliche, più o meno ipocrite. Lui mi ha messo una mano sul colletto della camicia, la sua meravigliosa gelida mano, e mi ha detto “Non ti faccio andare via da qui, se non mi giuri che andrai avanti a fare del cinema”.

Qual è il tuo parere riguardo la Storia del Cinema? Chi è George Méliès?
Non è mai stata raccontata la storia del cinema. Si racconta la storia dell’industria cinematografica che non ha niente a che vedere col cinema. Un po’ come la storia che i bambini sono costretti a studiare a scuola, che non è la storia dell’uomo ma quella del potere.
George Méliès è il vero inventore del cinema, mentre i Lumiere erano un ricchi signori che (avendo un loro tecnico inventato il meccanismo della macchina da presa) con elegante disinteresse se n’è occupato un po’, ma non l’ha neppure brevettata. E quando Méliès è andato a chiedere se poteva comprarne una, loro gli hanno detto “No!”, come fanno sempre i ricchi. Allora lui ha disegnato la macchina da presa, se l’è costruita e ha realizzato 2400 film. Ne sono rimasti una sessantina.

È possibile un Cinema non basato sul denaro?
È possibile solo il cinema non basato sul denaro. È come l’amore: se un uomo paga una donna, non farà mai davvero l’amore. Io ho una concezione molto semplice: tutto ciò che la persona fa deve essere libero da qualsiasi imposizione. Avere un produttore cinematografico non significa essere liberi.

Secondo la tua esperienza, che effetto fa la telecamera alle persone? Le persone cambiano di fronte alla telecamera?
Se sono nevrotiche sì. Non cambiano di fronte ad una sedia, perché dovrebbero cambiare di fronte alla telecamera? Personalmente considero sempre vuota la telecamera: per me la telecamera o un vaso di fiori è la stessa cosa, ma veramente la stessa cosa. Inoltre a me non piace sapere le domande prima, voglio offrire un’estemporanea: quello che sono sono.

Che cos’è la Kirghisia?
La Kirghisia reale è una delle 15 ex-repubbliche sovietiche e va sotto il nome di Kirghisistan. Invece, nel mio pensiero la Kirghisia è la condizione umana cui tutti aspirano. Per dare la felicità all’essere umano bastano pochissime cose. Non sono le cose che gli vengono propinate attualmente. Non sono le 25 marche di dentrificio, le 35 marche di detersivo, non sono le automobili che cambiano modello ogni tre mesi o le tecnologie che superano sempre se stesse e nessuno è capace di adoperarle. Le cose essenziali sono 5: mangiare bene, dormire tranquilli, avere un lavoro di non più di tre ore al giorno, ricevere a diciotto anni una casa propria di 50 metri quadri (camera, cucina e bagno), avere tanti amici e tanti amori. E qui il mio discorso inciampa perché finché dici “tanti amici” tutti annuiscono, quando cominci a dire “tanti amori” tutti impietriscono. Secondo me si fermano a livello cosciente perché sono addestrati alla possessività e pensano di avere un solo amore da sgranocchiare per tutta la vita. Dopodiché arriveranno subito all’osso e si romperanno i denti, perché non si tratta di amore ma di possesso. E il possesso ha a che fare col sesso, il quale non è niente, è un rubinetto da cui uno può orinare e fare altre cose, ma non c’entra niente con l’amore. Con l’amore c’entra la sensualità, non la sessualità. E la sensualità è l’appagamento dei cinque sensi, forse dei sei. Anzi, come si è detto prima, dei sette. È una beatitudine che non costa nulla, ecco perché con tanta ferocia gli apparati istituzionali impediscono alle persone persino di concepire l’amore. Nei loro film cosa succede quando due fanno l’amore? Lui è sopra di lei e fa “OOOOH OOOOH” e lei sotto di lui fa “AAAAAH AAAAAH”, il che non c’entra niente con l’amore. È esattamente come se uno per descrivere ai marziani cos’è il cibo proiettasse un rutto. Non è niente. Eppure tutti credono che sia quella cosa lì. In realtà quella cosa li riguarda la procreatività, che il potere consente perché così i servi si moltiplicano. Ma non c’entra niente col fare l’amore che è un mistero immenso, è l’incontro di due universi all’interno di miriadi di microuniversi. È una cosa infinita. Capisci? Non è che un viaggio intergalattico lo fai in trenta secondi.

Tenerezza, sensualità e amore. Perché sono inscidibili?
Sono inscindibili perché fanno parte di un unicum come i polmoni, il cuore e il cervello. Perché se li scindi accade qualcosa di tragico. Allora la tenerezza senza sensualità e amore va verso il rancido, diventa ipocrisia. La sensualità senza tenerezza e amore si rattrappisce e diventa pornografia; infatti la pornografia mostra ossessivamente gli organi genitali, ed è come se un pittore invece di farti vedere il quadro mostrasse continuamente il pennello. L’amore senza tenerezza e sensualità evapora, si perde nell’universo e diventa misticismo.

Come consideri la monogamia?
È una delle 5 gabbie micidiali in cui l’essere umano viene fatto prigioniero insieme alla scuola, al lavoro, alla falsa informazione… Per esempio, la donna, che ha in se questa forza stupenda, questa potenza di creare la vita e di mandare avanti l’immenso mistero del vivere, viene immediatamente rinchiusa nella gabbia della monogamia facendole credere che quello è il suo destino. In realtà pian piano lei si spegne, il suo compagno comincia a mentire e poi verrà il giorno in cui il compagno le dirà “Cara, farò tardi in ufficio stasera…” e vorrà dire che avrà deciso di andare almeno con la prostituta. Ho scoperto seguendo queste tracce, intervistando settemila persone a Parma, che la monogamia è il perno portante della prostituzione. La monogamia col tempo diventa una prostituzione a rate, una prostituzione in cambio dell’appartamento, del frigorifero, del televisore e soprattutto della menzogna che si stabilisce fra i due.

Cosa intendi per 3 ore di lavoro?
Non 3 delle attuali 9 ore di lavoro al giorno che sono finto lavoro. Ho parlato di tre ore vere di lavoro. Ho parlato di una cosa che qualsiasi cammello confermerebbe, cioè lavorare poco per produrre molto, invece di lavorare molto per produrre così poco: perché il mondo che lavora tutto 8, 10, 40 ore al giorno non è capace di produrre nemmeno il necessario per magiare e dormire per i suoi abitanti. È un mondo fallimentare.

Nel 2000 realizzasti un film sui manicomi e sulle condizioni dei pazienti intitolato “La seconda ombra”. Esiste secondo te la “malattia mentale”?
La malattia mentale di origine organica è irrilevante; si, è drammatica, ma ci sono pochissime persone che hanno una malattia mentale di origine organica. Invece, la malattia mentale che deriva dal disagio sociale è quella davvero problematica perché sono moltissime le persone affette da disagio mentale perché non sono libere.

Silvano Agosti - Foto di Luca Torzolini

Per quale motivo consideri la scuola un’istituzione negativa?
Manicomio, prigione, scuola. Sono tutte cose che non hanno diritto di esistere e stranamente sono tutte cose che si assomigliano: le stesse strutture edilizie, la stessa obbligatorietà dello stare fermi in un posto. Il matto veniva immobilizzato con la camicia di forza, il bambino viene immobilizzato a scuola per cinque ore con una camicia di forza invisibile che è il ricatto della socialità “Vuoi incontrare i tuoi amichetti e le ragazzette, sia pure per mezz’ora prima e dopo la scuola? Bene, allora fai quello che ti dico io: comincia a startene zitto e non esprimerti e smettila di chiedere il perché delle cose. Stai lì seduto che te lo dico io cosa devi fare!”. E in questo ricatto ignobile, viene pian piano convinto che non è giusto il suo desiderio permanente di correre nei prati, di correre nei parchi, di salire sugli alberi, di giocare nei parchi, di andare sui muretti. Non è giusto. Lui deve fare l’ometto e deve stare seduto immobile… Una maestra ha detto ad un’amica mia “Signora, suo figlio si muove!” . Lei ha risposto “Meno male.”

Perché le persone non si informano? Chi volesse farlo potrebbe davvero arrivare ad informazioni utili?
Oggi le persone non hanno il tempo neanche per accorgersi che non stanno vivendo, come potrebbero informarsi? Informazione utile si può avere solo se si è liberi rispetto ai discorsi precedenti. Se un essere umano avesse il tempo abissale della vita a disposizione per parlare con i bambini, con gli anziani, con i muri, con i tramonti, con le stelle allora saprebbe tutto.

