di Saverio Tassoni
Il Bigo a Genova ormai lo conoscono tutti. Ispirato alle forme delle gru sulle navi mercantili, il Bigo è un’attrazione turistica, un maestoso ascensore panoramico ai piedi del porto antico. Il costo del biglietto è un’inezia, si sale ed è possibile contemplare dall’alto tutta la città. Dopo dieci minuti si torna giù. Fu progettato da Renzo Piano e realizzato nel 1992 per il cinquecentenario della scoperta dell’America. Genova era frizzante in quelle settimane, l’inaugurazione del Bigo apriva un mese di festeggiamenti in tutta la città. Fu chiesto anche a Fabrizio De André di tenere un proprio concerto per celebrare la ricorrenza. In realtà quel concerto non ebbe mai luogo. Fabrizio declinò l’invito bruscamente; del resto, non era mai stato innamorato del microfono, dell’esibizione.“Non c’è un belìn da festeggiare” diceva. “Almeno per quanto mi riguarda sarò vicino agli indiani d’America e ricorderò insieme a loro quello che considerano il giorno del più grave lutto nazionale, portato avanti piccolo massacro dopo piccolo massacro”. Le sue canzoni preferiva cantarle sulle spiagge, sui monti, non dentro ai locali o sopra ad un palco. All’inizio della sua carriera, l’agiata condizione economica gli permetteva di poter fare a meno delle performance dal vivo, dei proventi derivati dai concerti. Nella metà degli anni Settanta, decise di acquistare un terreno in Sardegna per mandare avanti una sua azienda agricola, in modo tale poter continuare a scrivere in totale libertà creativa, senza dover tenere conto delle impietose classifiche di vendita. Diceva che l’agricoltura era il suo vero mestiere, perché era quella che gli dava concretamente il pane quotidiano. Le sue canzoni non le scriveva certo per il mercato, si pensi all’album Creuza de ma, scritto completamente in genovese antico, che poi genovese non è, perché contaminato dall’arabo e da altre influenze mediterranee. Quello stazzo a Tempio Pausania gli permetteva di non dover trarre sostentamento dal suo lavoro di cantautore, anche se tale acquisto ebbe una conseguenza inattesa. La tenuta dell’Agnata fu considerata, dai servizi segreti italiani, un potenziale rifugio per appartenenti ai movimenti extraparlamentari di sinistra e fu sottoposta a periodici controlli a distanza da parte delle forze di polizia. Perché prima di essere un pacifista, un cantautore o un agricoltore, Fabrizio De André è soprattutto un anarchico. Dalle letture approfondite di Stirner, in età giovanile, aveva apprezzato l’anarco-individualismo e dai dischi in francese di Brassens, regalatigli dal padre, aveva imparato a lasciar correre i ladri di mele. “Brassens, per quanto mi riguarda, è stato soprattutto, prima ancora che un maestro d’espressione, un maestro di pensiero. Io non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto. Sono invece sicurissimo del fatto che, se non avessi ascoltato le canzoni di Brassens, non avrei vissuto come ho vissuto”. L’animo anarchico di De André non è dominato dalla passione politica, ma dalla passione per l’uomo, per il prossimo. Fin da piccolo si manifesta la sua straordinaria umanità quando, con i ragazzi di via Piave, mentre giocava a inventarsi nuove parolacce o a tirare sassi contro le altre bande, aveva creato un ricovero per i gatti randagi e abbandonati del quartiere. Li curavano e li sfamavano, saccheggiando le cucine delle loro madri, con ogni genere di viveri. La bella iniziativa terminò quando Fabrizio si rese conto che, man mano, lui e i suoi compagni erano sempre più interessati al numero dei randagi assistiti, piuttosto che alle loro condizioni: si era addirittura arrivati a “sequestrare” i gatti delle altre case di Genova solo per poter vantare un gruppo più nutrito, un numero più alto. Fin da giovane Fabrizio ha saputo riconoscere ed evitare il germe dell’accumulo. La sua attitudine alla solidarietà lo accompagna in tutta la sua vita, quando scambia la propria maglia con quella di un suo ammiratore a pochi minuti prima di un concerto; quando considera se stesso come “la minoranza di uno”; quando perdona i suoi sequestratori che per quattro mesi lo avevano costretto in una stanza di tre metri per tre, il suo Hotel Supramonte. Ma dietro il cantautore pacato e solenne, c’è anche Fabrizio con le sue debolezze, le sue passioni, i suoi vizi. C’è Fabrizio che ammette di non essere un buon padre per Cristiano e che recupererà il rapporto con lui solo in età adulta. C’è Fabrizio che, appena finito di comporre Verranno a chiederti del nostro amore, in piena notte sveglia Puny per dedicargliela, con il piccolo Cristiano che, destato dalla chitarra, spia incuriosito dall’altra stanza. C’è Fabrizio che la domenica si accende di passione per la sua squadra di calcio, il Genoa. C’è Fabrizio che, se il vizio dell’alcool lo abbandonerà per una promessa fatta al padre in punto di morte, quello del fumo se lo terrà ben stretto fino alla fine. Le sigarette, che hanno scandito i ritmi della sua vita fin da giovane, lo accompagneranno sino agli ultimi giorni. Lo accompagnano persino adesso: in via del Campo, nel negozio di Gianni Tassio, c’è un posacenere sproporzionato colmo di sigarette ancora intatte che i passanti lasciano lì per lui, come a dire: “Io te la offro, te la fumi dopo...”. Il fumo gli impedirà anche di fare ritorno nella sua “Zena”, che lui amava pensare lasciata nella naftalina, come si fa con i vestiti fuori stagione, per conservarli. Gli impedirà questo viaggio perché gliene regalerà uno più difficile, più malinconico. Dove sarà diretto potrà guardare tutti dall’alto, come se fosse sopra il Bigo. Ma da lì sopra non si torna giù dopo dieci minuti. Neanche dopo undici anni.
