Holy EYE

CERTIFIED

L’immaginario popolare è sempre stato in netta contrapposizione alle reali (spesso misere) condizioni di vita del popolo stesso. Come sottolinea Calvino in Lezioni Americane, la letteratura ha sempre cercato di evadere da questi problemi tramite il mondo fiabesco o di affrontarli metaforicamente come usa fare più volte Kafka (Es. Il cavaliere del secchio). Per l’Italia odierna trovi i metodi di comunicazione sopracitati utili o pensi sia più pratico, seppur meno confortante, un ritorno al realismo, sia esso di natura “comico-bukowskiana” o ancor più ferocemente verista?
Non concordo con l’analisi sull’elaborazione dell’immaginario o del fantastico. Detto che Kafka proprio non compie una simile operazione (e tanto meno lo fa proprio con “Il Cavaliere del secchio”, su cui, come notava Scholem, si potrebbe attagliare alla perfezione non solo un’interpretazione cabbalistica, ma anche una alchemica), il riduzionismo quasi feuerbachiano, ma comunque tipicamente occidentale, perde di colpo il punto centrale dell’esistenza dell’immaginario – che è quella di porre un punto umano fuori e dentro al tempo, fuori e dentro al legame di causa-effetto. Mi chiederei, a questa altezza, come può esistere un realismo: non sarebbe derivato da un apparato percettivo e, quindi, totalmente fantasmatico anche ciò che si desume dalla realtà? E perché la natura comica, che non è bukowskiana in quanto Bukowski era tutt’al più sardonico, dovrebbe suonare come una poetica in alternativa ad altre? La verità è che, terminata l’enfasi critica sui generi e la loro contaminazione, si passa grossolanamente al confronto tra poetiche...

La sofferenza, non solo fisica e psichica, ma soprattutto come prodotto di una caratteristica empatica, aiuta a capire il mondo e permette allo scrittore di penetrare il mondo reale tramite la descrizione dei moti interiori delle personae. Tu sei uno scrittore altamente empatico. Che rapporto hai con questa caratteristica, variabile congenita della tua scrittura?
La sofferenza, a mio parere e secondo l’insegnamento eschileo, aiuta a capire il se stesso, e dunque se stessi. Cogliere ciò che è comune, stabilmente comune, tra umano e umano, o tra creaturale e creaturale, significa sforzarsi di indagare l’interno quanto l’esterno, la realtà in quanto fantasma e la fantasia in quanto potenza reale. Ciò mette in secondo piano due forze che sembrano in gioco e invece appaiono soltanto occasionali: cioè lo “io” psicologico (dell’autore, ma anche del lettore) e la forma di arte con cui si entra in contatto. Tali forze sono assolutamente messe sotto scacco da ciò per cui esistono: che è altro dall’arte stessa e qualunque cosa di reale o fantasmatico che sia la sostanza di cui è fatto l’“io”. Leggevo un grande scrittore, l’altro giorno, dichiarare che morirebbe per la letteratura. Io ritengo che la letteratura muoia sempre per il “me”.

Descrivici il rapporto tra Genna scrittore e Genna personaggio. Perché Genna personaggio ha così bisogno di emozioni forti? Da cosa scaturisce questa rabbia latente che non esplode mai? Perché in Internet ti definisci “Il miserabile”?
Che il nome del grande Divisore sia legione, è cosa nota. Resta da comprendere chi o cosa sia tale Divisore. Ciò che sottintende la domanda è la differenza tra componenti dello “io”, razionali o meno, emotive o meno, psicologiche o reali. Potrei affermare che “Giuseppe Genna”, che sia autore o personaggio o l’ologramma vero e falso che appare su Rete, è una legione. Sono componenti multiple, che tentano di prendere sagomatura e possibilità di rappresentazione, per oggettivarsi davanti a una forza di discriminazione, di osservazione priva di giudizio, che non coincide con “Giuseppe Genna” (espressione che comprende anche Giuseppe Genna). Della mia vita privata molto coincide con l’esistenza o le movenze del personaggio a cui do il mio nome; molto altro, no. In Rete, poi, io seguo una retorica cangiante e contraddittoria, che molti purtroppo ha irritato. Questa personalità di Rete è la sagoma che, a ora, vorrei disciogliere con l’acido della mia capacità di sopravvivenza – e non riesco in ciò perché questo ologramma è uno strumento di lavoro, di sussistenza. Il Miserabile è un omaggio a Victor Hugo da un lato, un’autoironia circa il mio spesso esasperato o esorcistico pauperismo dall’altro lato, e infine un aggettivo bino, poiché contraddistingue lo “io”, essendo questo davvero perverso e davvero da commiserare nel senso dell’empatia.