Che cos’è il potere oggi e quali sono le sue armi?
Il potere scrive quotidianamente le proprie sceneggiature e le proprie sceneggiate. Io credo non sia giusto parlare del potere più di quanto si parli delle fogne. La fogna è una cosa importante, ma è importante che scorra al suo livello e non tracimi, altrimenti porterà odore puzzolente, malattia e morte. Anche il potere è meglio che scorra nel solco della vanità e dell’imbecillità che sono le due caratteristiche tipiche di qualsiasi potere. Cosa c’è di più idiota di andare davanti a uomini, sparare, uccidere e poi dire “Abbiamo Vinto!!!”. Tutto quello che il potere fa è completamente idiotizzato e non ha nessun senso. Il potere è come un cancro e il mondo sta andando avanti nonostante questo cancro.
Il potere è una forza che non è mai energia benefica, come un masso che cade giù dalla rupe e può solo ferire, può solo travolgere e fare danni. Invece la potenza è quella che io amo molto, la potenza degli esseri umani di sfidare il mondo: ce l’aveva quel ragazzo a Tien an men che si è messo davanti ai carri armati dei cinesi per fermarli. Il potere è il carro armato che uccide dei ragazzi di 17 anni. Potenza è la natura. Qualsiasi forma di potere è un crimine.

Esiste la libertà di stampa?
È una domanda ridicola. È come dire: esiste una libertà di prigione? Si quattro metri quadri, uno va avanti e indietro e dice “Io sono libero!!!”. Ed è già un progresso rispetto a quelli che sono legati.

Qual è il futuro del cinema? Regalaci una profezia.
Ti dico la stessa cosa che disse Bresson: “Il futuro del cinema è nelle mani di qualche ragazzo che con quei pochi soldi che ha in tasca farà il suo film indipendentemente dalle logiche industriali”. Io ti dico che il cinema può sbocciare solo la dove c’è vita, quindi il cinema paradossalmente non è mai nato. Ci sono stati dei tentativi straordinari, quasi tutti nell’indipendenza. Dopodiché l’industria se ne appropria per dire che è lei che ha prodotto questi capolavori, ma l’industria non è capace di fare capolavori, esattamente come l’industria delle bambole, per quanto si perfezioni, non sarà mai capace di fare un bambino come sei capace tu. E vedendo il tuo meraviglioso bambino che si muove, ti chiederà “Ma hai fatto tu anche gli occhi, anche i capelli?” perché lui è abituato all’assemblaggio, capisci? È veramente triste l’esperienza del cinema industriale, nella quale esperienza tutti identificano il Cinema. È come se uno, invece di fare un figlio, comprasse una bambola.

di Luca Torzolini

Intervista a Chiara Giacobelli 1

Il finale e l’inizio sono momenti essenziali di ogni articolo, racconto, romanzo. Come hai iniziato a scrivere e che sai dirmi ora sull’ultima opera che scriverai?
Ho iniziato a scrivere alle elementari, non appena mi hanno insegnato l’alfabeto e ho preso in mano una penna. Scrivere per me è sempre stato un qualcosa di naturale e innato, nonché il luogo in cui costruivo la mia realtà parallela, magari per sfuggire a quella reale (come per ogni scrittore). All’inizio erano solo diari, raccontini, temi, cose di questo genere. Poi sono arrivati i romanzi mai terminati (a decine) e, infine, quelli ultimati.
Non ho la più pallida idea di quale sarà la mia ultima opera, perché non so quando morirò: potrebbe succedere fra tanti anni, quando sarò diventata una scrittrice affermata oppure una vecchia zittella senza gloria e senza denaro, così come domani stesso.
Ci sono, però, tante opere che mi piacerebbe scrivere prima di morire. In particolare, vorrei terminare il romanzo su cui sto lavorando ora, che parla di Clown Terapia e del delicato rapporto tra paziente-bambino e dottore. È un lavoro per me molto importante, per il quale sto collaborando con l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze e con la Tribù dei Nasi rossi di Arezzo.

Cos’è per te la sperimentazione e cosa consideri avanguardia?
Sperimentazione è un termine che trovo un po’ abusato, inoltre spesso oggi coincide con il concetto di voler stupire o scandalizzare per forza. Per quanto mi riguarda, mi ritrovo di frequente a pensare che tutto quanto di più importante c’era da dire è già stato detto nel migliore dei modi dai classici e da chi ci ha preceduto. Forse, è allora più importante raccontare la nostra epoca, con le evoluzioni della società e quanto ne consegue, piuttosto che sperimentare per il semplice gusto di colpire o di far parlare di sé.
A me interessano le cose semplici, vere, tratte dalla realtà. Sono meno affascinata dai voli pindarici, così come, in generale, preferisco l’arte romantica dell’Ottocento rispetto alle avanguardie contemporanee. Lo so, sono un po’ nostalgica in questo senso…

In che modo si può evadere dalla tecnica senza perdere la capacità di essere chiari? Qual è il limite delle associazioni fra significante e significato, nella semiotica dei neologismi e del valicare i confini del consolidato e dell’accademico?
Il limite consiste nella volontà di essere compresi da chi legge il testo, che poi non è necessariamente un limite, basta volerlo. Ci sono scrittori a cui non interessa così tanto arrivare alla gente, evadono più per se stessi che non per gli altri.
Io credo invece che qualunque artista sia portatore di un messaggio e, in quanto tale, abbia una responsabilità sociale da cui deriva la necessità di creare qualcosa che aiuti le persone a crescere e ad evolversi, piuttosto che a disperdersi o a involversi. Ovviamente, sono tutti concetti molto relativi.
In ogni caso, non sono il genere di scrittrice che quando è mossa dall’ispirazione artistica si sofferma troppo su un neologismo o su questioni affini. Questa la trovo una materia più adatta alla poesia, o alla saggistica.
La prosa per me deve essere semplice, poco ricercata; più spazio lasci allo stile e più ne togli al contenuto, che invece dovrebbe essere l’unico protagonista.
A me hanno insegnato che il vero autore scompare tra le righe, lascia parlare i personaggi. I giochi linguistici non agevolano tutto questo, distraendo il lettore dal cuore di quella che, secondo me, è la narrativa vera e propria.

Cosa pensi delle scuole e delle accademie?
Penso che siano sempre una buona opportunità per chi se le può permettere. Io avrei voluto frequentare la Holden di Torino da anni, ma non ho mai avuto la possibilità economica di farlo. Va bene lo stesso. Si può imparare anche da autodidatti, soltanto, però, se si ha la fortuna di trovare un buon maestro, tutor, editor o come tu lo voglia chiamare. Qualcuno, insomma, che ci guidi nel cammino e ci aiuti a crescere, altrimenti da soli si rischia di rimanere sempre fermi allo stesso livello.

Intervista a Chiara Giacobelli 3

Esiste la malattia mentale?
Suppongo di sì, ma non sono un medico. Esistono sicuramente dei disturbi della mente e, d’altra parte, esistono delle malattie del cervello che causano conseguenze patologiche. Poi, ci sono tutte quelle forme come lo stress, l’esaurimento nervoso, la tristezza ecc che vengono spesso scambiate per malattie mentali (di certo molto di più nei secoli scorsi rispetto ad oggi), ma in realtà non lo sono.
Personalmente, credo che ci sia un generale abuso di psicofarmaci, o comunque di medicine che vanno a curare stati d’animo gestibili in altri modi, quando non addirittura semplici sintomi di qualcosa di più profondo che non va.
Ma si sa, questa è l’epoca in cui nessuno vuole soffrire. Si sfugge al dolore e alla sofferenza come se fossero la cosa più terribile che possa capitare a un essere umano, invece sono un’estrema risorsa e fonte di crescita.

Libero arbitrio o determinismo darviniano?
Relativismo. Trovo entrambe le definizioni, se prese da sole, troppo estreme.

Spesso si parla di impegno politico in relazione ai letterati. Tu come vivi questo accostamento?
Premesso che non mi sento una letterata, non lo vivo, nel senso che non voglio in alcun modo accostare un impegno politico alla mia arte. Sento un senso di responsabilità sociale nei confronti dei lettori, questo sì, ma non significa fare politica; vuol dire, piuttosto, cercare di contribuire con quel qualcosa che, nel proprio piccolo, possa aiutare il mondo ad evolversi in maniera positiva.

Dio o dio?
Per quanto mi riguarda dio perché sono agnostica (non atea!), ma anche in questo caso mi viene da rispondere in base al relativismo: ognuno ha la libertà di scegliere se esista un Dio oppure un dio e, allo stesso modo, ognuno ha il diritto di essere rispettato nella propria scelta.

