Trasformiamo in Edito tutto ciò che è
XIV Edizione 2015
per opere inedite
POESIA | NARRATIVA | TEATRO | CINEMA | MUSICA
È uscito il bando della XIV edizione del concorso letterario nazionale InediTO - Premio Colline di Torino 2015, organizzato dall'Associazione culturale Il Camaleonte di Chieri (TO), inserito nell’ambito della manifestazione Il Maggio dei libri promossa dalCentro per il Libro e la Lettura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che scadrà il 31 gennaio 2015. Il Premio, presieduto dal poeta Davide Rondoni, è diventato un punto di riferimento in Italia tra i concorsi per opere inedite, e si pone l’obiettivo di scoprire e promuovere nuovi autori attraverso sezioni dedicate alla narrativa, alla poesia, al teatro, al cinema e alla musica, dando la possibilità ai vincitori delle sezioni Narrativa-Romanzo e Poesia, grazie a un ricco montepremi, di pubblicare l’opera, confermandosi sempre di più quale concorso talent scout e traghettatore verso il mondo dell’editoria.
InediTO avrà da quest’anno per la prima volta il patrocinio della Città di Torino, della Città Metropolitana di Torino e di ben 10 comuni delle Colline di Torino, mentre ottiene da diverse edizioni la sponsorizzazione di Aurora Penne per il premio speciale InediTO Young ad un autore minorenne promettente, la partnership con il M.E.I. (Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza e con la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura di Torino attraverso l'inserimento nelle iniziative del Salone OFF, ed è gemellato con il concorso letterario U.G.I. (Unione Genitori Italiani contro il tumore dei bambini a cui sarà devoluto parte del ricavato delle iscrizioni).
La premiazione si terrà a maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino.
Il bando si può scaricare dal sito:
http://www.ilcamaleonte.info/inedito-premiocollineditorino-2015
di Daniele Epifanio
Concerto dei “Samsara Blues Experiment”
Barracudas, Madrid.
Venerdì 22/11/2013
Non possedendo né un ingresso “artisti” né un backstage, l’attacco è diretto contro il pubblico. Alto quasi due metri, capelli biondi lunghi, barba aggressiva, sguardo da battaglia, uno dei due chitarristi, Hans Eiselt, si fa largo a colpi di custodia formato Les Paul tra la folla. La gente lo guarda, il pensiero è comune: “Cristo, arrivano i Vichinghi!”. A seguirlo, Thomas Vedder, moro, con gli occhiali e una barba fitta ma confusa, da pensatore, con un tamburo in una mano e uno sgabello ben foderato da batteria nell’altro. Tra i varchi che i due soldati aprono nella massa di gente, trova il tempo di infilarsi il bassista della band, Richard Behrens, nordico come gli altri due ma senza quella corporatura imponente che caratterizza i guerrieri norreni. Chi conosceva questa formazione sapeva che però mancava all’appello il fondatore, cantante e altro chitarrista della band: Christian Peters. Dal vociferare che si diffondeva tra il pubblico s’intuiva che il quarto elemento era impossibilitato a partecipare per causa di qualche virus intestinale…
Inizia il concerto senza neanche il soundcheck, i volumi sono equilibrati. Si alza un’onda di psichedelia, eco, delays, flagers, wah-wah. Interessante. Le canzoni sono senza testo e si costruiscono sopra un giro di basso sempre pulito, diretto, forte ma nel quale s’intravedono influenze Soul/Blues che trasmettono un’idea di leggerezza e di storia. Il batterista è una macchina, non perde un colpo e si districa perfettamente tra ritmi sincopati, controtempi e slanci metal. La chitarra, sempre distorta, si alterna tra assoli e ritmiche dure. Il pubblico, tranquillo ma affascinato, lascia andare la propria testa agli “headshakes”. Le canzoni variano tra alcune provate e preparate ad altre improvvisate, in cui a volte le chiusure suonano troppo strascicate o mancano di coordinazione.
Nel finale di uno dei brani, il vichingo più piccolo si avvicina al microfono e inizia a palare con un inglese molto tedesco “Do you understand English?”, domanda alquanto stravagante, “Well, as you know our band is composed of 4 elements, probably you are asking yourself why we are only three… well, the reason is SPANISH FOOD”. Un brusio gelido si diffonde tra gli spagnoli “Vorrà dire che mangiamo merda?”. Fortunatamente la ragazza accanto a me, ricoperta di tatuaggi, smorza la situazione generata dal complesso umorismo tedesco urlando “DIARREAA!”. Tutti sorridono e il concerto ricomincia.
Le canzoni continuano sulla stessa linea psichedelica, oscillante tra lo Space Rock e il Doom Metal ma sono ripetitive; la struttura è sempre la stessa, inizio mistico che poi raggiunge un apice distorto e irriverente con assoli carichi di effetti e pedali. Probabilmente il problema è la mancanza dell’altro componente della band.
