di Stefano Tassoni
Quando Fabrizio De André scrisse La buona novella l’Italia era in piena lotta studentesca. Le persone meno attente, considerando quel disco come anacronistico, osservarono: “Come, noi andiamo a lottare dentro e fuori le università contro abusi e soprusi e tu ci vieni a raccontare la storia, che per altro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che si trattava di un’allegoria, precisamente del paragone fra la rivolta del Sessantotto e quella religiosa di 1969 anni prima capeggiata dal “più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Il disco, basandosi sui vangeli apocrifi, narra dall’adozione di Maria in casa di Giuseppe fino al suo martirio sotto la croce insieme alle madri dei due ladroni crocifissi con Cristo. Subito dopo la camera si alza per inquadrare i crocifissi e l’autore pone in bocca a Tito, il ladro che si pente, una delle migliori canzoni del suo repertorio: un’attenta analisi critica dei 10 comandamenti. Infine c’è di nuovo lo stesso inno iniziale, ma con parole diverse stavolta il coro prende parola per lodare l’Uomo, posto in antitesi con il suo creatore.