Nell’assenza di contenuti che investe ogni campo culturale, si sente la forte mancanza di un intellettuale come Pasolini, il quale abbia il coraggio di una presa di posizione netta, estrema. Credi sia possibile oggi la diffusione mediatica di un pensiero intellettuale al pari di quello “pasoliniano”? O, altrimenti, quali ostacoli incontrerebbe?
Pasolini è anzitutto un artista – si tende a scordare questa semplice verità e a ignorare che l’atto estremo di questa conclamata nitidezza politica è essenzialmente un’opera d’arte: cioè Petrolio. Detto ciò, oggi non ravvedo alcuna possibilità di penetrazione, da parte dell’intellettuale, nel contesto pubblico e politico. Ciò non significa che l’intellettuale o il creatore non debba prendere una posizione netta: anzi, se non lo fa, non è artista. È la posizione del pasolinismo tribunizio che trovo intollerabile e deviante. È ovvio, per fare un esempio, che Roberto Saviano ha inciso in parte su una realtà; ma non illudiamoci che i suoi lettori siano stati “educati” al civico dalla scrittura di Saviano. Inoltre io trovo che Kafka o Celan sortiscano una potenza del politico di abnormi dimensioni. È soltanto il momento presente a volersi apolitico, anideologico – risultando così violentissimo, discrimatorio, ingiusto e peraltro infondato dal punto di vista umanistico. A uno scrittore, di fatto, cosa spetta? Raccontare il mito, che è anche e soprattutto ritmo.

Secondo te in cosa risiede precisamente il potere taumaturgico della scrittura?
Nel momento preciso in cui si scrive, si è e non si sa cosa si è – se maschio o femmina, se giovane o anziano. Questa è la porta della taumaturgia attraverso la scrittura. Accade lo stesso per chi legge, se è nell’incanto della lettura. Si è – questo è tutto, bisogna trarne conseguenze non semplicemente intellettuali.

Facci un’analisi del cinema contemporaneo italiano.
È inesistente se non in fenomeni (faccio un nome per molti) come Davide Manuli, autore di Beket, premiato a Locarno e vincitore del Miami Film Festival.

Cosa ne pensi delle fiere del libro che si svolgono in Italia? Quale paese sceglieresti per pubblicare?
Non ho opinioni circa le fiere. Sulla nazione in cui pubblicare: dal punto di vista linguistico, solo l’Italia e l’India detengono una lingua talmente antica da avere trapassato la propria morte, per entrare in uno stato di esaustività ed esaurimento. La lingua esausta determina una frontiera interessante sulla quale lavorare. Poi: mi piacerebbe pubblicare in America per motivi prettamente materiali, nel senso che ravvedo là più chance di vivere con la scrittura, quindi di potere studiare di più.

Nella letteratura del Novecento molti hanno scritto riguardo il trapasso dei propri cari. Gadda, ad esempio, racconta la morte della madre, Svevo quella del padre; In Italia De Profundis cosa ti ha spinto a fare altrettanto?
La verità, che è amore. La necessità libera ad accedere alla zona paterna. Non certamente il lutto.

Jodorowsky, Battiato, Lynch: tutti sostenitori di varie pratiche esoteriche. Come mai anche tu ti schieri con loro? Cosa ti affascina di tale filosofia?
Non mi schiero affatto con nessuno. A me interessa la pratica metafisica, che è filosofia autentica, e circa la quale non c’è da dire molto. In ogni caso sono estraneo a qualunque attività di ordine esoterico, che proprio non mi interessa. Dubito inoltre che Lynch, dei tre citati, sia legato a pratiche esoteriche.

Il resoconto delle varie esperienze borderline da te praticate in Italia De Profundis sembra in realtà pura finzione letteraria essendo non credibile che una tale accuratezza lessicale, culturale e introspettiva appartenga a chi ha tentato coscientemente di abiurare al proprio raziocinio. Quanto c’è di vero in tali esperienze? Cosa significa per te “romanzare”?
Non ravvedo assolutamente questa distinzione tra raziocinio ed emotivo. Anzi, per me il problema è proprio quello di unificare, stando a me e me soltanto, psichico emotivo e somatico attraverso la scrittura. È la possibilità di una sutura per un’antica ferita, quella che mi offre il refe della scrittura. Tra credibile e incredibile, poi, proprio tenderei a fare molta attenzione – in presa diretta, se si è stati molto immersi nella lingua che si percepisce come propria lingua, è possibile raggiungere gradi estremi di esattezza. Inoltre va detto che parte della critica, proprio laddove voi ravvedete accuratezza, percepisce cadute e incapacità linguistica. Se si cerca di sapere se sono stato con tre travestiti, dirò che no; se mi sono praticato inoculazioni di eroina, dirò di no; se ho ucciso un uomo affetto da SLA, dirò di no; se mi sono inviato una lettera a distanza di anni, dirò di no; se sono stato in un villaggio turistico in Sicilia, dirò di sì; se sono stato davanti a uno sciamano che somiglia vagamente al ministro Frattini, dirò di sì; se ho sofferto di orticaria insedabile perfino dal cortisone, dirò di sì. Tutto ciò non apporta nulla al grado di eventuale verità del libro. Romanzare, per me, significa spingere, attraverso verisimiglianza data a priori dalla lingua, a una domanda extraletteraria che è: “Chi sono io?”. Romanzare, per me, è tentare di giungere e far giungere al grado zero.

