di Luca Torzolini
Alessio non . Claudia pure.
Nicolai d’ : non . Non c’ da . Nulla.
Desireé si i ; di in . Di in .
Umberto ai per il (che !).
Ottavio sempre, senza . .
Elio tra come un . Come un .
Franco a il . Studiò e ; lo ?
Stefano .
Così vive la maggior parte della gente.
di Luca Torzolini
Gli occhi di lei lo guardavano, immobili, da lì.
- Amore, perché non rispondi? Non sarà la paura di usare parole troppo grandi a essere più grande di loro e soffocarle, stanziandosi dinanzi la bocca come un masso all'entrata di una caverna? Non sarà quell'amore che non si chiama amore ma infinito rispetto e sdegno per essere incapace di possedere le capacità dell'altro?
Ricordi il nostro primo incontro? Sul lungomare: in piena notte, nella passeggiata solitaria perpetuata per mancanza di comprensione da parte del mondo? Mia di lui e sua di me. Eri anche tu una passeggiata, non serviva dire nulla, e nessuno dei due spalancò la bocca fino al bacio incandescente che ebbe l'implacabile potenza di creare, come le mani elettriche dell'essere che generò dal non essere il suo stesso inganno.
Amore, perché mi guardi così? La vita ci ha interrogato e noi non eravamo preparati a tanta saccenza. È un insegnamento che sovrasta gli imperatori, quando ammirando l'orizzonte sanno che non c'è nulla più da conquistare. Il lavoro tuo, notturno, quello di fare marchette per il piacere della mia perversione; il mio, diurno, di banchiere oscurante il suo destino, troppo piatto per avere il coraggio di mostrarsi: l'incontro tra le due vite, schiacciate dal silenzio sottostante il vociare muto della televisione. Non c'è uomo che abbia imparato ad umanare.
Sei arrabbiata forse per com'è morto nostro figlio? Pendolante dal balcone, con una sciarpa troppo ruvida per ammazzare il freddo; impiccati noi, nella comprensione del gesto dovuto ad un'assenza dittatoriale dopo un’adozione ricercata disperatamente per l'impossibilità di procreare. Amore, perché non rispondi? -.
Era lì da giorni, vicino a lui il cadavere di un transessuale. La putrefazione è una legge che la Natura inventò per separarli. Ma lui vomitò, innumerevoli volte vomitò, con gran ritegno. Poi morì.
di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani
Zaino in spalla.
Salto il titolo. Sfido il catenaccio, riesco a passare. Mi ritrovo in un articolo di politica e lo attraverso a stento: ci sono dei veri e propri macigni tra le righe. Arrivo al punto. Non dell'articolo, al punto della storia: devo intervistare l'Intervista. Ma prima.
Quando il caporedattore di Re-volver mi diede questo compito, pensai che sarebbe bastato aprire una rivista qualsiasi per trovarmela di fronte. Ma non ci sono interviste autentiche nei giornali italiani.
Mi avventurai nelle free press anni '70: ben presto le nuvole di THC mi buttarono fuori strada e... uscii dalle righe. Finii in un articolo di costume di un mensile glamour: un mare di articoli firmati che parlavano di firme. Certo, sempre meglio di editoriali sturm und drang o di articoli d'opinione che calunniano tutti e tutto senza dare alcuna soluzione allo stato di cose.
A tentoni cercai di sorpassare un articolo di cronaca nera e, brancolando nel buio, sentii un calpestio d’interiora sotto i miei passi. Subito dopo inciampai nell'arma del delitto e un senso di inadeguatezza sociale mi s’iniettò in vena. Il labirintico errare, soltanto a tratti illuminato dal bianco e nero della foto, continuò a lungo. Vidi solo l’ombra del colpevole finché un famoso ispettore fece luce sul caso.
Completamente ubriacato dai profumi "Catarro di Giò", "Cagòr" e "Wc N°5", decisi di voltare pagina. Feci fatica a causa dell'orecchietta.
Materializzato nel Mc Solald presi a testate il pagliaccio mentre la carta passava i tre stadi dell’usura: sgualcito, logoro, perforato. Purtroppo i Mc menù sono irresistibili: andai via con una dozzina di quintuplo burger con carne di topo alieno e ketchup sintetico.
Sorpassate altre dieci pagine di sponsor, mi ritrovai nella sezione sportiva e decisi di superare il record del salto in lungo uscendo da una rivista per saltare in un rotocalco: 2D - 3D - 2D.
Il quotidiano in cui ero passato era vecchio di tre giorni. Niente, neanche lì c'era l'intervista. Solo annunci di bordelli privati, necrologi e l’oroscopo. In un paese di morti gli uomini credono di poter sopravvivere dialogando con le stelle. Non sanno che le stelle hanno un portafoglio.