Che ne pensi dei giornalisti che fanno domande tipo “Qual è il suo colore preferito?” o “Ho saputo che ha smesso di fumare. È vero?”? E di quelli che fanno domande lunghe 10 righe? Cos’è il giornalismo e quali sono le caratteristiche che un buon giornalista deve possedere?
Mi fanno un po’ sorridere, ma dopotutto sono dell’idea che ognuno può fare ciò che vuole, non fanno del male a nessuno, semmai li prendo come spunti per i personaggi dei miei romanzi.
Le regole del buon giornalista cozzano con le regole del buon giornalista secondo me: io ho smesso di fare giornalismo puro dopo tre anni di cronaca e spettacolo nella redazione di un quotidiano perché non sopportavo di dovermi intromettere nei fatti privati degli altri, soprattutto in situazioni gravi come lutti, incidenti, ecc. Questa è la prima regola del buon giornalista, dunque… io non sarò mai una brava giornalista, in questo senso.
Ugualmente, non sono in grado di fare la critica giornalistica, perché mi manca la spinta alla critica in generale. Penso sempre che non si sa mai chi si ha davanti, quali fragilità sta vivendo in quel periodo della vita, che cosa possa aver passato, quanto di suo possa aver messo in un lavoro e quanto potere di ferirlo io abbia o meno con una critica che magari esce a tutta pagina su un giornale. Non ho mai avuto il coraggio di farlo, per rispetto nei confronti di chi si trova dall’altra parte.
Con questo, non voglio criticare a mia volta tutta la categoria dei giornalisti. Semplicemente, penso che non sia un mestiere nelle mie corde.

Sei d’accordo con tutte e 6 le lezioni di Calvino?
So che potrò apparire alquanto blasfema, ma Calvino non è mai stato tra i miei autori preferiti. Abbiamo modi di vivere la scrittura e la vita in generale piuttosto diversi. Mi ricordo a tal proposito un esame di letteratura che diedi all’università: il professore era un grande amante di Calvino, quindi mi chiese che cosa più mi era piaciuto di lui e del suo ampio mondo letterario. Io gli risposi uno sfrontatissimo “Niente”, ma lo argomentai talmente tanto bene che alla fine mi diede 30 e lode.
Senza nulla togliere a Calvino, che di certo è un mito al pari di Salinger e molti altri, gli autori che io amo si discostano parecchio da questo tipo di realtà narrative.

“Non sono niente./Non sarò mai niente./Non posso voler essere niente./A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.” Così inizia Tabaccheria di Fernando Nogueira Pessoa. Come si pone dentro di te lo stesso argomento?
In questo momento si pone attraverso la paura di non avere il tempo per riuscire a realizzare tutti i miei sogni, che sono davvero tanti, troppi. A dire il vero, mi basterebbe realizzarne uno soltanto, ma purtroppo non dipende solo da me.

Cosa deve avere un personaggio inventato per risultare credibile?
È più credibile se, in qualche modo, trae spunto dalla realtà: per qualcosa che si è visto, un fatto accaduto, dettagli notati sulle persone, momenti rubati. Si è tanto più credibili come scrittori, quanto più si è bravi ad osservare ciò che esiste fuori, rispetto al rimuginare sempre su se stessi.

Intervista a Chiara Giacobelli 2Come si traduce un’emozione in letteratura?
Come una magia. Non è una cosa che spieghi, accade e basta. È un dono che ti viene dato (con cui quasi sempre nasci) e che, se vuoi, puoi contribuire a migliorare nel corso della vita. Ma non lo si sceglie, né lo si compra nelle scuole: lo si possiede per natura, oppure no. Purtroppo la gente quasi sempre non conosce l’altro lato della medaglia, ovvero ciò che questo dono si porta appresso, e che spesso non è altrettanto bello né auspicabile.

Nozionismo o Immaginazione? Se entrambi, come li metti in relazione?
Li metti in relazione con la stessa magia attraverso cui trasformi un’emozione in letteratura. Più pensi a come far accadere una cosa, a come descrivere un fatto, a come veicolare un contenuto reale legandolo all’immaginazione, e più sarai incapace di farlo.
Io, per lo meno, la scrittura l’ho sempre vissuta così: d’istinto. Senza pensarci troppo. E mi piace molto questo concetto di qualcosa – chiamala ispirazione artistica, o quello che vuoi – che a un certo punto arriva, si impossessa di te e crea, nel senso più ampio del termine. È un’esperienza estremamente forte, commovente ed estenuante.

Preferisci la paratassi o l’ipotassi?
Dipende dal modo in cui mi va di scrivere quel determinato romanzo o racconto, che può essere completamente diverso e risultare il prodotto di due autrici potenzialmente distinte. In genere, però, non amo né le frasi troppo costruite alla Proust perché sono un po’ datate per la nostra epoca, ma neppure la paratassi portata all’estremo, come va molto di moda oggi. La trovo in un certo qual modo, se eccessiva, la morte della narrativa e della lingua italiana.

Esiste un equivalente letterario dei cinepanettoni?
Certo, ce ne sono a migliaia sugli scaffali delle librerie e degli Autogrill. Romanzi commerciali sfornati tutti uguali da case editrici interessate principalmente al profitto. Ma il dramma non è questo: il dramma è che la gente li compra in massa, e di conseguenza continuano a vendere milioni di copie.

Quali critiche muovi all’editoria contemporanea italiana?
Non mi sento di muovere critiche perché non sono un editore. Bisogna distinguere bene la differenza tra scrittore ed editore. Io credo che l’artista debba occuparsi di fare il suo mestiere, cioè l’arte. La critica all’editoria la lascio a chi ne conosce i meccanismi meglio di me, o tutt’al più ai giornalisti.

Ogni fine è necessariamente un nuovo inizio?
Per quanto mi riguarda, sì.

di Vincenzo De Cesaris

 

Intervista a Cosimo-Miorelli - Foto 1Lucca. La cara, vecchia, maestosa Lucca. Con i suoi borghi suggestivi, i suoi palazzi e muraglioni antichi. E il suo esercito di cosplayers in maschera che, intasando le strette viuzze e centrandoti gli occhi con scettri del potere di plastica, regala allo scenario inedite note agrodolci. Siedo con Cosimo sullo scalone della minuscola chiesa di un’ancor più piccola piazzetta persa nei meandri del centro storico: siamo riusciti a sfuggire alla calca soffocante delle ore di punta solo per ritrovarci fra i banchetti e i ninnoli di mercatini etnici messi su per l’occasione. È stata una giornata spossante ma di grande soddisfazione per il nostro, per la seconda volta allo stand degli Editori Del Grifo del padiglione Napoleone con una sua opera inedita, “pausa” proficua dagli impegni dei suoi Live Painting e dalla campagna Kickstarter dell’ambizioso progetto Triloka. A rotazione, giganti della nona arte orbitano attorno alle sue stampe sigillate con l’inconfondibile ideogramma, da Giardino a Frezzato e così via. Ora, però, è il momento di fargli qualche domanda.

 

Bene, cominciamo… stai comodo?
Questa seduta marmorea penso mi darà dolori alla sciatica per i prossimi quattro giorni, ma sopravvivrò... cavoli, son proprio vecchio dentro!

Possiamo cominciare con…
Non finisco la frase che subito un allegro ambulante allunga con grinta il palmo della mano cercando di piazzare due accendini. “Scusa, non ora, stiamo facendo un’intervista!” esclamiamo, immobilizzandoci con le braccia in aria come per mimetizzarci col grottesco trionfo di idoli Tiki delle bancarelle circostanti. Non sembra essersela bevuta, dato che si allontana con lo sguardo furente di un indio sul piede di guerra.
Ha funzionato.
Così pare…
Non penso ci abbia creduto.

Intervista a Cosimo-Miorelli - Foto 3

Forza, bando alle ciance: dacci una sinossi! La vita, l’arme, gli amori…
Beh, sono un disegnatore… in mancanza di un termine migliore. Non mi sento solo un illustratore, tantomeno un fumettista. Al momento ho base a Berlino, dove sono arrivato dopo un sei-sette anni passati a Venezia, e prima ancora in un college in Canada… Potrei dire in realtà che sono friulano, anche se nessuno dei miei genitori lo è, ma ho trascorso un bel po’ di anni nelle valli del Natisone, un posto piovosissimo al confine con la Slovenia, in una fascia pedemontana e bilingue. Andavo a scuola lì da ragazzino. Posso dire che ho girato parecchio: trasferimenti, traslochi… E mi piace. Non riesco a stare fermo in un posto per più di… mah… diciamo quattro o cinque anni.

Un bel background, non c’è che dire… Ma come nasce l’attività, quali sono state le prime produzioni?
Beh, oddio... diciamo che l’inizio “professionale” è stato da tre anni a questa parte… ma disegno da molto, molto prima. Disegno così come un calzolaio confeziona scarpe, e con quello cerco di guadagnarmi da vivere. E con ogni declinazione del disegno: progetti di animazione, live painting, illustrazione, sequential art e branding commerciale… prendo tutto quello che viene, anche per mettermi alla prova costantemente con nuove sfide e non restare mai fermo.