di Denis Bachetti
Il profilo umano e professionale di Max Linder - Gabriel-Maximilian Leauville - si snoda attraverso una serie di piccoli curiosi aneddoti, gli stessi per cui val la pena tutto. O quasi. Conobbi questo straordinario artista in un periodo in cui, da studente, ero molto attratto dal cinema e, a seguito d’illuminanti lezioni, volli un giorno saperne di più partendo dal profilo storico di questa roteante forma d’arte. Acquistai così un libro che mi avrebbe fornito le necessarie informazioni. Era un libro sobrio, lineare. A pagina 39 lessi: “Quando Andrè Deed abbandona la Pathé nel 1905, un altro comico gli succede: Max Linder. Con lui si passa dalla gag alla psicologia e alla comicità di situazione”. Ultimata la lettura, decisi di percorrere a ritroso la vita di questo comico, che da quel giorno mi s’impresse addosso come l’immagine del violinista di Chagall che danza tra le case; ad oggi, quando penso a Max Linder, vedo un ometto col cilindro che, con un frac verde ossido, bastone alla mano, tutto pieno di cenere e detriti, sogghigna accigliato intonandomi la canzone del buio e della miseria umana. Tale deprimente visione può scaturire da un attore comico quale Linder era, se non s’ignora quanto segue: Max Linder esisteva quando La Pathé e la Gaumont erano le case francesi di produzione e diffusione di prodotti cinematografici più grandi e operose del mondo.
In America a quel tempo (appena cento anni fa o poco più) il cinema non c’era ancora e i pesci piccoli (le case indipendenti), incalzate dal monopolio della casa Edison (il pesce grande), dovevano ancora trovar riparo in quel posto conosciuto oggi da voi e da tutti come il luogo delle meraviglie e delle macchine decappotabili: Hollywood, California. Linder diede prova presso la Pathé di essere tutto sommato un artista raffinato: di formazione teatrale, egli si ritrovava a rimpiazzare il suo collega Andrè Deed e a dover fornire allo spettatore una fresca, fulvida alternativa alla comicità di tradizione circense delle torte in faccia e delle gag esilaranti. A ogni frase scritta, riapro lo stesso libro di allora alle stesse pagine e l’omino verde seguita col suo ballo macabro: sarà forse il trasporto del momento, ma in tutta franchezza, al contrario di quanto mi accade con quasi tutti i bravi della storia con la loro onta di fiducia ed intoccabilità, non ricordo Linder se non attraverso l’indelebile, miserabile immagine dell’ uomo scarnito, col cilindro di traverso, aberrante e malinconico. Sospeso in aria come un dardo. Esibito al pubblico esanime e sghembo, egli è l’emblema un po’ retrò del primo cinema: il cinema muto. Max sembra funzionare, egli interpreta un signorotto austero coinvolto, suo malgrado, in situazioni comiche; le sue pellicole sono un successo e lo proiettano in pochi anni in un palcoscenico alato che fa spola tra l’Europa e l’America. Mentre il Titanic affondava implacabile, Max sorvolava il mondo dall’alto della sua enorme popolarità. Di questi anni le pellicole Vicino e Vicina (1910), Max e le nozze (1911), Max e la china (1911), Max convalescente (1911). In Francia ha carta bianca in fatto di scelta dei soggetti e delle regie dei suoi film, l’America lo aspetta e tutto sembra andare per il verso giusto proprio quando la guerra, letale guastafeste, lo strappa al cinema per due lunghi anni (1912-1914), per restituirlo alla gente malato, frustrato, depresso. Le schegge delle granate e i gas asfissianti inalati durante le campagne belliche compromettono seriamente la sua salute e d’ora in poi Max sentirà in corpo un divario incolmabile tra sé e il personaggio della gente. L’eroe del cinema muto cade soggiogato da un doppio scherzo del destino: lui, 400 film con la Pathé e cento ancora da affrontare, il suo cilindro e quell’aria signorile, le gag indimenticabili dei tempi buoni nel torbido walzer di una malattia irrefrenabile, lacerante, sacrilega. Il palcoscenico scricchiola, il proscenio cede sotto i suoi piedi e Max Linder muta in Charlie Chaplin. Il cambio di cappello ha luogo: quando torna dal fronte Max Linder trova il nuovo eroe che gli ha rubato la scena, che molto da lui ha imparato e che, ben rodato, saprà dar vita ad una folgorante carriera, la stessa forse che Max non avrebbe disdegnato. Storicamente la prima pellicola con audio sincronizzato alla cui proiezione a pagamento si poté assistere ebbe luogo in America nel 1926; Linder, sotto contratto con la Essenay a Hollywood, firmava sei lungometraggi, alcuni dei quali di grande rilevanza: Sette anni nei guai, 1921; Vent’anni prima, 1922; Siate mia moglie, 1922; prima della definitiva resa, il prodromo del nuovo mondo che lo falciò come la malattia: l’avvento del cinema sonoro. Max Linder morì a Parigi in circostanze poco chiare. Lo trovarono esanime vicino al corpo della moglie diciassettenne, della cui morte, dicono, fu responsabile. Era la notte di Halloween e indossavano entrambi un vestito scarlatto, ma questo ha tutta l’aria di un finale costruito. Un finale carino, da cinema di oggi. Credo non lo meritasse.
di Emidio De Berardinis
L’uomo è in costante lotta con l’oblio. L’uomo è il tempo: è tempo presente nel quale convivono passato e futuro. È soggettività frammentaria e frammentata. È una frattura, una dissonanza tra sé e soggetto parlante.
Eija-Liisa Athila, regista del tempo, video artista, ferma nel presente gli echi del passato e mette in scena spazi e tempi compresenti. Così l’uomo: intreccio di coscienze, che siano ricordi, fantasie e percezioni, un flusso armonioso di un puzzle potenzialmente completo.