Quanto ti ha influenzato il filone “espressionista” (identificato da un noto critico letterario quale G. Contini) che parte da Dante e ha come sue peculiari caratteristiche ad esempio il pastiche linguistico, seppur tu lo utilizzi in ambiti stilistici?
Moltissimo, sebbene non segua alcuna indicazione teorica in tal senso. Mi è molto chiaro, e principalmente perché vengo da una militanza pluriennale nella poesia contemporanea, che la mia lingua di superficie è porosa, scarta, si muove addirittura grossolanamente, precipita per sbagli. Ciò è tipico di quella che il grande critico e traduttore Giuseppe Guglielmi definiva “linea calda”, la quale nozione molto ha a che spartire con quella continiana. Rifiuto totalmente invece l’idea del pastiche come approdo o effetto – si tratta, al limite, di un segmento di retorica, la quale retorica è un patrimonio umanistico che va reinterpretato, se non rifondato, secondo le indicazioni di Burroughs. La lingua di superficie, se di matrice espressionista, sta a indicare una lingua più carsica, fatta di ritmo e di retoriche che sono anch’essi sotterranei.

Che cos’è www.ripubblica.net?
È un’iniziativa editoriale della web agency in cui lavoro, Siris (www.siris.com), la quale iniziativa ha uno scopo che si scoprirà col tempo.

Progetti futuri?
Lavorare con più precisione, e più in silenzio, su me stesso. Dal punto di vista editoriale, che immagino interessi maggiormente, tre libri.

di Federica Lamona

Miei cari lettori… Provate a prendere una persona terribile, diciamo decisamente insopportabile, dotatela di un talento fuori dal comune e otterrete un decadente o giù di lì. Bene… a quanto si vede in giro, i “ miracoli” della selezione naturale hanno bissato sulla genialità e ci hanno lasciato una fantastica gamma di personaggi discutibili e quasi teneramente non coscienti della cruda beffa darwiniana. Maledetti, poeti e non, “dandy”, intellettualoidi di ogni sorta popolano il grande schermo (compreso quello piccolo), i giornali… i pub. Ebbene sì… anche i pub. E poi, diciamoci la verità, non c’è niente che fa più tendenza di ciò che è in controtendenza. Così l’approvazione indiscriminata nei confronti di chi ostenta un’ipocrita e costosa sciatteria nel vestiario, damascata da un falso atteggiamento relativistico, infarcito di un solitamente ristrettissimo repertorio di citazioni, meglio se provenienti da fonti ignote ai più, lava via dalla coscienza la brutta idea di far parte di un grasso branco di “pecoroni” con il cervello sotto formalina. Perfino gli opinionisti delle trasmissioni di gossip cercano di darsi un contegno citando Proust, perché la cultura è come il “nero”… sta bene con tutto! D’altra parte il nostro compianto conterraneo Ivan Graziani cantava giustamente in Pigro: “Una mente fertile, dici, è alla base, ma la tua scienza ha creato l’ignoranza”. Allora da dove nasce il fascino del ruolo sopra le righe? Probabilmente dai Wilde (saccheggiato a sproposito soprattutto nel repertorio degli aforismi), Rimbaud, Verlaine e prima ancora di loro, dai Benvenuto Cellini, François Villon e molti altri fino ad arrivare a Jim Morrison. Epoche storiche, esseri umani e geni diversi: tutti entrati nel mito per la sregolatezza, il disgusto dell’anonimato, il disprezzo del limite. Limite che risulta un elemento interessante in questo frangente. Infatti, sembra che la coscienza delle proprie effettive attitudini sia un carattere recessivo e che questa carenza abbia generato una grandiosa e pittoresca “fiera dell’incapacità” in cui i nostri campioncini dell’immodestia quasi sempre riescono ad ottenere molto più di quello che meritano. E ciò accade in ogni ambito, artistico e non. In particolare i “signori” che sono stati citati prima e su cui è stata costruita la leggenda, vivevano intensamente un’arte che affondava le sue radici nella sofferenza; una sofferenza non patinata, non recitata, una sofferenza che era carne e sangue. Scimmiottare talenti che non si hanno mostra la fragilità e la piccolezza di chi non ha consapevolezza di sé, di chi cerca di soddisfare sottilmente una fame inesauribile di compiacimento. Seguire la propria natura è un atto di filantropia a questo punto. Magari il mondo potrebbe diventare un posto vivibile se ognuno riconoscesse in maniera onesta il fatto che si è ciò che si è. E nient’altro. Senza cucirsi nessuna identità artificiale addosso. E magari questi tizi che vogliono a tutti i costi salire a bordo del “battello ebbro” o che s’“inebriano” in tutta autonomia con i deliri di onnipotenza, non ce li ritroveremmo tra i piedi quando guardiamo un film, quando ascoltiamo della musica, quando leggiamo un libro, quando sfogliamo la pagina politica. Comunque il loro scopo lo hanno raggiunto anche stavolta. “Purché se ne parli”.