La domanda più importante: sei tu il misterioso pilota X di Speed Racer?
Uhhh…. No.
Si guarda intorno distrattamente ridacchiando. Non me la racconta giusta, ma per ora meglio fare finta di niente…

Insomma, tanta strada e impegno per poi approdare agli storici Editori Del Grifo…
Sì, è paradossale… ora sono lì in stand, circondato da torri di Manara e fortezze di Pratt, a cedere la sedia a Vittorio Giardino, nientemeno… è un bell’onore, considerando anche tutte le circostanze che mi hanno portato a questo punto, alcune davvero inaspettate (oltre a un legame con Montepulciano, base operativa degli editori). Il punto è che fin da piccolo per me il fumetto è stato quello, quello che per sommi capi oggi si definisce fumetto d’autore, e che per Del Grifo è un marchio di fabbrica: ecco perché quando ho deciso di buttarmi in lavori più seri e sentiti, mi sono subito rivolto a loro.

Intervista a Cosimo-Miorelli - Foto 2Ed è con loro che hai due libri all’attivo…
Sì, uno per ogni Lucca: Trentaduedentirotti (quest’anno) e l’esordio con Athos: Appunti dalla montagna santa

Un qualche rimando a Jodorowsky?
Beh sì, abbastanza… cresciuto come sono fra L’Incal e universi limitrofi… Anche se soprattutto per mano di mio padre, che ancora oggi ha una grande influenza su di me. Athos infatti è un lavoro a quattro mani, essendo la cronaca di un viaggio, un suo viaggio, fatto prima che io nascessi e il cui racconto mi ha sempre affascinato. E’ stata una collaborazione padre-figlio, una catarsi freudiana se vogliamo, bella e utile in un certo senso visto che ad essere in due a mettersi a nudo davanti al lettore c’è meno imbarazzo.

Sorvolando sull’infelice evocazione visiva della metafora, Trentaduedentirotti invece è più tuo…
Sì, sono più io. Mi piaceva l’appeal scioglilingua della parola (e ancora di più vedere le espressioni contraddette della gente che passa davanti alla copertina). Sono io, che bruxo un sacco di notte, batto i denti, sogno sempre di romperli, ingoiarli, penso sia il nervoso, o il mio modo di affrontare il mondo, a denti stretti, tenere tutto dentro… Mi serviva uno sfogo totemico, e così è stato. C’è un sacco di mio anche dal punto di vista formale, la sperimentazione, l’horror vacui… certo avrei voluto metterci molto di più, ma com’è classico sono le cose di cui ti penti solo dopo che il volume è andato in stampa. Ho ancora molte cartucce da sparare.

Una delle quali, scommetto, è il Live Painting, uno dei pezzi forti nel tuo arsenale creativo e che sta diventando sempre di più un tuo biglietto da visita.
È una delle cose che mi piace più fare, e che mi dà moltissime soddisfazioni. Chiamiamoli Live Storytelling, all’americana, che dopo anni di IUAV la parola performance non la posso più sentire… Si lavora per lo più in digitale, con il mio collega di lunga data (e co-fondatore del Washout project) Stefano Bechini, polistrumentista favoloso, spesso di leva sui palchi di molti musicisti pop di fama internazionale. Il bello del live è proprio l’adrenalina del palco, e specie per me (che non so suonare e invidio molto i musicisti), quello è il surrogato del concerto.

Una parola: Triloka.
Il Triloka Project (mettiamo il ‘Project’ dappertutto, per dare un profilo aperto e in divenire)… è un’idea collettiva, un grande ombrello sotto il quale abbiamo riunito tante personalità da ogni zona del globo. Una storia che pesca la sua ispirazione dal folklore del sub-continente indiano, soprattutto grazie a Marc-Antoine Jean (lo sceneggiatore, e colui che più ha investito nel progetto). Dopo essere tornato dalla Cambogia e aver studiato a fondo miti e culture locali, Marc si è reso conto che erano talmente saturi di personaggi e battaglie allucinanti e visivamente potenti, da poter fare invidia agli universi Marvel e Dc. Così, come disegnatore di questa potenziale saga, mi sono ritrovato a calarmi in questo mondo che avevo visto solo in cartolina: Tanto lavoro di ricerca, ma nel complesso mi ha preso subito, specie perché a differenza dell’ennesimo supereroe patinato, qui si ha a che fare con personaggi che sono impressi nell’immaginario da secoli, scolpiti nei bassorilievi e negli idoli perduti. Personaggi che, come nel pantheon greco, sono caratterizzati da vizi e virtù decisamente umani, e da un sottotesto carnale ed erotico che non guasta. Adoro poi i landscapes, disegnare le foreste, la Giungla, gli alberi… Son stupendi gli alberi, parti con il tronco e poi ogni ramo va da sé.

Dica Trentatrè.
Trentatrè.

Intervista a Cosimo-Miorelli - Foto 4

Altro domandone: Che siano illustrazioni, arte sequenziale o live storytelling… cosa vuol dire per te raccontare? Che urgenza senti di esprimere, di dire?
Mmm. Detta così su due piedi (anzi, due natiche sul freddo marmo) posso dire che con il disegno ho trovato la mia casella. Tante persone vivono la propria vita a lungo e felicemente in passività, e non sempre necessariamente nell’accezione negativa della cosa: altre invece hanno bisogno di vedere una precisa pulsione concretizzarsi, plasmarla e lavorarci sopra. C’è chi sfoga tale pulsione sui figli, chi nell’edilizia, chi nella musica. Nel mio caso è tirare fuori delle storie, mie o anche di altri. Possibilmente delle belle storie. Questo mi fa sentire vivo. E specie in una città come Berlino, in cui tutti sembrano essere poeti ed artisti, ti aiuta anche a ritagliarti il tuo angolo di sopravvivenza.

Com’è il cielo sopra Berlino?
Eeeh, è grigio. Un pantone Cool Grey 3, direi.

 

www.cosimomiorelli.com

www.trilokaproject.com

 

di Luca Torzolini e Daniele Epifanio

In un nascosto paese del Lazio, immerso nella poesia che la natura costantemente e gratuitamente ci dona, siamo andati ad incontrare Fabio Piscopo, pittore figurativo e scultore fiorentino. Un artista che non definisce le proprie produzioni artistiche come “opere” bensì come “realizzazioni” e che racconta con un sincero sorriso sulle labbra di quando, in seconda media, bravissimo in tutte le materie, venne rimandato a causa della sua insufficienza in disegno: “il bello è che avevo già deciso di frequentare in futuro solo ed esclusivamente il liceo Artistico come scuola, volevo imparare a disegnare […] nell’opera, quadro,  scultura, ceramica non metti l’oggetto, bensì un tuo pensiero. Per trasmettere tale pensiero però, devi essere in grado di formulare un discorso. Ad esempio, nel linguaggio parlato per saper formulare un discorso non puoi solamente saper spiccicare l’italiano, devi conoscere la sintassi, la grammatica, un poco di etimologia delle parole; insomma devi avere un minimo di formazione così da essere un bravo comunicatore. Nell’arte figurativa gli strumenti sono diversi ma il concetto è sempre quello. Sapendo che tutto ciò che m’insegnavano non era propriamente definibile come arte, mi sono iscritto al Liceo Artistico: volevo poter padroneggiare gli strumenti da utilizzare per esprimere ciò che volevo esprimere.”

Intervista a Fabio Piscopo 1

Fabio, qual è il messaggio della tua arte?
Per me che ho scelto di comunicare attraverso “il segno” è un po’ difficile dirlo a parole.
In ogni mia realizzazione però vi è l’umanità, al centro di tutto c’è l’uomo. È inutile andare a ricercare altri benesseri all’interno della vita se per primo si esclude il rapporto con gli altri uomini. Il messaggio potrei definirlo come “amore”, nel senso grande del termine. Non come quello che nasce tra un uomo e una donna o nella sua accezione carnale, bensì nelle interazioni tra tutte le persone. Se ci fosse questo tipo di sentimento tra tutti gli uomini, il politico, dall’alto della sua posizione, farebbe gli interessi di tutti e ognuno, concorrendo al bene dell’altro, concorrerebbe anche al proprio: nessuno cercherebbe di fregarsi. Questo è il mondo ideale che noi chiamiamo “utopia”, ciò però non significa che non potrebbe esistere.

L’arte per te è un fenomeno sociale o naturale?
Io credo che l’arte sia insita dentro ciascun individuo, tutti al momento della nascita hanno la creatività insita nel proprio io o nella propria testa. Poi per un motivo o per un altro c’è chi la mantiene e c’è chi invece la soffoca e ciò accade nei primissimi anni di vita, quando si è ancora bambini. In seguito ci sono momenti in cui da fastidio avere questo cervello, questo “io creativo” e dunque ci si adegua alla società, ci si adegua alla normalità per avere una vita meno contrastante e meno contrastata. Invece c’è chi quest’arte la coltiva, chi vive bene dentro questo “io diverso” e che dunque coltiverà la propria predisposizione innata sviluppando il senso artistico, il senso critico e imparando ad accettare i disagi e le bellezze che la vita ci offre…
La vita da artista… sai, delle volte mi ritrovo a parlare con gente che mi dice <<beato a te che fai questo, beato a te che hai scelto di vivere così, beato a te che puoi fare quello che ti pare…>> la domanda che mi viene sempre spontanea è <<ma perché non lo fai anche te?>> loro dicono <<ah no… io ormai…>>: bene questa è la negazione dell’arte, quando uno dice <<io ormai sono distrutto>>, ma chi t’ha distrutto dico io? Una persona può riprendere la propria creatività anche se per 20-30 anni l’ha rinnegata. Ci vuole un minimo di coraggio… neanche molto in fondo, certamente non pari a quello di cui si ha bisogno per affrontare una malattia.