La vita che l’artista mette in scena nelle sue opere è una lotta contro l’oblio, contro quel passato tendente a slittare via. Le coscienze che lottano, sono frammenti sparpagliati di un’esistenza difficile da riordinare e la lotta genera frenesia e impazienza: i suoi personaggi sono sempre nervosi e veloci nel pensare, nel parlare, nell’agire. Un’azione speciale, come quella dell’incidente in Today (1996/1997) mette in relazione tre persone che hanno assistito all’evento e che prendono spunto da quest’ultimo per riflessioni che rimettono in gioco il proprio passato esorcizzandolo: la famiglia, le relazioni, la morte. Nello stesso frammento, il presente: “l’immagine cristallo” di Deleuze, secondo il quale, il passato non si forma prima del presente ma con questo, il tempo è sdoppiato in due azioni, la prima si protrae in avanti, l’altra indietro. Le installazioni a più schermi sono la chiave per mostrare le diversità temporali e spaziali e lo sono per mettere in scena l’alterità umana. Immaginate di vedere un’anziana portare la spesa fuori in strada, poi rielaborate la scena.
Potrete immaginare l’anziana in primo piano, di lato, in soggettiva, e questi punti di vista possono coesistere su diversi schermi nello stesso spazio. Così, immaginate un uomo, nel presente, in cui convivono passato e aspettative future, che guarda fuori dalla finestra il mercato e nello stesso tempo pensa a un vecchio sogno o ricorda. Tutte queste possibilità di coscienze e di tempi e di spazi, un labirinto tenuto saldo dall’io, possono non coesistere più nella stessa struttura e scivolare l’una sull’altra generando follia. È il caso di Anne, Aki e God (1998), Aki, si ammala di schizofrenia, si chiude in casa e comincia a vedere un mondo con regole, suoni e esistenze proprie. Fantasia e realtà scorrono parallele sullo stesso piano e Aki immagina e ottiene la fidanzata ideale. Athila dispiega questi mondi in cinque monitor e due schermi, che proiettano velocemente la dissociazione mentale. Vengono proiettate immagini reali, come i provini per la parte della fidanzata di Aki, e finzioni, come il mondo immaginato e Dio. Lo stesso Aki, è mostrato con diverse facce e diverse voci. Così in Okay (1993), una donna parla della sua relazione sessuale camminando nervosamente sola nella sua stanza, ma le voci che udiamo sono molteplici, sia maschili che femminili. Oppure in Me/We (1993) in cui un’intera famiglia muove le labbra e l’unica voce presente è quella delle riflessioni del padre in silenzio. Il soggetto è il tempo che si cristallizza in svariati modi, senza mai essere lo stesso: una polifonia temporale e un soggetto straniato di alterità, in cui il sé non sempre coincide con il corpo ospitante.
di Stefano Tassoni
Completati gli studi in Ucraina, nella sua patria natale, l’autore partì alla volta di Pietroburgo in cerca d’un impiego. Ma gli guastò l’arrivo nella capitale un forte raffreddore, ancor più fastidioso perché, avendo la punta del naso gelata, non la sentiva. Così, subito trecentocinquanta rubli se ne andarono in vestiti nuovi: tale è almeno la cifra riportata in una delle sue rispettose lettere alla madre. Tuttavia, stando a una di quelle leggende che in anni successivi Gogol’ seppe intessere con tanta abilità intorno al proprio passato, si recò in primissimo luogo a fare una visita a Puškin, del quale era fanatico ammiratore, benché non conoscesse di persona il grande poeta. Lo trovò però ancora a letto e non si poteva parlargli. «Dio mio, » disse, pieno di reverenza e di compatimento «deve aver lavorato tutta la notte, vero?» «Lavorato!» sbuffò il cameriere del maestro «Macché! Giocato a carte! »
Aveva portato con sé a Pietroburgo alcune poesie, tra le quali Hanz (sic) Küchelgarten: il poemetto tratta d’uno studente tedesco, un po’ byroniano, e contiene immagini ispirate da un eccesso di letture “sturmunddranghiane” e cimiteriali. In più d’un’occasione si ha l’impressione che il vivace umore ucraino del giovane poeta prenda il sopravvento sul patetismo romantico, eppure fu un completo disastro. Scritta nel 1827 e pubblicata nel 1829 fu letteralmente stroncata da una recensione, breve ma micidiale, sul «Telegrafo di Mosca».
Gogol’ e il suo fidato domestico si precipitarono dai librai, comperarono tutte le copie e le bruciarono. La carriera letteraria dello scrittore cominciò quindi come doveva finire una ventina d’anni dopo, con un rogo catartico imposto dalle sue crisi ascetico-religiose e iniziate in seguito alla frequentazione di un fanatico prete predicatore, tale padre Matvèj Konstantìnovskij, presentatogli dal conte Aleksàndr Petròvič Tolstoj, altra sua vittima.
Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1852 facendosi nuovamente aiutare dal suo servitore, prese un pacco di quaderni legati da un nastro e lo gettò nella stufa ardente. Il servitore, secondo il racconto lasciatoci dal fedele amico Pogodin, «comprendendo di che si trattava, cadde in ginocchio e lo implorò di non continuare. “Non è affar tuo”disse il maestro“è meglio pregare.” Il ragazzo prese a singhiozzare e continuò a implorare. Gogol’ notò che il fuoco si stava spegnendo e che solo gli angoli dei fogli erano carbonizzati. Allora riprese il pacco, slegò il nastro, dispose i fogli in modo da facilitare la combustione, accese di nuovo la candela e si sedette su una sedia di fronte al fuoco, aspettando che i fogli si consumassero. Quando tutto finì, tornò nella sua stanza, baciò il ragazzo, si sdraiò sul letto e scoppiò in lacrime». Secondo un’altra testimonianza, il mattino seguente chiamò il conte e gli disse che il diavolo gli aveva teso un inganno inducendolo a bruciare il manoscritto delle Anime morte invece di certe carte inutili. In ogni caso, dopo questo episodio lo scrittore cadde in uno stato di cupa malinconia e, giunto ormai a uno stato di debolezza irreversibile a causa dei prolungati digiuni con cui voleva mortificarsi, morì il 21 febbraio.
di Denis Bachetti
Dai carrugi di Genova al pontino di Livorno, Ciampi, -Piero L'ITALIANO come lo conoscevano a Parigi- risale a quel gruppo di cantautori acquatici che sembrano aver attinto all’aria e al dolce-salmastro degli acquitrini delle case portuali la loro linfa poetica. Al pari di De André, e più sotto o più sopra come oggi si suol classificare il talento di ciascuno, Ciampi lega il peso alla caviglia e disarciona l’ormeggio scalando volutamente la classifica dei più bravi per ascoltarli da laggiù, dove più chiara giunge la loro voce. Piero Ciampi, per chi non lo conoscesse ancora, è un cantautore livornese nato nel ‘34 e vissuto nella speranza di diventar famoso. Gli riuscì dopo la morte sopraggiunta nell’‘80, perché nel frattempo gli amici discografici gli erano tornati un po’ antipatici a causa della loro stridente incompatibilità ad un talento naturale, dotto e compiacente cosi poco da vedersi rosicchiare l’anima e la carriera da quel mostro oscuro dell’amore che egli si illuse di scovare nelle donne che sciattamente frequentò e maldisperse e che altrettanto disperatamente rimpianse nelle sue canzoni.
