di Giacomo Ioannisci
A volte la vita è come chiedere al vento di rallentare. Per Christopher McCandless (Emile Hirsch) è stata la stessa cosa, ma lui era il vento.
Into the wild, sesta regia di Sean Penn (Lupo solitario, La promessa), racconta la rivoluzione spirituale di un ragazzo stanco già a ventidue anni di essere preso in giro dalla società e di dover nascondere nelle sue letture i sogni e gli ideali maturati.
Eddie Vedder durante la realizzazione della colonna sonora ha capito bene il pensiero di questo giovane rivoluzionario. Addirittura lo canta quasi si sentisse parte di quella natura selvaggia e incontaminata che l’ha accolto nel fatidico viaggio.
In Rice (“Sollevarsi”) canta: «Così va il mondo. Non puoi mai sapere dove mettere tutta la tua fede e dove ti porterà». Nella struggente End of the road (“Fine della strada”) il testo è breve, ma di un’intensità unica: «Non sarò l'ultimo. Non sarò il primo a trovare un posto dove il cielo incontra la terra.
È tutto giusto e tutto sbagliato. Per me comincia alla fine della strada. Veniamo e andiamo...». Ed è il quel preciso istante in cui Eddie Vedder da semplici aneliti musicali passa alle parole (“Society” in particolare) che il giovane Christopher diventa Alexander Supertramp (superviandante), un ricercatore della libertà che parla per citazioni e ascolta il suo cuore ogni volta che ne ha bisogno.
Insomma, un esteta ribelle, capace di annullare il gioco delle parti e preferire l’isolamento, come quello che concediamo nella mente alla nostra canzone del cuore. La fuga in questo modo assume caratteristiche di un ritorno alla felicità, quella vera, depurata dai falsi ideali e dal possesso, quella per la quale, quando la si cerca, bisogna stringere le chiappe e andare a prendersela. Ma soprattutto che solo ad obiettivo raggiunto ci si accorge che va condivisa, perché è proprio allora che piangeremo tutte le nostre lacrime.
Il film di Sean Penn è tratto dal libro Nelle terre estreme (Corbaccio) di Jon Krakauer, alpinista professionista che dopo la morte di Chris scrisse un lungo articolo sulla rivista Outside e, quasi ossessionato, con l’aiuto della famiglia McCandless per oltre due anni si è dedicato alla ricostruzione del lungo viaggio del ragazzo. Penn, evitando la retorica spicciola, punta dritto al cuore dello spettatore. Inutile, tuttavia, nascondere l’insensata e ingiusta disattenzione dei membri dell’Academy agli Oscar 2008. Forse, allora, è vero quel detto popolare: il troppo storpia. Into the wild, infatti, ha una regia troppo attenta e ribelle, anarchica, estrema, intima, eastwoodiana, dall’impostazione anni Settanta; una fotografia troppo bella, profonda e sensibile; musiche troppo intense e poetiche; un protagonista davvero troppo bravo. Andrebbe mostrato nelle scuole se fosse possibile.
Un autentico capolavoro. Troppo.