Qual è una delle tue più profonde paure da sempre?
Forse la banalità. Ritrovarmi a essere piatto e non avere, la mattina quando mi sveglio, più nessun entusiasmo. Pensare che quella mattina sarà uguale all’altra…
Ad esempio, mi ha sempre spaventato il così detto “lavoro giornaliero”, senza un minimo di emozione, diversità o creatività nei confronti della giornata. Mi angoscia l’idea di ripetere il gesto, di partire, di andare, di tornare, di vedere, di mangiare, di dormire per poi ricominciare da capo sempre lo stesso ciclo… vivere dentro questo senso di noia per poi arrivare sino alla vecchiaia e alla morte. La maggior parte delle persone arriva in fondo alla vita non vivendo più, sono già morte prima; sono morte dal momento in cui hanno iniziato la famosa “carriera”: la carriera del lavoro, della famiglia o dei rapporti con la società… questo modo standard di vivere.

Possono esserci compromessi nel corso dalla vita?
No no no…. Compromessi non devono esserci, assolutamente. Se hai un compromesso e un senso della vita creativo prima o poi questo compromesso ti crolla, o crolli te o crolla lui. Non ci devono essere compromessi ma una chiarezza totale, poi le persone che ti stanno accanto ti devono accettare o non accettare per quello che sei. Non bisogna poi essere spaventati dalla solitudine poiché, se vissuta coscientemente, non è solitudine quanto pienezza del proprio essere. Quando una persona impara a vivere bene nella propria solitudine, vive benissimo anche insieme agli altri.

Intervista a Fabio Piscopo 2

Cosa significa per te “sperimentare”?
Prima di tutto la sperimentazione è una distruzione di ciò che sai e di ciò che ti è certo. Io ho delle sicurezze, dal momento in cui violento queste sicurezze, ho la possibilità di scoprirne di nuove. Quindi la ricerca è non aver paura di andare oltre il conosciuto, oltre il certo, oltre ciò che da sicurezza e pane quotidiano.

Cos’è la “perversione”?
La perversione è tutto ciò che è contro la naturalezza. Uno che si abbuffa di pasta asciutta è un pervertito o uno che si abbuffa di vino è un ubriacone, mentre gustare un bicchiere di vino è un'altra cosa; anche nel sesso è così. La perversione è sempre qualcosa che va oltre il naturale. Non credo che in natura essa esista, dunque se vai contro ciò che è naturale, vai contro la tua stessa natura.

Se mancassero 6 ore alla fine del mondo, cosa faresti?
Mhà… guarda penso che continuerei a fare quel che sto facendo. Effettivamente sono diversi anni che penso alla mia fine e sono dunque diversi anni che penso a gustarmi ogni momento, invece di continuare ad affrettarmi. Se dovesse finire il mondo tra sei ore, credo che rallenterei ancora di più, proprio per gustarmi ogni secondo di quel che sto facendo, perché tanto correre sarebbe inutile.

Spenderesti tempo anche per aggiustare quella mattonella incrinata?
Ahahah… Beh se mi trovassi nel momento in cui la sto aggiustando finirei di farlo. Non importa se aggiusti una mattonella o fai un quadro, tanto è la stessa cosa, arriva la fine no? L’importante è che quel che stai facendo tu lo viva… non è che cosa fai ma come lo fai.

Credi che le cose finiscano?
Si, un’opera finisce… ma solo perché ne deve iniziare un’altra. Lo stesso è per il rapporto con le persone. Quando un rapporto finisce è sempre una cosa orribile, un rapporto non dovrebbe mai finire, perché poi rimangono solo rabbia, rancore ­­­­e negatività; il rapporto dovrebbe evolvere. Il finire di una relazione dovrebbe essere il suo trasformarsi. Ad esempio, posso avere un rapporto amoroso o sessuale molto stretto con una donna, poi improvvisamente esaurirlo, per tanti motivi dipendenti o meno dalla volontà di entrambi, però questo rapporto dovrebbe rimanere vivo, rimanere costruttivo, dovrebbe percorrere un’altra strada rimanendo però sempre in cammino, un cammino evolutivo, in avanti.
Il rapporto che finisce è stato un avanzamento, un qualcosa che ha accresciuto la tua personalità… perché distruggere qualcosa che ti ha arricchito?

di Daniele Epifanio e Luca Torzolini

Intervista a Francesco Leineri 1

Cosa significa per te a livello musicale comporre, ricercare e sperimentare?
Per me fare composizione non è nient’altro che un processo di decomposizione! (ride, ndr) Ricercare, sperimentare, riscoprire, e ovviamente studiare il passato…il nostro e quello degli altri. La ricerca è tutto, è il nostro ossigeno. La ricerca è anche svegliarsi la mattina e chiedersi cosa fare. La sperimentazione deve essere strettamente connessa alla nostra quotidianità: guai a dimenticarlo.

Due sono i modi principali di concepire la musica, quello interpretativo e quello compositivo. Qual è a tuo parere la reale differenza tra il compositore e l’interprete?
Ovviamente sono due mestieri completamente diversi, anche se con punti di contatto molto forti. Banalmente: il compositore scrive mettendo su carta ciò che ha in testa, l’interprete legge e ri-scrive. La difficoltà tecnica non si svela però come l’unico ostacolo: l’interprete cerca di risalire a ciò che il compositore ha pensato quando ha elaborato l’opera, riscoprendolo e riportandolo in vita. Come compositore, è come se dessi l’imprimatur e applicassi il mio cuore su carta. L’interprete invece applica il suo al mio. È un rapporto dialettico unico. Possiamo non vederci e non parlare, ma conoscerci, volerci bene o addirittura odiarci. È magia allo stato puro.

Intervista a Francesco Leineri 3

Dunque è più “umano” il lavoro dell’interprete, emotivamente parlando, di quello del compositore?
Sono abituato a gettarmi fango addosso, quindi ti dico di sì. Scherzi a parte, sicuramente un compositore rischia più facilmente di cadere in un processo creativo cervellotico: deve impegnarsi per far risuonare il brano nelle ossa di colui che lo dovrà eseguire e giocare d’astrazione purtroppo è un rischio che sta dietro l’angolo durante la fase di scrittura. L’esecuzione la considero un po’ come la prova del nove: ogni volta che scrivo un pezzo per qualche altro musicista e che lo sento eseguire, riesco a capire se quel che ho scritto ha senso o meno.

Se possedessi una macchina del tempo, non condizionato da circostanze storico-musicali, dove andresti e perché?
L’apocalisse è vicina: il futuro! (ride, ndr). Voglio capire come finiremo...giusto per sapere dove porta la strada. Tutto il resto - in un modo più o meno realistico - lo possiamo studiare, vedere, immaginare. Sì, la curiosità impellente riguarda certamente il futuro. Il nostro futuro.

Sappiamo che recentemente hai composto le musiche per uno spettacolo teatrale per bambini sul Piccolo Principe. Come recepiscono loro la musica a tuo parere?
È divertente perché lo spettacolo andato in scena non era affatto nato come uno spettacolo di teatro per bambini avendo contenuti molto forti: era una riscrittura del testo di Antoine de Saint Exupery con ampi respiri e diverse licenze contenutistiche. Avevo scritto per l’occasione delle musiche adatte ad un pubblico adulto, che ricalcavano l’impianto drammaturgico e registico. Non che esista “musica per bambini” o “musica per adulti”, ma sicuramente se avessi saputo che l’ascoltatore medio avrebbe avuto sette-otto anni mi sarei quantomeno contenuto, sotto certi aspetti; dall’altro lato, probabilmente, sarei stato troppo influenzato dalle circostanze? Chissà, forse sarebbe venuto fuori un esperimento musicale atroce e violento! Brrr… Il fatto di aver involontariamente considerato i bambini come adulti è stato senz’altro una carta vincente, nonostante le circostanze. Essi hanno l’incredibile qualità di riuscire a stupirsi con facilità, come se fossero carta bianca. Al contrario, per quasi tutti noi, lasciarsi stupire risulta difficilissimo… (silenzio, ndr) Le musiche dello show erano per clarinetto, pianoforte e contrabbasso e ho notato con stupore come l’ingresso dal niente di uno strumento con possibilità timbriche così particolari come il clarinetto folgorasse e illuminasse gli occhi di ciascun bambino presente in teatro.
Non ho mai amato particolarmente i bambini ma con stupore si sono potuti dimostrare più intelligenti e aperti rispetto a gran parte degli adulti ai quali abbia proposto la mia musica. Me incluso.