E’ un cantautore che ha coltivato suo malgrado un rapporto singolare con la solitudine ed il malessere, solitudine che egli dichiarò di conoscere di persona irridendo ed irridendosi ogni qualvolta la melodia ed il canto gli permettessero di scansarla. Vedete, credo che pochi possano permettersi di scrivere di un bohemien senza peccare di retorica gonfiando a dismisura l’etichetta ormai abusata degli scapigliati e dei maledetti e nascondendo ad ogni parola scritta il ribrezzo e la paura che questi susciterebbero se, come per incanto, ci trovassimo piantati sulla moquette unta delle loro stamberghe; ma nel caso di Ciampi il ribrezzo è un ombrello roteante tra arie di satira e lussuria, le sue vicende macchie di goliardia sulle braghe alla rovescia, i suoi rutti gemme di sottosuolo, tutto cosi armonicamente avvolto in fatti e vicende incresciosi ed avulsi alla morale da non trovare più le parole per gonfiare un po’ la sua figura. E’ un cantautore da ascoltare per capire come ci si sente quando ai favori degli amici si sostituisce l’elemosina e l’artista fiero fissa quel luccichio per terra sperando sia una cento lire. Piero Ciampi, insoddisfatto del comparto dell’imprenditoria musicale italiana, e provato dall’insuccesso, viaggiò a lungo e visse disfatte di egual proporzione in Inghilterra, Irlanda, Francia (dicono sia stato avvistato anche in Svezia e in Giappone) concedendosi al suo rientro lo sberleffo di rifiutare la fortuna quando giunse alla sua porta, negandosi ad inviti che avrebbero potuto cambiare la sua vita. Ormai era passato al di là, tra coloro che si fanno caldo stando vicini e ai quali non importa il “cosa sarebbe potuto succedere se…”. Ciampi lo davano più volte al giorno le emittenti radiofoniche istriane e lo ascoltavano in molti, alcuni gli pagavano la cena, altri volevano interpretare le sue canzoni proprio quando egli si convinceva sempre più che infondo i soldi e la fama non facessero l’uomo; un po’ come accade oggi alla grande poetessa Alda Merini che esorto il mio amico Luca a contattare ed intervistare prima che l’acqua del naviglio milanese ce la porti via*. Questo disgraziato 2009 è stato l’anno della morte di Fernanda Pivano come l’80 fu quello di Ciampi (mi si conceda l’improbabile paragone), l’una traduttrice italiana dei grandi scrittori americani, l’altro un cantante marginale, insoluto; entrambi monoliti fossilizzati che il tempo ricorda negando a volte quello che fu camminare stretti verso il porto sottobraccio e celermente nel caso della Nanda e tronfi d’alcool nottetempo a mo’ di Piero Ciampi che dalla sua Livorno vedeva Genova defilata, laggiù dove le navi scompaiono in quel buio acquatico ove si spengono le manie dell’uomo e l’economia è una nassa riversa, divelta da un’elica. Io non ho incontrato Ciampi ma credo lo riconoscerei se mi si parasse dinnanzi un tipo che, sigaretta alla bocca, aspettava il mio arrivo da un angolo di strada scrutandomi come fa chi, prima di farsi offrir da bere, decide già che non hai stoffa quanto lui. Le sue frasi celebri: nessuna. Tra le sue massime: “la solitudine va capita solo se si è in due oppure serve qualcuno che te la spieghi” , “l’amore e’ il marito della vita” , “ho scritto queste 12 canzoni per delle donne che ho amato ed ho perduto. Queste 12 canzoni sono i bastioni del mio cuore. Le mie donne ora non ci sono più. Rimangono solo 12 canzoni”. Alcune frasi cantate: “io ti compro una pelliccia di leone con l’innesto di una tigre” , “il denaro per te è un giornale di ieri”, “il vino contro il petrolio grande vittoria, grande vittoria, grandissima vittoria!”, “sono secoli che ti amo, cinquemila anni” , “sono vestito non so come, i pantaloni alla rovescia la gamba destra non funziona, chi mi incontra scappa via…”. Spero di avervi resi curiosi, di sicuro sento di avervi fatto un favore, conoscere Piero Ciampi e la sua musica vale molto di più di un soldo dato per cambiar canale, lui un soldo l’avrebbe speso bene.
di Eclipse.154
Dopo il suo esordio surrealista (Un chien andalou e L’age d’or), Luis Buñuel si trasferisce a Hollywood, ricoprendo il ruolo di direttore di doppiaggio, e dopo la guerra torna in Messico, dove riprende il suo lavoro di regista. In quasi tutti i venti film che realizzò fra il 1946 e il 1965, troviamo gusto dissacratorio, ironia e forte attacco ai valori dominanti della società borghese. Segni, questi, che marcano profondamente il suo cinema. Già nel 1950 con I figli della violenza (Los olvidados) il suo nome ritorna a circolare in Europa, attraverso un film sull'infanzia abbandonata di Città del Messico, che qualcuno lesse come un'opera neorealista ma che in realtà aveva ben poco a che fare con il cinema italiano del secondo dopoguerra. Non solo per la forte dimensione onirica – tipicamente personale - ma anche per la sua cinica e dura rappresentazione di un'infanzia che non può fare altro che reagire alla violenza del mondo che la circonda con altrettanta brutalità, senza speranza né vittimismo. Altre opere importanti del periodo messicano sono Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955), film sull'atto mancato e sulle contraddizioni di un'educazione borghese che spinge l'individuo ad agire come un criminale; Nazarin (1957), sul fallimento delle buone intenzioni e sull'inadeguatezza della religione cattolica, una volta che questa si confronta con la realtà; e L'angelo sterminatore (El àngel exterminador, 1962), dissacrante ritratto di un gruppo di borghesi che si ritrova imprigionato, senza alcuna logica, nella sala delle feste di un elegante palazzo e le cui convenzioni di rispettabilità vengono progressivamente meno.