Portafoglio, dicevo: come tutti i veri giornalisti della storia apro il mio ed infine eccomi qui! Nel mondo del business. Vinco l'asta con gli sponsor, i direttori, i propagandisti politici. Sono povero, ma adesso lei è mia.
Ora che gli altri offerenti se ne sono andati mi avvicino curioso come mai e le pongo dinanzi il microfono. Adesso è mia, è mia, è mia.
"No Comment" è la sua risposta. E io non ho nemmeno aperto bocca.
di Luca Torzolini
1940. Mani. Di Joanne.
Vecchie e affusolate. Mani che accarezzavano con forza placida un collo quasi trasparente. Un’ergonomica coordinazione oculo-manuale le permetteva una produzione limitata di rumori.
La stanza era quasi buia. Il separè ospedaliero non la separava dalla sua coscienza. Fu la prima tra le innumerevoli volte che il bambino riuscì a respirare prima di finire nell’acqua. Fu il dottore a chiudere il cordone ombelicale stavolta. Era un compito che di solito spettava a lei.
Il collo taurino le ricordava per associazione antitetica il pollo arrosto che la madre riportava dal mercato, quando era poco più che bambina. Carne flaccida e ossa burrose. La madre doveva comperarlo, anche se in famiglia non c’erano molti soldi. Ogni sabato il padre accarezzava Joanne come fanno i bambini precoci con le gonne delle bambole di pezza. La madre doveva comperarlo. Joanne finì per odiare il pollo.
Il collo. Del padre. Si spezzò malamente. Così.
- Come sta il bambino? – disse l’infermiera nuova facendo carta bianca dei pensieri di Joanne. Il suo camice era troppo sbottonato, lei ancora nubile. Non poteva certo capire. Non aveva ancora avuto bambini, lei.
- È nato morto – disse Joanne, con la faccia impietrita in una smorfia indecifrabile, la faccia insegnata dalle stelle ai poveri quando hanno la certezza che quel giorno non sarà possibile mangiare.
- Oh mio Dio! Oh Dio! – singhiozzò la giovane tirocinante con le lacrime affacciate su questo mondo di merda. Le lacrime caddero, la merda rimase. Divenne più salata. Joanne aveva versato le sue nei 24 anni di vita dedicati alle strazianti cure verso il figlio.
Il dottore annunciò la notizia alla madre che lo aveva partorito. Fu il rumore secco della ghigliottina per il fratello di Robespierre. Scoppiò in un pianto immortale che uccise tutto quel che aveva dentro.
Joanne sentì la disperazione della donna, sapeva che in qualche modo la vita avrebbe di nuovo giocato con lei. Era solo un bisticcio. Momentaneo.
Il corpo fu seppellito, insieme al suo cromosoma in più.
di Marco Sigismondi
“Le persone fuori dal comune sono
quelle che, vivendo una realtà comune, riescono
a vedere e dire qualcosa di straordinario”
da Labirinto a senso unico di Luca Torzolini
Stazione di Colleferro, ore 16.35. Scendo dal vermone d'acciaio che mi ha portato fin qui ed entro in stazione. Passo dal bar, mia sorella fa il turno di sabato e vado a scroccare un caffè; dopo un lungo viaggio è l'ideale. Lì, mentre sorseggio un caffè si avvicina un uomo. E' vestito da muratore, con un grande cappotto antipioggia blu e scarpe antinfortunistiche, porta occhiali tondi che ne distorcono gli occhi e una fila di denti mancanti che ne distorcono il sorriso. Mi offre da bere, accetto, iniziamo a parlare.
“Io, scusi, no disturbo, scusi...”, mi fa il pazzo, “io sa, ecco, lui avvocato, mmm... sì, avvocato”.
Indica nel frattempo il figlio del proprietario del bar, che a 8 anni sta dietro al bancone a passare i pomeriggi. Nella sua mente è un avvocato.
Poi mi presenta i sui amici: una studente-barista che non ha tempo per starlo a sentire (mia sorella), una barista-studente (in ordine inverso) che tutto farebbe tranne che passare un pomeriggio con lui, un avvocato di 8 anni (il figlio del proprietario) che ride di nascosto alle sue stranezze e un cliente a turno del bar che non sa nemmeno della sua esistenza se non come fastidiosa presenza.
“Io no permetterei, ma se tu..”, mi fa il pazzo “vuoi fumare, ecco, vai, io vengo.”
Così usciamo di fuori a fumare, lui mi offre una sigaretta, poi un'altra e un'altra ancora per il viaggio. Parliamo di matematica, di fisica, di politica e sanità.
Parliamo di lavoro.