Intervista a Francesco Leineri 2Alcuni pensatori hanno considerato la musica come la più elevata tra le forme d’arte perché non necessariamente collegata a particolari idee e concetti. Riusciamo a discernere la musica grottesca da quella rilassante identificandola in particolari suoni, tu che cosa ne pensi?
Adesso lo dico con fermezza, ma magari fra cinque minuti non lo dico più: la musica è il regno della soggettività e una delle sue più grandi qualità è quella di poter arrivare al destinatario slegata da orpelli. Sappiamo al contempo di essere però costruiti sopra un groviglio di convenzioni. Come nel mondo del cinema un esperto regista sa che attraverso determinate inquadrature e particolari giochi di luce è possibile ricreare specifiche sensazioni negli spettatori, anche un pianista saprà che una scala cromatica discendente porterebbe il pubblico a pensare, per esempio, al gatto Silvestro che ruzzola giù per le scale! Ma chi mi dice che oggettivamente siano immagini universalmente riconoscibili? La famosa colonna sonora de “Lo Squalo” fa necessariamente pensare all’animale killer? E perché non, slegata dall’immagine, ad un topolino che gira veloce per le strade in cerca del formaggio? È il caso dei bambini dei quali parlavamo poco fa: hanno un’immaginazione superiore alla nostra, sono come slegati da stereotipi e convenzioni. Loro si divertono sempre, noi siamo molto più marci. Attenzione: il pregio enorme della comunicazione musicale è la possibilità di lasciare più spazio all’immaginazione e all’interpretazione!

Qual è secondo te la differenza tra un suono ed un rumore?
Ma che domande! (ride, ndr) Il mio “Brusìo” è stato frutto di un anno di riflessioni del genere! Ne potremmo parlare fino a domani alle cinque. In una tournée di un mese ho affrontato proprio questo argomento interagendo con un’ora e un quarto di rumori, sia attraverso il pianoforte che fisicamente. Non credo ci sia particolare differenza fra un suono e un rumore. Pensa a “Experimentum Mundi” di Giorgio Battistell: è un pezzo per un ensemble di sedici lavoratori, dal falegname al fabbro, che agiscono coordinatamente! Creano musica. Capito, con classici oggetti da lavoro!

Cosa ti rende profondamente infelice?
Ora come ora? La mia sconfitta definitiva sarebbe sicuramente connessa al mio modo di rapportarmi alla musica. Il non riuscire a rispecchiarmi in quello che scrivo, e dunque in quello che vivo. Il giorno in cui sarà così, sarò pronto a gettare via carta e penna…ammesso che si possa fare. Sono profondamente infelice quando non riesco a scrivere ciò che voglio, ciò che sono. È specchio di un profondo problema che sta alla base.

Sono questi per caso momenti in cui la tua musica è più vera di te, più vera di quello che di te sai?
Sì, credo sia così. Sono le volte nelle quali non riesci a capire ciò che veramente sei. Quei momenti in cui, attraverso la musica, è come se spiassi una tua necessità di conoscerti, di riscoprirti.

Se vincessi oggi la lotteria e avessi un milione di euro in tasca, cosa faresti?
Prima la mia famiglia. Poi farei il panico: dopo avere insonorizzato casa per evitare continue discussioni coi vicini, prenderei in affitto i luoghi sacri della cultura romana e organizzerei festival, di qualità, veri, con tutta la gente vera che non può ma che è pronta a distruggere la mentalità culturale asfittica che regge questo paese e questa città: costruttivamente, partendo dalle fondamenta. Non facendo l’orrendo merchandising che pretende di rinnovare cambiando soltanto la facciata e il nome delle cose. Sarei sempre al fianco di tutte quelle persone che si ammazzano la vita dalla mattina alla sera inseguendo un sogno ma rimanendo fortemente attraccati alla terra. Al fianco di tutti quelli che in preda all’orrore hanno deciso di essere se stessi, non per alimentare folli processi creativo-masturbatori, ma perché davvero non possono fare altrimenti. Insomma, fatemela vincere sta lotteria, và! (ride, ndr)

di Luca Torzolini

foto di Stefano Terenzi, Manuel Chittano e Simona Falcone

Intervista a DoppioSenso Unico 1

DoppioSenso Unico è una compagnia teatrale, produzione video e musicale indipendente, fondata nel 1999 da Luca Ruocco e Ivan Talarico sulla scia dell'omonima compagnia gestita dagli antenati nel 1932.

Dal 2003 è attiva come produzione musicale di colonne sonore, canzoni e musiche per spettacoli.

Nel 2004 inizia la produzione di cortometraggi indipendenti e a basso budget: la trilogia “Horror Vacui”, “'a suppa 'e latte”, “didascalia”, “le feste dei poveri”.

Nel 2005 debutta a Roma, al Gran Teatro Ignazio Abbatepaolo, “Viageatruà”, primo spettacolo di e con L. Ruocco, I.Talarico e Lorenzo Vecchio, seguito da “Le clamorose avventure di Mario Pappice e Pepé Papocchio”, presentato nel 2008 al Teatro Furio Camillo di Roma.

A marzo 2009 si presentano alle semifinali del Premio Scenario a L’Aquila, con “Operamolla – The Flacio show”, riscuotendo interesse e suscitando curiosità.

Nel 2013 debutta al Teatro dell’Orologio “La variante E.K.” e viene presentato il primo studio di “gU.F.O.”

[www.doppiosensouni.com]

Intervista a DoppioSenso Unico 2 - Foto di Manuel Chittano

Il sipario si apre, e voi?
Noi no. Restiamo chiusi in noi stessi. Ci parliamo addosso, ci raggomitoliamo nei nostri angoli migliori. Invitiamo persone a prender la misura della nostra chiusura. Loro vengono e noi implodiamo, stretti stretti nell'estasi d'amor. Ci frantumiamo in migliaia di pezzi, la gente paga e i cocci sono loro. E noi restiamo svuotati ad aspettare il riflusso della marea.

Perché non lasciate il pubblico in pace?
Il pubblico ha raggiunto la pace dei sensi. Noi lo risvegliamo dal torpore atavico in cui si è incarcarito, dopo anni e anni di spettatoraggio teatrale, cinematografico e televisivo. La poltrona non è zona franca. Non vediamo la quarta parete, quindi non crediamo nella sua esistenza. Vogliamo uno spettatore attivo, mentalmente e fisicamente, che non voglia assimilare per osmosi qualsiasi cosa gli si propini dall'altra parte della sala. Entrare a far parte in maniera viva del meccanismo teatrale è la più grande benedizione in cui il pubblico pagante possa sperare!

Che tipo di supereroi vorreste essere e se foste supereroi come cambierebbe il vostro modo di concepire gli spettacoli?
Vorremmo essere uomini indefinibili, persone che sfuggono ai cinque sensi standard e al sesto senso aggiunto. Con fisionomie fugaci, gesti evanescenti, parole immemori. Vorremmo incontrare le persone e lasciare in loro soltanto un sapore di rabarbaro. Mettere specchi opachi al posto delle nostre foto sui documenti. Presentarci con nomi sempre diversi e stringere mani senza restituirle. A differenza degli uomini invisibili quelli indefinibili hanno proprietà di corpo e movimento e insuperabili virtù di anonimato: curvano in velocità nella memoria. Se avessimo questo potere i nostri copioni potrebbero acquistare grigiore e disinteresse, evocare l'horror vacui che tanto ci lusinga.

Che cosa significa per voi sperimentare?
Essenzialmente non annoiarsi nel creare e costruire un qualcosa di vivo, organico, che poi non annoi chi debba fruirlo. La noia intellettiva ci impaurisce.

Io vi chiudo in una stanza, dentro ci sono i seguenti oggetti: un mocio, dei soldatini e un grande naso di gomma. Che cosa fate?
Teniamo pulito. Muoviamo guerre immaginarie. Sintetizziamo odori per soddisfare il naso. Questo per i primi minuti. Poi ti chiediamo perché ci hai chiuso nella stanza. Tu non rispondi e lo chiediamo a noi stessi. Ma siamo omertosi e quindi lo chiediamo alla stanza. La stanza fa la smorfiosa. Noi la accarezziamo col mocio e lei apre un piccolo varco verso l'esterno. Inviamo le nostre truppe di soldatini armati a cercarti, ma sono dei codardi e disertano. Stracciamo il naso di gomma - in fondo i nostri nasi sono gelosi - e dentro ci sei tu, con una mollica di pane, un busto di marmo e una scodella di riso. Cosa fai?