Prima de L' angelo sterminatore, Buñuel si era ripresentato in Europa con Viridiana (1961) girato nella Spagna di Franco e premiato al Festival di Cannes. È il film che rilancia il regista nel panorama del cinema internazionale d'autore. Il soggetto riprende e grandi linee quello di Nazarin. Si tratta di una sorta di imitatio Christi destinata al fallimento. Viridiana è una giovane novizia che, prima di prendere i voti, va a far visita allo zio Don Jaime, suo benefattore. Alla vista della donna, l'uomo se ne innamora - anche a causa della sua somiglianza con la moglie morta nel giorno delle nozze, in un tipico esempio di atto mancato alla Buñuel - e arriva quasi ad abusare di lei. Quando Viridiana riparte per il convento, Don Jaime si toglie la vita. La giovane donna decide allora di trasformare la ricca casa dello zio in una comunità di reietti. I mendicanti che raccoglie non ne vogliono però sapere della parola di Dio e nel corso di una festa, che si trasforma in un'orgia, daranno sfogo alla loro violenza anche contro la benefattrice. In questo drammatico apologo si ritrova tutto il cinismo di Buñuel e, in particolare, il tema a lui caro dell'inefficacia della carità e della virtù, che non solo non producono alcun effetto positivo, ma finiscono col generare il male. Il meccanismo filmico funge a sostegno di una storia che disegna, fra le altre cose, il passaggio da una decadente aristocrazia della terra, rappresentata da Don Jaime, a una più razionale borghesia, incarnata dal figlio Jorge, che cerca di trasformare la proprietà in una vera e propria azienda agricola, e al cui pratico cinismo finirà per conformarsi anche la stessa Viridiana.
Feticismo e desiderio sessuale sono altri tipici motivi bunueliani presenti nel film come testimoniano, fra le tante, la scena in cui Don Jaime tenta di calzare le scarpine di raso della moglie scomparsa e quella in cui osserva a lungo le gambe scoperte di Viridiana sonnambula. Il mondo di Don Jaime e quello dei mendicanti, privi della benché minima riconoscenza verso la loro benefattrice, non sono affatto contrapposti fra loro, se non sul piano della forma, e la brutale orgia dei secondi non è che l'espressione più caricata degli stessi desideri e pulsioni che muovono l'anziano proprietario terriero. Viridiana è, sul piano della sconsacrazione dell'iconografia cattolica, uno dei film estremi di Buñuel, come testimonia, su tutto, quel tipico sberleffo surrealista rappresentato dall'inquadratura dei mendicanti a tavola costruita a perfetta imitazione de L'ultima cena di Leonardo, piano che precede di poco lo scatenarsi dell'orgia accompagnata dalla musica dell'Alleluja di Haendel.
Si apre così l'ultimo periodo del cinema dello spagnolo contrassegnato da una maggior compostezza formale, per quanto sempre estraneo alle regole e radicalmente alieno ad ogni estetismo. Un cinema caratterizzato da una mise en scene volutamente semplice priva di fronzoli, fatta di inquadrature relativamente lunghe e di movimenti di macchina a seguire quelli dei personaggi. Nei film europei del regista - che si avvale della costante collaborazione dello sceneggiatore Jean-Claude Carrière - ritroviamo la sua matrice surrealista, lo spirito anarchico, la violenza antiborghese e anticattolica, l'attenzione a temi d'ordine psicanalitico - come quelli dell'atto mancato, del desiderio e della sessualità in tutte le sue forme -, la dialettica di Eros e Thanatos e quella di realtà e fantasia. Dialettica, quest'ultima, che incide radicalmente sulla struttura narrativa di quest'insieme di film che privilegia il ricorso a sequenze oniriche, - talvolta svelateci come tali solo al momento dell'epilogo - fatti irrazionali, misteri, sviluppi apparentemente casuali, libere associazioni, ripetizioni, digressioni, racconti corali e incastri d'episodi. A seguire Viridiana e L'angelo sterminatore arrivano così alcuni dei capolavori del regista come Bella di giorno (Belle de jour, 1967), ritratto di una borghese apparentemente frigida, che sfoga prostituendosi le proprie pulsioni erotiche, Tristana (1970), storia di una donna che da vittima si trasforma in carnefice e uccide il suo vecchio amante, Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie,1972) e Il fantasma della libertà (Le fantòme de la liberté, 1974), film dalla dimensione corale che portano alla dissoluzione del concetto di personaggio e all'ironica e claustrofobica rappresentazione della classe borghese come di una realtà ridotta all'impotenza e dove la nozione stessa di libertà ha ormai perso ogni senso. Sono film che intrecciano il mondo con la dimensione onirica e fantasmatica creando fascino e grande ambiguità.
di Stefano Tassoni
Alla generazione di Thomas Mann, nato a Lubecca il 6 giugno 1875, appartengono altri scrittori di lingua tedesca destinati alla grandezza e alla fama: Hugo von Hofmannsthal, Rainer Maria Rilke, Hermann Hesse, Robert Musil, Franz Kafka; ma le coordinate famigliari ne fanno una figura inequivocabile. Nella figura del padre, senatore e console d’Olanda nonché commerciante in granaglie, si concreta simbolicamente la vocazione all’ordine, alla norma, all’operosità, al dovere, nella quale si stipano gli elementi caratteriali della rampante tradizione borghese. Essi vengono fronteggiati dai valori della trasgressione, della libertà capricciosa e dell’estro indisciplinato incarnati specularmente dalla madre, nata a Rio de Janeiro da un piantatore tedesco e da una creola portoghese. Componenti così contraddittorie lo accompagnano per tutta la sua frastornata giovinezza in pericoloso equilibrio tra stimoli contrastanti: educazione alto-borghese e intrattenimento ammiccante-seducente quale può essere l’avviamento alla musica e al teatro.