di Giorgia Tribuiani


Fu romanziere e drammaturgo, Alexandre Dumas, nonché una delle migliori firme dei romanzi d’appendice: i “feuilletons”, antenati dei racconti popolari e delle storie a puntate, raggiunsero uno dei loro picchi più alti attraverso la penna dello scrittore francese e il pubblico dei lettori ebbe forse a reclamare il nuovo capitolo de Le Comte de Monte-Cristo più di qualsiasi altro inserto. Dumas visse del suo mestiere di scrittore al quale poté dedicarsi completamente, firmò importanti rubriche di famosi quotidiani ed ebbe accesso alla prestigiosissima “Comédie Française”. Cosa spinse quest’uomo, votato all’intelletto e alla cultura, a delinearsi nel marinaio Edmond Dantès, giovane protagonista del romanzo Le Comte de Monte-Cristo? La risposta a quest’interrogativo va rintracciata, probabilmente, in uno dei più profondi desideri dell’autore: quello di rappresentare, per i suoi nemici quanto per i suoi amici, la “Provvidenza”. “Ai tempi in cui scrive Dumas – afferma André Maurois nel saggio Le Comte de Monte-Cristo – l’Incantatore si confonde col Nababbo, la cui fortuna permette ogni fantasia e ogni audacia. Dumas sognava di essere il dispensatore di tali beni terrestri. Nella misura, ahimè ridotta, in cui le finanze glielo permettevano, egli si divertiva a interpretare questo ruolo per i suoi amici e le sue amanti. Una coppa bastava a contenere tutto il suo oro, ma egli la versava con un gesto generoso, come quello di un Nababbo”. Dal canto opposto, Dumas nutriva particolari risentimenti nei confronti della propria società, di cui suo padre era stato una vittima e che lo perseguitava attraverso creditori e calunniatori. In Edmond Dantès, dunque, Dumas vide l’oppresso per eccellenza, il calunniato che – imprigionato innocente nel Castello d’If in seguito a false testimonianze – ha l’occasione, grazie all’abate Faria, di ereditare una fortuna immensa e di trasformarsi nella Provvidenza, un uomo in grado di punire crudelmente i propri calunniatori e di divenire un magnifico benefattore per i propri amici. Nell’intelligenza con cui il piano di Dantès si compie, del resto, ritroviamo il logico e colto Dumas: la trasformazione del marinaio in conte è completa e l’autore può specchiarsi completamente nel suo protagonista. La storia di Edmond Dantès, nata da un fatto di cronaca, appassionò immediatamente Dumas, che trovò nelle vicende del povero Picaud l’intreccio perfetto per il suo romanzo. Romanzo al quale, d’altra parte, egli fu sempre legato, al punto da acquistare un terreno a Port-Marly per farvi costruire il proprio “Castello di Montecristo”, o da fondare un giornale intitolato appunto “Le Monte-Cristo”.