 

Qual è il confine fra demenzialità ed arte?
Se ti riferisci ai nostri lavori teatrali, non abbiamo mai ricercato, nella scrittura o nella messa in scena, la risata scontata del demenziale, e nemmeno la prepotente personalità dell'arte. Di certo fin dall'inizio cerchiamo di proporre qualcosa di "nostro", che probabilmente sorride sia all'uno che all'altra.

Intervista a DoppioSenso Unico 3 - Foto di Stefano Terenzi

Come si concepisce un personaggio?
Come un figlio; poi nove mesi in una pancia e via, di forza. Per noi è così perché i personaggi che interpretiamo siamo noi, generati e non creati dai nostri stessi genitori. Poi in scena ci incarniamo nei nostri ragionamenti. Ogni tanto creiamo delle presenze: ci mettiamo delle parrucche, torciamo il viso, smozziamo i gesti. Ma le presenze sono un gioco facile, di sartoria, da caratteristi di cinema di serie B. Non crediamo mai di essere qualcun altro, questa è la nostra condanna.

Come si farà teatro nel futuro?
Noi facciamo teatro nel presente. E non diamo certezze sul futuro. Già partendo dalle tematiche stesse dei nostri spettacoli, temiamo un improvviso spegnersi di tutto. Se il teatro dovesse sopravvivere al futuro, speriamo si tratti di un teatro non più rinchiuso all'interno di dinamiche e scheletri rigidi ancor più opprimenti della struttura fisica dell'edificio teatrale in sé... Un nostro antenato, Marco Antonio Scicchitano - più ottimista di noi - preconizzava in una massima "In futuro reciteranno i cavalli a dondolo".

C'è un luogo della Terra, secondo voi, dove non si fa teatro?
Probabilmente nei cimiteri di ermellini a sud di Toronto. O nelle foreste di marmo che circondano la periferia di Zanzibar. Ma anche in molti teatri, spesso.

Cosa centrate voi con l'intervista ai gufi presente a fine giornale?
Alcuni gufi infestano le nostre drammaturgie e i nostri spettacoli. Due in particolare, Luigino e Marisa, hanno fatto una breve ma essenziale apparizione in un nostro lavoro del 2008, "Le clamorose avventure di Mario Pappice e Pepé Papocchio". Ora sono tornati in "gU.F.O.", lo spettacolo a cui stiamo lavorando in quest'ultimo periodo, e che attualmente presentiamo in forma di studio in vari locali romani, pretendendo con arroganza il ruolo di protagonisti assoluti del nulla scenico. Sono esseri vuoti e paranoici. Dovresti tenerli alla larga.

di Luca Torzolini

 

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 1

 

Kyrahm e Julius Kaiser sono artiste operanti nel settore della Performance Art. Diversi storici dell'arte indicano la coppia artistica come una delle nuove evoluzioni della body art storica contemporanea.
Kyrahm è artista concettuale, videoartista, body artist e performer . Elabora performance dal forte impatto emotivo. Julius Kaiser è videomaker, drag king e performance artist. La sua ricerca artistica ha origine nell'ambito della sperimentazione che indaga i ruoli sociali di genere proponendo una visione fluida degli stessi coerentemente con le teorie filosofiche Queer. Lavora anche come videomaker realizzando videoclip e documentari, organizza workshop.

“Kyrahm e Julius Kaiser sono il Capitano Achab della nuova frontiera corporea, trans/oceanica dell'esistenza, capaci di fermare e ri-creare il mondo, là dove il sacrificio diventa poesia verso l'essere umano che s'offre (per scelta) e soffre (suo malgrado)” (Marco Fioramanti).

“Kyrahm e Julius Kaiser: il corpo mutante del ventunesimo secolo” (Lorenzo Canova 2012).

“Kyrahm e Julius Kaiser sono tra i nuovi rappresentanti della body art contemporanea” (Vitaldo Conte 2012).

Premi e menzioni:

2008: tra le 30 migliori performance del mondo - Manifestazione IDKE - Columbus, Ohio, Usa 2009: vincitori del Premio Arte Laguna sezione sperimentale performance - Venezia, Italia

2010: winner on-line vote Celeste Prize International - New York, USA

2012: Miglior documentario - Corto Acquario International - Roma, Italia

Menzione Speciale Premio Chiara Baldassari - Vecchiano, Italia.

2013: vincitori del Premio Adrenalina sezione Body Art - Museo MACRO, Roma

Che significato ha per voi la parola “comunicare” e che valore ha nelle vostre opere?
La comunicazione è un processo di decodificazione di segni attraverso il quale è possibile entrare in relazione con altri ed esprimere messaggi e significati.
Attraverso il corpo presente, mezzo semantico per eccellenza, cerchiamo una connessione orizzontale con il pubblico che assiste e interpreta.
Noi ci esprimiamo attraverso il linguaggio della performance art e dell'arte visuale.
Spesso partiamo da un vissuto personale, perché crediamo fortemente nell'autenticità dei messaggi da veicolare.

Nella performance “Human Installation 0: Chrysalis”, Kyrahm è rinchiusa in un bozzolo per 24 ore, custodita per i bisogni primari dalla sua vera madre con collegamento web 24 ore su 24. Un gesto per risanare l’incomunicabilità tra genitore e figlio.

“Dormi o sei morta?”

Mamma conchiglia, 
figlia poltiglia.

“Sono viva, non senti il mio respiro?”

“Credevo fosse il vento.”

(Kyrahm)

Una webcam è posizionata allinterno della Crisalide.

Attraverso il live streaming provochiamo l'interazione tra spazio pubblico e privato, un'estensione dell'hic et nunc, l'interdisciplinarietà dei linguaggi della comunicazione.
L'azione ha avuto notevole interesse mediatico e numerosi servizi, tra cui anche Repubblica, hanno dedicato spazio all'evento.
Nel 2011 per la presentazione di Born this way, il nuovo disco, Lady Gaga dichiara di essere stata rinchiusa in un bozzolo per 72 ore con collegamento on line attraverso il social network twitter con i suoi fan.
Dopo le 30 ore, Kyrahm esce dal bozzolo per iniziare Human Installation II: Life Cycle, sulle fasi della vita. In scena un neonato e soggetti anziani che mostrano i loro vecchi corpi.

Presentata presso:


Mut-azioni Profane - Body Performance Art Festival.

Biennale di Ferrara 2010

Generatech Festival – Valencia 2010

Museo MACRO – Roma 2012

Opera vincitrice Premio Adrenalina 2012

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 2

Che significato riveste per voi la parola sperimentazione?
Elemento assolutamente necessario per il processo creativo, che spesso si traduce nel ricercare il più possibile la sintesi, togliere il non-necessario, gli orpelli.
Ci siamo ritrovati spesso a rielaborare delle azioni nel corso degli anni, asciugando gesti e ricercando l'essenziale. Durante la fase della sperimentazione, fondamentale è comunque eliminare qualunque tipo di censura alle idee, cercando di non focalizzarsi mai sui limiti di realizzazione, ad esempio tecnici. La mente deve essere sgombra da qualsiasi pensiero legato all'impedimento.
L'esperimento è il gioco, e nella body art spesso si traduce nel provare su se stessi l'effetto di cambiamenti anche estremi, allo scopo di fare ricerca.

Per il progetto Making Peace With The Wind, Kyrahm si inietta della soluzione salina nel volto per deformarlo, scurisce e rasa i capelli. Per le vie delle città del Nord Europa, ha poi raccolto i feedback dei passanti: gli sguardi erano pieni di sgomento, disprezzo, altre volte sfuggenti. E' una profonda riflessione sulla percezione e la dismorfofobia. “Kyrahm: Fino ai 15 anni mi sono sentita un mostro. Poi il corpo cambia, tutto si trasforma. Per un po' ho lavorato anche come fotomodella e attrice. Il desiderio ossessivo di essere belle è una sconfitta, un disperato bisogno di accettazione, un adattamento ai feroci canoni imposti dalla moda, dalla società e dai media.
Trasformandomi in una bella donna avevo, in un certo senso, perso.”

Presentata presso:

Mitreo Arte Contemporanea- Roma 2012

Hasselt – Belgio 2012

Considerate sia possibile eliminare le distinzioni di razza e genere?
Non crediamo nell'eliminazione delle distinzioni, ma nell'educazione al valore delle differenze e dunque al superamento dei pregiudizi.

In Human Installation I: Obsolescenza del genere, Julius Kaiser, effettua la trasformazione da donna a uomo sulla scena. L'opera parla di fluidità dei generi, coerentemente con la teoria queer. Unisce body art e teoria queer, affermando che il genere in realtà è una costruzione sociale.  Sullo sfondo una serie di corpi nudi: sono presenti donne e uomini biologici e transessuali FtM e MtF che non hanno ancora terminato l'iter di riassegnazione sessuale.