Dopo le prime esperienze letterarie su rivista, a ventidue anni riceve dall’editore tedesco Samuel Fischer la commissione di un romanzo: I Buddenbrooks, che nel 1929 (quasi trent’anni dopo!) gli varranno il premio Nobel. Da lì in poi la figura dello scrittore acquista un ruolo pubblico facendo propria l’ideologia progressista e divenendo una sorta di figura istituzionale, il simbolo dell’opposizione dell’arte all’avvento del nazismo in Germania e del fascismo in Italia.
Ma facciamo un passo indietro allontanandoci dal personaggio e riaccostandoci all’autore. Dopo il primo grande (in tutti i sensi) romanzo, la strada da fare si rivela in discesa e così egli sfoga la propria creatività nel suo periodo migliore. Iniziano ad uscire cadenzati volumi di novelle e racconti brevi, veri e propri capolavori della letteratura tedesca come La morte a Venezia (1911), per limitarci al più famoso. Eppure in nessun altro racconto l’autore esprime la propria poetica in maniera così chiara come nel Tonio Kröger (1903). In questo racconto di un’ottantina di pagine viene descritta la crescita intellettuale dell’artista: dalla prima età scolastica, all’accettazione di se stesso Tonio Kröger vive il lento e tumultuoso percorso per trovare la propria classificazione. Quasi a riecheggiare la vita dell’autore, anche il protagonista ha padre nordico e madre di origini esotiche, ed è anch’esso scrittore.
Il libro è diviso in nove capitoli indipendenti: vengono scelti nove episodi caratterizzanti in cui man mano si delineano i tratti dell’artista come quelli di un “borghese sviato” che domina consapevolmente le fredde estasi del suo sistema nervoso e nello stesso tempo osserva di nascosto, con infinito struggimento, la vita dei felici, degli ”occhiazzurrati” che non hanno conosciuto la malattia dell’arte. Come avrete capito si tratta di un tema enorme e il fascino di questo racconto consiste proprio nell’esser riusciti a spremerlo condensandolo in poche paginette dove ogni frase colpisce, stordisce e stupisce per la propria calibrata dose di parole miscelate.
Libro fondamentale, da leggere soprattutto se si dirige una rivista artistico-culturale!
di Marco Sigismondi
Il mondo lo stava aspettando e lui lo sapeva, occhi e orecchie puntate su di lui. Vienna, 1824. Un’ultima sinfonia. Il mondo aspetta, ascolta e promette: immortalità.
Beethoven diresse la prima della sinfonia che sarebbe rimasta nel cuore di tutti, amanti della musica e non. Un vecchio schiacciato dalla vita e dalla sua stessa sordità allora totale: un genio. Recentemente si sta tendendo un po’ a screditare l’opinione collettiva della Nona come capolavoro, anche alla luce del debutto cinematografico di Alessandro Baricco con Lezione Ventuno, film che considera l’opera come una tra le più sopravvalutate della storia. Discernere la verità è cosa piuttosto complicata ma in questo arduo compito ci viene fortunatamente in aiuto Maurizio Gabrieli, docente di Composizione presso il conservatorio Santa Cecilia di Roma. Mi spiega la difficoltà che ebbero i compositori post-Beethoveniani di rapportarsi con la sua opera e il senso di incapacità che avvertirono nel proseguire la scrittura di un lavoro sinfonico qualunque dopo l'ascolto e l'analisi della Nona Sinfonia. Un’opera maestosa, complessa, lucida e travolgente che chiuse il sipario su un artista ritenuto ai suoi tempi “troppo originale” e quindi spesso incompreso. Può sembrare che i tempi ancora non siano maturi per comprenderlo pienamente, o forse è un problema di cultura. Ed ancora una volta, il professor Gabrieli, mi spiega: “mi piacerebbe citarle un ultimo libro: Le sorgenti della musica di Curt Sachs (Bollati Boringhieri, 1979). In questo testo, l'eminente etnomusicologo cita un incontro con un musicista albanese al quale viene fatta ascoltare la musica di Beethoven. Il suo commento è: "Lepo ali presprosto", che dovrebbe voler dire "bello, ma troppo semplice". Cito questo esempio per dire che i valori della musica non sono assoluti ma assolutamente soggettivi, in quanto si adattano alla sensibilità ed alla cultura di chi ascolta e può capitare che quello che per una società (o per un singolo individuo) sia un capolavoro, per un'altra sia "troppo semplice" oppure "incomprensibile".
di Manuela Valleriani
È stata inaugurata lo scorso 6 marzo a Roma la mostra Giotto e il Trecento. Il più Sovrano Maestro stato in dipintura. Se a distanza di quasi 700 anni si sente ancora il bisogno di rendere omaggio al celebre artista toscano, è perché egli ha attuato una vera rivoluzione non solo nell’arte, ma in tutta la cultura del Trecento. Giotto è stato infatti colui che ha ricusato la tradizione bizantina (greca), ricollegandosi invece ad una fonte ‘latina’, basata sui concetti di ‘natura’ e ‘storia’.
Al di là delle singole opere conservate nei vari musei italiani ed esteri, restano due importanti cicli pittorici a testimoniare la grandezza e la capacità inventiva di Giotto: Le storie di San Francesco dipinte ad Assisi e gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova.
Se la presenza di Giotto ad Assisi verso il 1290 è tuttora dibattuta, la critica generalmente gli ascrive le Storie di San Francesco (post 1296) nella navata della basilica superiore. Rispetto all’analogo ciclo della basilica inferiore, la serie giottesca (che, nella sua struttura a riquadri, sembra anticipare la moderna illustrazione a fumetti) non segue un criterio biografico o agiografico. Il santo è descritto da un punto di vista morale: i suoi gesti, prima ancora che miracolosi, sono fatti ‘storici’, cioè attuano un disegno divino. Nel compiersi degli eventi è allora rivelata tutta la realtà, e lo spazio – costruito come un cubo - assume nella raffigurazione “un valore costante, assoluto, universale” (G. C. Argan).