di Stefano Tassoni


La citazione del titolo prevederebbe che focalizzassi l’articolo sul duemiladieci come lo scrittore fece inquadrando bene il Portogallo salazarista, estrema falange di una già martirizzata Europa nell’aurora della sua più nera pagina: è il 1936, un anno dopo la scomparsa del suo inventore (Fernando Pessoa) muore Ricardo Reis. Ed è chiaramente un pretesto per parlare della dittatura portoghese, ma non solo; è anche l’occasione per Saramago di “affontare” vis-avis l’altra colonna portante del Novecento letterario portoghese. Non è da tutti misurarsi con i propri predecessori. Petrarca, ad esempio, finse per tutta la vita di non aver mai letto la Commedia poiché sapeva (per sua stessa futura ammissione) di non poter uscire incolume dal paragone con il Poeta, né tanto meno potevano farlo i suoi Trionfi. Onore al merito dunque dello scrittore lusitano: se è vero che Pessoa non è assolutamente accostabile a Dante come Saramago non lo è a Petrarca, confrontarsi con la propria tradizione resta comunque un atto di lodevole coraggio. Non a caso, a farlo è l’unico scrittore di tutto lo stato insignito di Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Il riconoscimento a livello internazionale arrivò, infatti, solo negli anni Novanta, pur avendo alle proprie spalle una già corposa serie di opere, con Storia dell’assedio di Lisbona, una delle più belle storie d’amore mai scritte, il controverso Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Cecità. Tratteremo gli ultimi due per costatare post-mortem il suo rapporto con la religione, sapendo si dichiarò ateo in seguito alle polemiche scatenatesi dopo il suo Vangelo che lo indussero a trasferirsi alle Isole Canarie. Polemiche riaperte nel 2009 con l’uscita di Caino, altro romanzo con soggetti attinti dal libro sacro, e specificatamente dal Vecchio Testamento, nel quale si descrive un Dio “vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia”. Sembra quindi che nel suo ultimo lavoro lo scrittore intendesse chiudere specularmente la parentesi aperta nel 1991 rivisitando il Nuovo Testamento. Il Gesù Cristo di Saramago, da alcuni cristiani ortodossi ritenuto blasfemo, è un carattere fortemente spirituale, ma in tutto e per tutto umano, che incarna i dubbi e le sofferenze propri della condizione universale di uomo. Il figlio di Dio, dalla nascita a Betlemme alla morte sul Golgota, affronta le medesime esperienze descritte nei Vangeli, qui però narrate secondo una prospettiva terrena, con spirito critico e senso logico. Viene così ri-immaginata tutta la storia terrena del protagonista dal suo concepimento, carnale come per ciascuno di noi, all’amore verso la Maddalena, all’erosione della linea di demarcazione tra Bene e Male, tra Dio e Satana interpretati come le facce di una stessa medaglia. In questa storia non c’è fede nei miracoli, bensì coscienza di trovarsi in balìa della volontà di potenza di un Dio padre distante e indifferente al dolore che provoca. La serie di disgrazie, stragi e morti che costellano l’esistenza di Gesù, fino al non cercato e non accettato compimento del destino di vittima sacrificale, diventa così un’occasione per riflettere sulla problematicità di compiere il giusto tramite l’ingiusto, sull’imperscrutabilità del senso della vita umana e sulla sconcertante ambiguità della natura divina. Il romanzo, come già detto, verrà fortemente contrastato dalla Chiesa, ma incurante di ciò l’autore continuerà il suo iter alla ricerca dell’essenza primaria degli uomini. A tal fine, la critica nel 1995 indica in Cecità il capolavoro dello scrittore lusitano. In un tempo e un luogo non precisati, all’improvviso l’intera popolazione diventa cieca per un’inspiegabile epidemia. Chi è colpito da questo male si trova come avvolto in una nube lattiginosa e non ci vede più. Le reazioni psicologiche degli anonimi protagonisti sono devastanti, con un’esplosione di terrore e violenza, e gli effetti di questa misteriosa patologia sulla convivenza sociale risulteranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l’insensibilità altrui, e qui si manifesta tutto l’orrore di cui l’uomo sa essere capace. Si capisce qui il vero intento dell’autore: attraverso l’escamotage della cecità globale, disegna la grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di qualunque forma di razionalità, artefice di abbrutimento, violenza, degradazione. Il romanzo acquista così portata e valenza universali sull’indifferenza e l’egoismo, sul potere e la sopraffazione, sulla guerra di tutti contro tutti; una dura denuncia del buio della ragione, con un catartico spiraglio di luce e salvezza. Infine, nel suo ultimo romanzo, Caino è protagonista e voce narrante. È lui che racconta della blasfema convivenza fra Eva e il cherubino Azaele, l’assassinio del fratello Abele e il suo successivo dialogo filosofico con Dio, la maledizione, il marchio e l’incontro con l’insaziabile Lilith nella città di Nod. È attraverso i suoi occhi che assistiamo al sacrificio di Isacco, alla costruzione della Torre di Babele, alla distruzione di Sodoma. È lui che dialoga con Mosé in attesa sul monte Sinai e che vede nascere l’identità israelita, fino a un ultimo duro confronto con Dio. Saramago rivendica il diritto di dire la sua in materia di religione. E lo fa, anche questa volta, a voce ben alta, con quella sua inconfondibile ironia capace di trasformare in sublime letteratura la storia di un Caino che accetta, sì, il proprio castigo per l’uccisione di Abele e il destino di errante, ma, insieme, insorge contro un dio crudele e sanguinario che considera corresponsabile. È a questo dio che Saramago, per voce di Caino, chiede spiegazioni, per affermare ancora una volta che “la storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, perché lui non capisce noi, e noi non capiamo lui”. Ed è essenzialmente l’uomo, purtroppo per l’ultima volta nelle pagine del grande scrittore, a essere protagonista.