“Ah bè sì, tu certo, tu pulito, no vestito, no sporco, insomma tu bene” mi fa quando gli dico che lavoro in una casa editrice. Poi continua: “Io, bleah, io lavoro al... io lavoro al mostro... bleah”.
Già, al mostro. Il pazzo lavora al termovalorizzatore dove spala rifiuti in mezzo a fumi cancerogeni.
“Io”, mi fa, “ no, noi prendiamo rifiuti, sì bleah, li prendiamo e buttiamo dentro, nel forno, wahm... fuoco e poi tic, tu a casa elettricità, accendi, spegni e io butto rifiuti e te tic, eh... sì”.
Lo guardo, penso ai suoi amici semi-reali mentre mi parla della cena della vigilia che terrà proprio lì al bar. So che il bar sarà chiuso e penso che lui ci sarà lo stesso lì, a festeggiare.
Ora ci ripenso, sto fumando ancora una delle sue sigarette, non so perché l'abbia voluta conservare fino ad adesso, ma sai che ti dico Luca? Lascia stare cazzo, non lo pubblicare questo articolo. In fondo non ho recensito niente e nessuno, non ho giudicato, non ho detto a nessuno, secondo il mio insindacabile giudizio, che musica ascoltare, che libri leggere o che film guardare.
Luca cazzo, brucialo questo articolo, strappalo, cancellalo, dimenticalo, cestinalo.
Sì, cestinalo, così il mio pazzo domani ne farà elettricità.
Tanto domani, lui tornerà a spalare rifiuti, ed io a spalare parole, e sinceramente, a pensarci adesso, ancora non capisco chi dei due spalerà più merda.
di Luca Torzolini
Siamo angeli caduti che han preferito cadere
pur di sputare sulla propria dignità artistica.
Italia, Altrove 3 Ottobre 1990
Arthur è un bambino piccolo che ama le favole e lo zucchero filato.
- Arthur! Arthur! - fece la mamma - Vai subito dentro l’armadio e chiudi la porta che il papà è ubriaco! -
Arthur entrò nell’armadio, chiuse la porta e tornò nel suo mondo.
Vide cose mai viste, scoprì l’arte e disse a se stesso: - Pubblicherò una rivista un giorno. Si chiamerà Re-volver -
La mamma urlò. Il papà pure. Arthur uscì dalla porta dell’armadio e vide tutto.
Italia, Altrove 20 maggio 2008
Il suono del frustino era un tuono nel silenzio, il bacio di un rospo verso la farfalla. Un bacio cannibale.
Il cocchiere sembrava il tizio di Taxi driver, ma senza tizio. Etereo, silenzioso come un luogo pieno di rumori ma senza nessuno che può sentirli.
(Lo concepii bene, lo scrissi meglio).
Meccanico e vacuo, come un semaforo.
Nella carrozza due feti portati in braccio da Lucien, la bambola bambina. Con lei c’ero io, il fantasmagorico cronista di Re-volver, un free press. Il free press.
Passando attraverso la palude, osservavo i castelli di sabbie mobili che ingurgitavano ignari bambini, gli alberi capovolti che avevano radici nelle nuvole e si muovevano a seconda del vento e le brume senza cose che solo durante l'eclissi mostravano la loro ombra: l'oggetto che delineava i propri contorni. Contorni che confutavano l’oggetto, SPESSO.
Lucien accarezzando le viscide melme disse - Sicuro di voler fare un’intervista al nostro signore? Lui riceve a stento qualcuno e, seppure sia apertissimo verso ogni possibilità, la sua immensa cultura ed eterogeneità nel linguaggio fa desistere chiunque dalla comprensione delle sue parole. Un’intervista addirittura... tsè, impossibile! -
La guardai con lo sguardo di sguincio dell'eroe, alla Klaus Kinski, uno sguardo fantasma. Sì, proprio così.
Il castello si materializzò all'orizzonte, in un jump-cut studiato e poco ortodosso. Pensai ad A Bout de Souffle e decisi di scendere dal mezzo. Il cocchiere fece per salutarmi, ma penso fraintesi, il suo doveva essere più precisamente un addio. Se ne andò.
Solo. Sulla porta il batacchio pesante delle classiche storie horror… mi ha fatto sempre un effetto misantropo, del tipo “non mi rompete i coglioni sennò... ” sennò basta, non mi va neanche di continuare: le spiegazioni mi stanno sul cazzo. Bastien cacciò le Camel. Senza filtro. Ah, Bastien è il mio apprendista, di solito è poco calcolato.
Al secondo sbuffo, che acrobaticamente cercò di assomigliare al salto di un delfino, il maggiordomo giapponese aprì. Senza parole mi fece capire la necessità di togliere le scarpe. Il pavimento era freddo e relativamente fluido, mi sembrò di mettere i piedi nella sabbia le sere d'estate, ma senza piedi.