A Padova le Storie della Vergine e di Cristo (1303-05) ricoprono le pareti di un vano rettangolare, coperto a botte. Esse sono nude, prive di membrature architettoniche: la definizione dello spazio è dunque interamente affidata alla pittura. Le figurazioni sono incorniciate da un fregio piatto, monocromo, con piccoli medaglioni colorati. Il Giudizio Universale sulla controfacciata, le allegorie di Vizi e Virtù completano un quadro - nell’insieme unitario - che narra la storia dell’umanità, cui la presenza reale del Cristo pone l’alternativa morale del bene e del male. Anche qui Giotto racconta il divino e l’umano, trasforma il pathos bizantino in dramma composto, la fissità iconica in imponenza monumentale. La ‘misura’ che si avverte nelle sue opere è quella morale: il sentimento non è mai esasperato, ma si traduce in gesto, dominato da un’armonia di colori e una purezza formale che rendono la sua pittura ancora oggi ‘moderna’, paragonabile soltanto ai capolavori dell’arte classica.
di Emidio De Berardinis
…L’arte di oggi guarda intorno a sé. L’artista propone ciò che vede e rielabora quelle che sono le proprie chiavi di lettura del mondo, dell’esistenza. Esemplare, quasi maniacale, a tal proposito è la vita e l’arte di Nan Goldin. Fotografa e scrittrice, ha trattato della vita quotidiana, dall’amore, all’amicizia, dalla metà degli anni ’70 ad oggi, guardandosi semplicemente intorno. Le sue straordinarie istantanee ritraggono parenti, amici, ex fidanzati, se stessa, un “album di famiglia”, come parte di un’esistenza comune. Dove non arrivano le foto, i suoi taccuini, rigorosamente uguali, narrano vicende, parole, legami e malattia: un diario di vita per fermare ogni cosa che il cervello non riesce. La macchina fotografica come mezzo per fissare ciò che vede l’occhio nell’arco della propria esperienza sulla terra.
Mi trovo nella piazza della torre a Stoccolma, davanti a me l’imponente Kultur Huset, tempio della cultura internazionale della capitale svedese, alzo gli occhi e imponente Nan Goldin si riflette nei miei occhi e dimentico ogni programma della giornata. Sconto universitario all’ingresso e subito le enormi strazianti fotografie invadono ogni spazio, a urlare disperazione, dipendenza, amore misto a violenza. Shock. The Ballad of Sexual Dependency. 700 scatti (nella mostra una cinquantina esposte e tutte e 700 in una presentazione proiettata con ballate rock scelte dall’artista) propongono la quotidianità, momenti intimi, sesso e preliminari, solitudine, depressione, vestirsi, spogliarsi e mangiare: un film sugli usi e costumi dei sobborghi in ginocchio dal dilagante virus d’ immunodeficienza.
La relazione dell’artista con Brian, anche il momento appena dopo l’atto sessuale, quando è chiara la mancanza di comunicazione dei due, ripresi a preferire orizzonti opposti alle effusioni dovute (Nan and Brian in bed). Un rapporto come distanza ed estraniazione, impossibilità di comunicazione, segnato da forti crisi in Nan One Month after Being Battered quando il viso dell’artista è saturo di lividi da pestaggio. The Cookie Portfolio. La straziante storia, in 15 ritratti, della vita di Cookie, amico della Goldin, che attraversa l’amore, il matrimonio, la malattia e morte del compagno, e la sua degenerazione a causa dell’AIDS. Le foto della Goldin sono gli occhi dell’americano della porta accanto che negli anni ‘80 e ‘90 vive, cresce, affronta diversi problemi, stringe amicizie, si innamora, si ammala, vive le perdite, beve, si droga, si rialza etc. fino alla conclusione del proprio percorso. Il desiderio che spinge l’artista a registrare e raccontare tutto ciò le accade intorno, è preservare la memoria di qualsiasi cosa abbia a che fare con la propria esistenza nel mondo dall’azione dissolvente del tempo, dal veloce susseguirsi di vite e immagini nella città caotica di oggi. Foto fuori fuoco, istanti sfuggenti impressi nella pellicola, sono l’altro da se dell’oggetto che viene fuori e ci parla, sono i sentimenti che bruciano i contorni di ciò che raccontano, sono pellicola sviluppata mentre va a fuoco per la benzina emotiva che l’alimenta. Nan è una delle maggiori artiste della fotografia odierna, ha documentato la solitudine dell’individuo, la vita e le debolezze, di un’intera generazione, anno per anno, ha descritto in immagini l’allarme AIDS, espone la sua storia, regala ciò che vedono i suoi occhi e odono le sue orecchie, attraversa l’urlo che irrita e violenta lo sguardo indifferente del passante qualunque…
di Luca Torzolini
Sperimentazione, si chiama. È l'anima dell'arte.
Zbig Rybdzinski, fuori da ogni dubbio è uno dei più grandi sperimentarori nell’uso del linguaggio audiovisivo. D’altronde è necessario in ogni campo l’utilizzo di strumentazioni sempre più moderne, ma la perizia di questo regista consiste nell’uso avanguardistico dello sviluppo tecnologico. Frequente nei suoi lavori l’esposizione di associazioni mentali che non guardano al classicismo, ma cercano una dialettica innovativa, seguendo un’evoluzione dei concetti e dello stile.
Nato in Polonia, a Lodz, nel 1949, frequenta l’Accademia di Cinematografia e realizza i suoi primi lavori, Kwadrat e Take five. Ma solo nel 1980, quando vince il premio Oscar per il miglior cortometraggio con Tango, ottiene fama e notorietà. Nonostante questo non si abbandona mai ad una facile realizzazione professionale in una cinematografia di tipo commerciale, dimostrando una vena artistica superiore alle infime possibilità dei comuni esseri umani. Successivamente Rybczynski si trasferisce negli Stati Uniti, dove fonda la sua casa di produzione, Zbig Vision, realizzando per primo video in alta definizione tra cui Steps, dove intreccia la mitica sequenza della scalinata de La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzeštejn con materiale girato dallo lui stesso. In Nova Ksiazka, quello che può essere definito il cubo di rubik dei cortometraggi, suddivide lo schermo in nove piccole inquadrature collegate direttamente da un’unica azione che si sviluppa in modo assolutamente logico. Ha lavorato, tra l'altro, nel campo del videoclip per numerosi gruppi e rockstar, tra I quali Mick Jagger, Pet Shop Boys, Simple Minds e Art of Noise, vincitori di alcuni MTV awards. Da citare Imagine (1987) - sul celebre brano di John Lennon.