di Giorgia Tribuiani


Tra critica sociale e avanguardia matematica, Flatlandia mira da un lato a descrivere la società vittoriana e dall’altro formula teorie sulla presenza di un universo multidimensionale, anticipando aspetti della teoria della relatività e temi cari a scrittori come Asimov. Qui il mondo appare bidimensionale, popolato da linee rette, poligoni e cerchi liberi di muoversi, incapace di sollevarsi dalla superficie, alla maniera delle ombre. Arriva un giorno una sfera, che in virtù delle sue tre dimensioni non può essere percepita nella giusta maniera dagli abitanti: attraversando un mondo bidimensionale, si manifesta come un cerchio che accresce e diminuisce il suo diametro, cosicché il suo spostamento spaziale viene colto come un mutamento temporale. Intuitiva è la conclusione: da esseri tridimensionali, difficilmente saremmo in grado di cogliere elementi con più di tre dimensioni. Non si ferma qui, tuttavia, il genio di Abbott, intenzionato a dare alla sua Flatlandia una connotazione sociale. Avere degli angoli molto ampi, infatti, nel fantomatico paese significa avere una maggiore intelligenza, cosa che permette ai poligoni con molti lati di ottenere posti di prestigio e che relega gli “isosceli” ai lavori più umili; infine l’analogia tra le donne e le “linee”, costrette a ondeggiare per essere notate, lungi dal voler legittimare una condizione femminile svantaggiata, rappresenta un encomiabile specchio della loro condizione nella società vittoriana.

di Giorgia Tribuiani


Hocus Pocus è la storia di Eugene Debs, reduce della guerra del Vietnam e di un’altra miriade di guerre domestiche, il quale giunse alla carica di direttore carcerario per trovarsi, in seguito alla “grande evasione”, carcerato. Narrata con lo stile colloquiale che è caratteristica fondante delle storie di Vonnegut, il romanzo è narrato attraverso frammenti (a volte pagine, altre volte una parola) che l’autore attribuisce al protagonista e che sostiene siano stati scritti in carcere su pagine di libro, fogli di giornale e scontrini. Attraverso la penna di Debs, così, il lettore fa la conoscenza di Mildred e Margaret, moglie e suocera del protagonista, vittime di una follia ereditaria; raggiunge il Vietnam in compagnia di Jack Patton, sempre pronto a “sbellicarsi dalle risate”; apprende di Tex, il rettore cornuto, e di Matsumoto, che da bambino si è infilato in un fosso per riprendere un pallone e, tornando su, ne è uscito che la sua Hiroshima, il suo mondo, non c’era più. Narrando la storia di un uomo, Vonnegut narra la storia di tanti, di una nazione, di troppe nazioni. Parte dal Vietnam e sorvola un Giappone colonizzatore, la cui moneta vale ormai più del dollaro, e una Germania postbellica, che torna con l’orrore di Auschwitz e dei suoi forni crematori, per approdare negli USA, sopraffatta - ormai, nel ventesimo secolo - dal suo stesso passato di sopraffazioni.

