di Stefano Tassoni
E fu così che Gadda s’interessò di psicanalisi.
Nella lettura di Freud egli scoprì che accettare la società è lo stesso che accettare il senso di colpa. La cognizione del dolore, nel suo significato fondamentale, è la rivendicazione gaddiana della vera storia dell’uomo, purgata, per usare le sue parole, da “il balbettio della reticenza e la franca sintassi della menzogna”.
Ma basta con le cazzate!
In toto, le quasi trecento pagine del complesso mattone gaddiano sono difficili da digerire. Nella forma già collaudata del pastiche linguistico, l’autore trova il suo estro, compone i suoi capolavori. Ma, come anche per il melvilliano best-seller, solo dopo aver sopportato pagine dalla scrittura volutamente difficile, si scoprono stupendi passi lirici in cui il romanzo si staglia nell’Olimpo de’ Letterati.
L’azione del romanzo è divisa in due parti speculari, così come il punto di vista, il quale incontra ora il figlio ora la madre. Gonzalo, il protagonista sanguinario e nevrotico, è il riflesso caricaturale dello stesso Gadda. Nel matricidio, l’autore sceglie consapevolmente il tedio della realtà pur di non segregarsi nella torre d’avorio. Sul morire del secondo millennio (dopo la morte) ha iniziato a stagliarsi sull’ordito del novecentesco intarsio letterario italiano, un’ombra in sicura ascesa fino a raggiungere le vette del panorama romanzesco al fianco di Svevo: la funzione Gadda.