La filmografia di questo genio visionario rappresenta spesso l’articolazione complessa di movimenti multipli in ambienti apparentemente claustrofobici, l’analisi delle varianti esistenziali all’interno di un luogo nel quale la vita può fluire secondo comportamenti diversi e contrastanti. Zbig è da sempre interessato alle problematiche metafisiche del linguaggio video, legate alla spazialità prospettica e alla simultaneità temporale. La sua poetica tende ad affrontare argomenti complessi quali il senso dell’esistenza e l’essenza della realtà.
Tra cinema d’animazione, videoarte, sperimentazione visionaria, ed echi di stampo surrealista
l’universo poetico di questo regista ci mostra il mondo, la vita, l’essere umano nelle sue incantevoli, psicotiche e raggelanti forme.
di Stefano Tassoni
Tra le poche vette che emergono nel paesaggio collinoso della poesia italiana dell’età romantica, si stagliano quelle rappresentate dall’opera di Carlo Porta e Giuseppe Gioacchino Belli a significare, almeno per il secondo, «un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma». Il riconoscimento della loro grandezza, oggi unanime, si manifestò con faticosa lentezza: perdurava la tenace resistenza del pregiudizio circa la costitutiva inferiorità del dialetto, un pregiudizio che affondava salde radici nelle Prose della volgar lingua (1525), il primo testo dichiaratamente formativo e che effettivamente formò notevolmente la lingua letterale italiana, ma anche nella storia culturale e politica, remota e prossima, dell’ostinata eredità classicistica e puristica. E come non ricordare le istanze unitarie e centripete trasmesse dal Risorgimento all’Italia unita e al Ventennio? Ancora nel 1945 ci si poteva lamentare che non fosse adeguatamente riconosciuta la statura “europea” dei due grandi dialettali, a dispetto dei due eccezionali talent scouts d’Oltralpe che l’avevano intuita con chiaroveggenza: Stendhal e Gogol.
Porta e Belli, dunque. Milanese il primo e romano il secondo, però se Milano fu la città più cosmopolita dell’Ottocento e più disposta verso slanci intellettualistici, altrettanto non si può dire di Roma dove l’autunno del Medioevo sembra durare in eterno e «le pecore passano per il corso». Ma la lettura del Belli non si limita a quel testo ideale che è la città: l’Introduzione da lui abbozzata nel cuore della più calda suggestione portiana, ha il sapore di un tacito dibattito col Porta. Se Milano gli era apparsa l’anti-Roma, l’operazione del Romano non può coincidere con quella del Milanese. Vi sono già in germe le persuasioni linguistiche che, trent’anni dopo, rappresenteranno un’obiezione alla futura poetica linguistica italiana. Inoltre la forte presenza di una propria poetica personale da qui deducibile, fa della corruzione linguistica in senso dialettale un’impareggiabile e coerente marca stilistica a sottolineare che ciò che si sta per leggere non rappresenta i «popolari discorsi» tout court ma i «popolari discorsi svolti nella sua poesia». Una poetica fortemente legata alla propria concezione linguistica, ma non solo. La corposa presenza di un sottinteso personaggio parlante che enuncia il sonetto (le note del Belli e la grafia diacritica indicano senza dubbio che il poeta concepì i suoi testi per la dizione) presiede ad affermazioni essenziali nell’Introduzione, dal rifiuto di nascondersi «perfidamente dietro la maschera del popolano» per «prestare a lui le sue massime e i principi suoi, onde esalare il suo proprio veleno sotto l’egida della calunnia», all’assunto di costruire il «monumento» della plebe (non «alla plebe», in quanto monumentum, documento) «facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera».
Orbene, questa voce che si fa magistrale coerenza di stile, è pur sempre definita nei modi “degradati” di una lingua che il poeta ritiene e definisce come altro da sé. Quando Belli rigetta l’accusa di enunciare attraverso la «maschera del popolano le massime e i principi suoi», quando ammonisce di aver voluto introdurre «il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella» esponendo «le sue storte opinioni» (ma anche «i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo»), il poeta non obbedisce solo ai timori della censura: dice una verità, se non tutta la verità, e ci offre anche una chiave d’approccio ai suoi sonetti. Il loro carattere essenzialmente orale non coinvolge solo problemi d’esecuzione, ma anche di un’interpretazione ideologica. (da far mutare persino il senso del più celebre sonetto, Er giorno der giudizzio, nella varia pronuncia dell’ultimo verso: «smorzeranno li lumi, e bbona sera». È un brivido tragico, la paura di una buia e vuota eternità? È il sorriso su una teologia che finisce in barzelletta? È il modo umile di riappropriarsi, domesticamente, di un lessico remoto ma perennemente attuale?)
Così ferma e scultorea la parola poetica del Belli eppure così ambiguo il suo messaggio! Chi parla? È il portavoce della beffa belliana? O è il vero beffato? Questo mi pare essere il punto critico, il cuore interpretativo dei Sonetti, l’insidia tesa ad ogni viaggio all’interno del corpus che appoggi il suo argomentare su una sequenza di citazioni.
E dunque il Caffettiere è il portavoce del cupo pessimismo belliano? O quello sproposito, fisolofo per filosofo, getta l’ombra del sorriso sulla meditazione, degradandola a luogo comune in vile metafora? Ai posteri l’ardua sentenza...
L’ommini de sto monno sò ll’istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss’incarzeno tutti in zu l’ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.
E ll’ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
E mmovennose ognuno, o piano, o forte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccasca nne la gola de la morte.
Roma, 22 gennaio 1833