Il pinguino credeva l'avrei seguito, ma tendo naturalmente a non assoggettarmi a nessuno. Soprattutto a Nessuno, cioè Tutti. Visitai il maniero in lungo, largo e 4°dimensione. Affacciandomi alla porta di una specie di ripostiglio, con relativa etichetta "Non aprite", trovai un Cuore rattoppato. Preso da un istinto malvagio stritolai il cuore, lo calpestai e poi inventai un senso di colpa derivante dai miei genitori. Mi avevano educato male.
Un grido discreto scese giù per le scale e si soffermò sulla porta, senza entrare.
- Toc, toc! - disse l'urlo.
- Avanti! - risposi.
- Aaaaaah!!!!!!! -
Corsi fino a che la milza non mi uscì dalle orecchie, seguendo le frecce sul muro. Mi ritrovai sul tetto: c'era un cesso. Il mio sogno, un cesso sul tetto.
Durante la cagata pensai a come cazzo aveva fatto Stallone a scrivere Rocky, una sceneggiatura geniale per fare soldi a palate. Pensai ai conigli sit-com di David Lynch e al cavallo che Nietzsche abbracciò in uno slancio umano che sottolineava la disumanità dell'uomo. E pensai a Laura… mmmh, si! All’Aura.
Sbadatamente tirai l'acqua. Me ne accorsi.
Non pulendomi il culo, lascia l’autografo dell’orifizio sul candore delle mutande e mi diressi verso l'uscita. Sbagliai strada e mi ritrovai nella sala del tesoro. Me ne accorsi perché c'era il tesoro. Svaligiai tutto, riempiendo le tasche del mio eskimo. Sì, adoro quella canzone di Guccini. E De André. E ogni singola digressione nata per libera associazione da una semplice parola.
Grasso di refurtiva mi accinsi a uscire con fredda e calcolata eleganza. Il maggiordomo mi squadrò da capo a piedi, ma non trovò nulla. Non c'è niente più nascosto dell'evidenza.
Il cocchiere era lì e c'era anche Lucien, la direttrice di Re-volver. Le dissi - Che belle gambe hai, a che ora aprono?! -.
- Una battuta anni '70 riciclata, a zampe d'elefante. Piuttosto, hai fatto l'intervista? - fece lei, serrando le gambe a mo’ di portone blindato.
Bastien sbucò dalla palude, senza un braccio ma con un atomo d’idrogeno in più. Porse il foglio.
Intervista ad Artur Mc Arte
Tu cosa vuoi da noi?
Voglio un’estinzione elegante.
Puoi curarci?
Sono la malattia e la cura di chi si occupa di me.
Sei immortale?
“Tu l’hai detto!”
Esisti veramente?
Posso esistere solo se tu mi dai un cuore, o così disse l’uomo di latta nel film di Fleming.
Qual è la cosa più importante per te?
Io.
Dimmi qual è la domanda cui non si può rispondere.
TU, esisti veramente?
di Luca Torzolini
Inizio e fine.
Questi due dannati concetti non ci permettono di vivere la vita in maniera equilibrata. Gli impegni, uno dietro l’altro, si susseguono durante il giorno e noi siamo sempre alla mercé dell’attimo che sta per cessare, dell’ansia di non essere in tempo, di non essere pronti, di non desiderare abbastanza l’evento successivo. Da quando mi sono accorto di questo, non a livello intellettivo ma sensibilmente, ho deciso di concedermi un regalo, qualcosa che durante il giorno fosse il mio attimo senza tempo.
Un caffè, ad esempio, gustato con l’olfatto, nel momento in cui la macchinetta ne sprigiona l’aroma penetrante, con gli occhi, quando lo verso e ne constato la densità mentre lo zucchero affonda, tramite il primo d’innumerevoli sorsi. E poi, quando la tazzina giace vuota e senza vita, ricerco una cerimonia solenne che mi permetta di avvertire il sapore del nero brasiliano che ancora mi rimane in bocca, quasi fosse un ricordo meraviglioso che la mente secerne durante l’atto funebre di una persona conosciuta a fondo. Da lì do voce vibrante ai miei atomi, ascolto la pelle calda della faccia, i sussurri del vento che s’insinua nei pori delle finestre. Mi torna alla mente il mio primo caffè, rubato a cucchiaini dalla chicchera della bisnonna e lo zio Franco, obbligato ad un caffè amaro a causa del diabete, che aveva perso un occhio in guerra in cambio di mille storie da raccontare. Penso all’americano della troupe che non sopportava la densità della nostra bevanda e ad Alessandra che non lo prendeva senza latte e aveva labbra morbide in cui risiedeva l’onniscienza. Quest’infinito scrutare è durato meno di due minuti.