“Il corpo nudo e l'io, la maschera e lo stereotipo. Un quadro ginoandroide. Una fila di corpi nudi avanza lentamente. Il sesso biologico come pelle, maschio, femmina. Il genere come senso del sè, uomo, donna. Percorso, attraversamento, transizione. Ogni soggetto, una storia. Cambiare sesso è doloroso come la nascita. Le maschere d’oro sul volto non nascondono le identità: come son riconoscibili le sfumature del genere. Solitaria subentra una creatura di sesso femminile. Accarezza i corpi uno per uno. Il travaglio è faticoso, la carne materia da modellare. Il rito della vestizione tra fasce contenitive, pantaloni, giacca e cravatta è il ritorno all’opposto. Non è più necessario indossare la maschera: l’io è rivelato.”

Presentazioni e menzioni più significative:
Idkex – USA, Columbus 2009 selezionata tra le 30 più belle del mondo

Werkstaddt der Kulturen -  Berlino 2009

Opera vincitrice sezione performance del Premio Arte Laguna - Venezia 2009

MACRO – Museo d'Arte Contemporanea di Roma - 2012

Museo di Nocciano – Pescara 2011

MutAzioni Profane – Body Performance Art Festival 2009

MutAzioni Humane e Pensiero – International Performance Art Festival 2012 – con il patrocinio dell'Ambasciata del Cile.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 3

Cos’è la violenza? Che percezione avete del dolore?
Il dolore fa parte della vita. Potrebbe essere anche una grande risorsa.
Ma non lo è la violenza che è sopraffazione e sopruso.
La body art estrema attua pratiche che hanno origini antichissime (body mods, sunspension, piercing, scarification) e rende il corpo protagonista assoluto considerandolo soggetto e oggetto dell’espressione artistica ed esibendolo come opera e pone una riflessione su interventi sul corpo socialmente accettati (chirurgia estetica) e modificazioni corporee che hanno faticato (e continuano) a proporsi come modelli alternativi diffusi. C'è un atteggiamento condiviso che impone ciò che è giusto o sbagliato in proporzione all'autodeterminazione. Più un corpo autodetermina se stesso (ad es. transessuali, freaks) più è considerato deviante perché non omologato alla società (il corpo deviante somiglia a se stesso e non alla società, quindi potenzialmente pericoloso per l'equilibrio e sfuggente alle dinamiche di controllo).

Tra le performance "Human Installation III: Sacrifice" dove avviene una vera crocifissione con la tecnica della sospensione e Kyrahm piange sangue togliendo aghi inseriti nell'arcata sopraccigliare. Un'opera tra body art estrema e iconografia cristiana.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 4

Durante la performance “Human Installation IV: Il gioielliere”, Julius Kaiser crea una composizione estetica di aghi e perle inserite nella schiena di Kyrahm. Il gioiello usato per ferire la carne è rappresentativo del tema atavico delle differenze di classe e dei giochi di potere legati ai ruoli di genere.
Kyrahm si volta e continua a ferirsi all'altezza del petto: il sangue che scorre sull'immagine proiettata del bambino sulla pancia ricorda che spesso nelle diatribe tra genitori sono i figli a pagarne le conseguenze.
Ma è anche rappresentativo della brutale violenza spesso omicida attuata sulle donne.
“Kyrahm: Le pratiche di auto-inflizione sono solo linguaggi che ho recuperato dagli ambienti underground. Parafilie e affini sono derivazioni eventuali e non il punto di partenza. Per quanto mi riguarda quindi non c'è una tendenza masochistica, si tratta solo di una scelta estetica. Il corpo è il mio mezzo, territorio semantico, così come anche per altri artisti.
Credo fortemente che accanto ad azioni simili sia necessaria una ricerca estetica minuziosa. Altrimenti si tratta soltanto di pratiche fine a se stesse.”

Presentata presso:

Evento collaterale della Biennale di Venezia 2009 Blue Wedding

Festival di arti performative Corpo al museo di Nocciano a cura di Sibilla Panerai, alla Dinnerwave Art Gallery in Arizona e per i festival Mut-azioni Profane, Female Extreme Body Art  e MutAzioni Humane e Pensiero creati da Kyrahm e Julius Kaiser.

Performance ospite d'onore del Festival Internazionale delle Arti di Ferrara.

L'opera ha preso parte al progetto Woyzeck by Cercle.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 5

Qual è il rapporto fra performance art e teatro?
C'è molta confusione rispetto la performance art e il teatro. Nel teatro l'elemento dell'interpretazione è preponderante, nella performance art tutto ciò che avviene è reale. Parliamo di linguaggi completamente differenti.
Siamo in una fase di cambiamento. Durante l'ultimo festival organizzato, MutAzioni Humane e Pensiero (con il Patrocinio dell'Ambasciata del Cile), abbiamo maturato la convinzione della necessità di un’estensione ulteriore dal corpo.

Qual è il limite della performance art rispetto alle arti tradizionali e quali le possibilità intrinseche solo ad essa?
Non crediamo ci siano limiti. La performance art è una necessaria evoluzione rispetto alle arti tradizionali.

Come si vendono le performance? Che opinione ne avete in merito?
La performance in origine nasce per sfuggire alle dinamiche di mercato.
Tuttavia un artista chiamato a performare deve avere inevitabilmente cachet e copertura costi di realizzazione.
Tentare di intrappolare l'opera è mera illusione. Possiamo però parlare relativamente alla nostra esperienza. Di ogni performance esistono i suoi corrispettivi come gli oggetti di scena, le immagini, i video, ma anche i suoi schizzi preparatori.
L'artista interviene manualmente sull'immagine derivata dall'azione performativa per riconoscere quel frame, quella foto come unico o in tiratura limitata, senza il quale il valore è assolutamente diverso.  Questo per sfuggire alla riproducibilità digitale.
Un conto sono le immagini che circolano liberamente utilizzate per la diffusione del lavoro (anche se molti artisti preferiscono non adottare la politica della condivisione), un conto l'immagine resa unica dall'intervento dell'artista che “performa” quindi nuovamente sul suo corrispettivo.
È poi necessario un riconoscimento scritto da parte dell'artista che ne attesta l'autenticità. Questo per quanto riguarda la nostra personale esperienza.
Poi ci sono stati casi come l'acquisto dei diritti da parte del Moma della performance Kiss di Tino Sehgal.
Le nostre azioni e i suoi corrispettivi fanno parte di collezioni pubbliche e di privati.

Nell’identificazione costante delle masse verso determinate “mode del pensare”, trovate sia possibile un’evoluzione?
Siamo in un'era in cui il desiderio di omologazione è molto forte. Anche nel rifiuto dei codici della maggioranza, le subculture comunque adeguano la propria estetica al gruppo di riferimento. Crediamo fortemente, a differenza di quanto venga detto, che il pubblico abbia una naturale predisposizione alla cultura. I mezzi di comunicazione di massa che propongono contenuti di bassa qualità con il pretesto dell'intrattenimento lavorano verso la diseducazione alla coscienza critica. L'evoluzione è possibile solo attraverso un distaccamento cosciente ed oggettivo.

Molti media pongono questo secolo come momento di massima libertà di pensiero e di espressione. Trovate reale questa affermazione?
Siamo sicuramente privilegiati per quanto riguarda la nostra condizione attuale, la nostra generazione e la nostra cultura.  Purtroppo tutto questo non è ancora possibile per altri popolazioni. Non dimentichiamo però che le informazioni sono spesso filtrate, rielaborate e riproposte proprio dagli stessi media che quotidianamente lavorano alla costruzione della percezione della nostra realtà.

Datemi una definizione della parola amore.
Calore e rispetto reciproco. Piacere nel dare e nel condividere, trasparenza, unicità. L’unico vero atto rivoluzionario utile.

Che cosa vi fa paura?
La morte delle persone care. La fine delle risorse. La stigmatizzazione. Il buio della mente.

Che cos’è per voi una bella vita?
Salute, affetti, economia. Quando i bisogni primari di intere società vengono bruscamente attaccati, tutti i parametri di valutazione saltano. Una bella vita è quando hai la sensazione che sia compiuta, incanalando le tue energie nella direzione di ciò che ti appassiona, ti stimola, ti fa evolvere.
Dovremmo sempre considerare che gli anni passano in fretta, le occasioni scivolano via.
Andate ad abbracciare qualcuno che amate, telefonate ai cari, meravigliatevi come se foste ancora bambini, ambite a quel che volevate fare da grandi...

Su cosa mettereste la parola “Fine”?
Alle diseguaglianze nella distribuzione delle risorse, alla manipolazione dei poteri sulla verità, agli impedimenti all'istruzione, alla sopraffazione.

Contatti e riferimenti:

www.humaninstallations.com

www.kyrahm.blogspot.com

www.juliuskaiser.blogspot.com