di Stefano Tassoni


“Sei proposte per il nuovo millennio”: caratteristiche che la letteratura, e quindi indirettamente gli scrittori, posteriori al Duemila dovrebbero non dimenticare di portare con sé... Un libro dunque comprensibilmente essenziale per chiunque si accinga a scrivere: da magnifico mentore, l’autore riesce a non opprimere mai il lettore con la sua erudizione da intellettuale (poiché denota ignoranza chi lo consideri semplicemente uno scrittore) anzi, appassiona e sorprende con la stessa familiarità colloquiale tipica di un fratello maggiore. Nello specifico le sei caratteristiche, analizzate nei relativi saggi (queste le intenzioni, ma purtroppo la morte colse il conferenziere poco prima realizzasse l’ultima) derivati da relative conferenze, sono nell’ordine: la “leggerezza”, la “rapidità”, l’“esattezza”, la “visibilità”, la “molteplicità” e l’incompiuta “consistenza”, di cui abbiamo solo il titolo e il libro-simbolo: Bartleby di H. Melville. Sei ‘modus scribendi’ incarnati per ogni saggio da diverse opere, non soltanto romanzi, ma anche racconti, miti e leggende popolari: dal Decameron al Voyage dans la lune di Cyrano de Bergerac, dal De Rerum Natura alla Morfologia della fiaba di Karl Propp e l’elenco sarebbe infinito per gli innumerevoli esempi pur limitandosi al primo saggio. È bene infine premettere che considerando tali qualità Calvino non esclude i loro opposti anzi, li include come facce della stessa medaglia: « ...sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io considero le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’avere più cose da dire.»

di Giorgia Tribuiani


Pereira è un personaggio comune, non un eroe: cittadino del Portogallo di Salazar, ex- militante della cronaca nera di un grande giornale, si è ora ritirato nell’angusta redazione culturale (composta da lui solo) del “Lisboa”, accontentandosi di scrivere necrologi anticipati e traduzioni di classici, mentre apprende i mutamenti politici solo grazie a Manuel, cameriere del Café Orquìdea. Questo, fino all’arrivo di Monteiro. Che pur non essendo un eroe, è innamorato di Marta, una donna che si crede eroina e vuole sfidare il regime di Salazar. Pereira si affeziona quindi a questi giovani, venendo coinvolto in una spirale che mette a rischio la sua vita, ma salva la sua anima (o la sua “confederazione di anime”, secondo la teoria del dottor Cardoso, convinto che di volta in volta ci sia un diverso io egemone a guidare le azioni di un uomo). Se, da un lato, l’incontro con Monteiro pone fine alla tranquilla apatia di Pereira, dall’altro è grazie a questo che egli scopre che il Portogallo si sta avviando verso la dittatura, che si è instaurato un regime di violenze ed intimidazioni in cui anche la stampa è sottoposta ad una rigidissima censura. Pereira è un personaggio comune, non un eroe, come dicevo, ma è proprio grazie a questo che si rende capace di un’azione di commovente grandezza, strappando a Cardoso parole che segnano, nella confederazione di anime, il passaggio del potere ad un io egemone più consapevole: “Dica al dottor Pereira di scrivere un articolo sull’anima, che ne abbiamo bisogno tutti”.

di Stefano Tassoni


La rappresentazione caricaturale del critico che conosce a menadito l’intera bibliografia riguardante un determinato autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o non legge compiutamente) i testi del suddetto, ha la sua prima attuazione nella figura del mediocre docente. Nulla di più lontano dal celebre artista francese… Personaggio di culto per la futura generazione sovvertiva francese (ma non solo) degli anni ’60 – ’70, Boris Vian muore la mattina del 23 giugno 1959 (lo stesso anno in cui Piero Ciampi lascia Parigi per la sua Livorno) a causa di un colpo apoplettico susseguente le prime scene del film tratto dal suo controverso romanzo “Sputerò sulle vostre tombe”, durante cui, pare, sia esploso in preda all’ira: “E questi dovrebbero essere americani?? Col cazzo!!!”. La storia di questo romanzo è la storia di uno scandalo. Nell’estate del 1946 l’editore D’Halluin era a caccia di un romanzo americano, considerato il successo ottenuto all’epoca dagli autori d’oltreoceano. Vian propose di scrivergli in quindici giorni, e meglio di un americano, un libro scabroso dalle tinte davvero forti. Nacque così Vernon Sullivan, scrittore nero censurato in America a causa del razzismo, e nacque Lee Anderson, nero dalla pelle bianca, che vuol vendicarsi per l’assassinio del fratello e quindi stringe amicizia con una cerchia “bene” di bianchi, con il progetto di sedurre le splendide e inavvicinabili sorelle Asquith... Il plot si sviluppa sui tratti salienti della “gioventù bruciata”: automobili a folle velocità, brividi dell’avventura, alcol, violenza, sesso, per poi raggiungere una crudezza esemplarmente riassunta dal titolo. Ma Vian non fu solo questo.

di Hanry Menphis


Attraverso un mosaico composto da tasselli autobiografici e surreali, Hesse pone il suo personaggio, Harry Haller, in un mondo borghese che da tanto tempo non gli appartiene più. L’ambiente banale e ipocrita che lo circonda ha reso il protagonista un “lupo della steppa”, incapace di relazionarsi al mondo in cui vive, compensando la solitudine con un profondo amore per la cultura e per l’arte. Ed è proprio questo alternarsi tra “l’uomo” e il “lupo” che Harry esamina a lungo, arrivando ad abbandonarsi a se stesso. Giunto ad un punto di non ritorno si ritrova ad un passo dal suicidio, ma viene salvato dall’inaspettato incontro con Erminia, una donna esperta e seducente che lo riporta ad apprezzare le piccole gioie della vita comune. Con lei impara a ballare e frequenta locali in cui conosce persone che dapprima non riesce a comprendere, ma dalle quali, con il trascorrere del tempo, impara qualcosa che i libri non gli possono insegnare. Ma Harry dovrà prima o poi ricambiare esaudendo un doloroso desiderio di Erminia, e lo farà nell’onirico epilogo in un “teatrino magico”. Questo romanzo, scritto in un periodo di crisi dello scrittore, parla sì di sofferenza, ma indirizzata verso un futuro ottimista; in uno spaccato della società in cui Hesse viveva, lo stesso autore tratta i temi della solitudine e della multiformità della personalità umana.

Perché scrivi?
Iniziò come un esigenza. Scrivevo canzoni sul genere punk e già lì era tossicodipendenza. Ho provato a smettere più volte, ma come diceva Bukowski la scrittura continua finché non muore in te o tu non muori. La scrittura è qualcosa di tuo, come un figlio. La scrittura rende materiale la propria capacità di sognare.

Quali sono le patologie del nostro secolo?
Dipende. Di quale secolo parli? Dal 1900 in avanti la patologia più grave da cui il mondo è affetto è l'uomo: l'umanità non ha mai imparato a convivere con la natura e con se stessa.

Quanto contano le donne nella tua vita? E nella scrittura?
In una donna ci vedo un opera d'arte. Un ritratto normalmente non è un bel quadro se non coglie qualcosa di particolare. La donna è un opera d'arte quando la sua bellezza viene amplificata da qualcosa che sta facendo: una camminata, un sorriso stupito, l'abnegazione nel proprio lavoro. Tutto questo si trasferisce nella mia arte; all’origine di tutte le volte che scrivo c'è sempre una donna, nel senso di musa ispiratrice. Mi piace pensare che sto raccontando storie alle donne come chi prende una chitarra vicino al falò estivo e canta Vasco Rossi.

Qual'è il senso della vita?
Ci hanno già provato i Monty Phyton e il risultato è stato un capolavoro cinematografico. Il senso della vita è viverla bene: essere sempre contenti di viverla.
Anche la tristezza può essere vissuta bene a volte. Come quando la tipa ti molla e per quanto sei arrabbiato sai che le emozioni che ti ha lasciato quella particolare storia valgono anche solo per l'associazione fra un ricordo e il verso di una canzone.

Che cos'è la morte?
La morte è il tasto off. Si spegne tutto in tutti i sensi. Nel senso evolutivo l’uomo moderno ha vissuto migliaia di anni in un istante: sono arrivato qui e tutto il resto era stato già vissuto. Morirò e tutto continuerà. La stessa cosa avviene dal punto di vista sociale, quando si muore a livello interiore non ci si accorge più delle emozioni che ci passano vicino. La morte rende bella la vita perchè è in contraddizione. Senza la morte si potrebbe sprecare il tempo senza remore.

di Pietro Pancamo

PREFAZIONE:
le parole seguenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Il silenzio è un’isteria di solitudine
che genera e accumula:
prodotti temporali,
energie cinetiche,
reazioni di gesti a catena.
I sogni, inseriti nella rassegnazione
come in un programma di noia pianificata,
sono gli arti di questo silenzio;
o, se preferiamo,
gli organuli ciechi del silenzio
che lavorano a tastoni
dentro il suo liquido citoplasmico.
Il silenzio può anche essere
la cellula monocorde
di un sentimento spaventato,
di un amore rappreso,
di un guanto scucito:
in tal caso
trasforma la solitudine
nella raggiera cerimoniosa
d’una nausea che procede,
maestosa,
con moto uniformemente accelerato.
(Si registra un’accelerazione a sbalzi
solo quando
un’effervescente disperazione
s’intromette con scatti sismici
a deviare il corso
dell’accelerazione stessa).
Per concludere,
l’evoluzione della nausea
può secernere un vuoto,
avente più o meno
le caratteristiche della morte;
o germogliare per gemmazione
quella strana forma di vita
identificata col nome di indifferenza,
la quale risulta essere (da approfondite supposizioni)
il chiasmo di paura e odio.
POSTFAZIONE:
le parole precedenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Ogni allusione
a sentimenti e/o fatti reali
è voluta
silenziosamente.