Al di là della presenza scenica dovuta alla loro corporatura da invasori, della quale però dopo pochi brani l’occhio si stanca, l’attività della band sul palco è carente. Non s’impegnano in movimenti, espressioni o qualsiasi follia da riflettori per creare un rapporto più profondo con il pubblico, fanno molto formalmente il loro dovere da musicisti. Una carenza però facilmente colmabile, ad esempio con effetti visivi o video, che molto bene si associano con le atmosfere psichedeliche.
Qualche dubbio mi rimane però sul nome: “Samsara Blues Experiment” e in particolare sul secondo termine. Infatti interessante è la scelta di “saṃsāra”, termine sanscrito, che dovrebbe simboleggiare il “circolo della vita” e “l’oceano delle esperienze” e, meno originale ma egualmente adatto, il termine “Experiment”. Blues, invece, non me lo spiego. Oltre la struttura di basso il resto non ci si avvicina assolutamente, sarà forse una provocazione?
E’ comunque una band da conoscere, Live più che in studio e senza dubbio al completo.
di Daniele Epifanio e Luca Torzolini
Cosa significa per te a livello musicale comporre, ricercare e sperimentare?
Per me fare composizione non è nient’altro che un processo di decomposizione! (ride, ndr) Ricercare, sperimentare, riscoprire, e ovviamente studiare il passato…il nostro e quello degli altri. La ricerca è tutto, è il nostro ossigeno. La ricerca è anche svegliarsi la mattina e chiedersi cosa fare. La sperimentazione deve essere strettamente connessa alla nostra quotidianità: guai a dimenticarlo.
Due sono i modi principali di concepire la musica, quello interpretativo e quello compositivo. Qual è a tuo parere la reale differenza tra il compositore e l’interprete?
Ovviamente sono due mestieri completamente diversi, anche se con punti di contatto molto forti. Banalmente: il compositore scrive mettendo su carta ciò che ha in testa, l’interprete legge e ri-scrive. La difficoltà tecnica non si svela però come l’unico ostacolo: l’interprete cerca di risalire a ciò che il compositore ha pensato quando ha elaborato l’opera, riscoprendolo e riportandolo in vita. Come compositore, è come se dessi l’imprimatur e applicassi il mio cuore su carta. L’interprete invece applica il suo al mio. È un rapporto dialettico unico. Possiamo non vederci e non parlare, ma conoscerci, volerci bene o addirittura odiarci. È magia allo stato puro.
Dunque è più “umano” il lavoro dell’interprete, emotivamente parlando, di quello del compositore?
Sono abituato a gettarmi fango addosso, quindi ti dico di sì. Scherzi a parte, sicuramente un compositore rischia più facilmente di cadere in un processo creativo cervellotico: deve impegnarsi per far risuonare il brano nelle ossa di colui che lo dovrà eseguire e giocare d’astrazione purtroppo è un rischio che sta dietro l’angolo durante la fase di scrittura. L’esecuzione la considero un po’ come la prova del nove: ogni volta che scrivo un pezzo per qualche altro musicista e che lo sento eseguire, riesco a capire se quel che ho scritto ha senso o meno.
Se possedessi una macchina del tempo, non condizionato da circostanze storico-musicali, dove andresti e perché?
L’apocalisse è vicina: il futuro! (ride, ndr). Voglio capire come finiremo...giusto per sapere dove porta la strada. Tutto il resto - in un modo più o meno realistico - lo possiamo studiare, vedere, immaginare. Sì, la curiosità impellente riguarda certamente il futuro. Il nostro futuro.
Sappiamo che recentemente hai composto le musiche per uno spettacolo teatrale per bambini sul Piccolo Principe. Come recepiscono loro la musica a tuo parere?
È divertente perché lo spettacolo andato in scena non era affatto nato come uno spettacolo di teatro per bambini avendo contenuti molto forti: era una riscrittura del testo di Antoine de Saint Exupery con ampi respiri e diverse licenze contenutistiche. Avevo scritto per l’occasione delle musiche adatte ad un pubblico adulto, che ricalcavano l’impianto drammaturgico e registico. Non che esista “musica per bambini” o “musica per adulti”, ma sicuramente se avessi saputo che l’ascoltatore medio avrebbe avuto sette-otto anni mi sarei quantomeno contenuto, sotto certi aspetti; dall’altro lato, probabilmente, sarei stato troppo influenzato dalle circostanze? Chissà, forse sarebbe venuto fuori un esperimento musicale atroce e violento! Brrr… Il fatto di aver involontariamente considerato i bambini come adulti è stato senz’altro una carta vincente, nonostante le circostanze. Essi hanno l’incredibile qualità di riuscire a stupirsi con facilità, come se fossero carta bianca. Al contrario, per quasi tutti noi, lasciarsi stupire risulta difficilissimo… (silenzio, ndr) Le musiche dello show erano per clarinetto, pianoforte e contrabbasso e ho notato con stupore come l’ingresso dal niente di uno strumento con possibilità timbriche così particolari come il clarinetto folgorasse e illuminasse gli occhi di ciascun bambino presente in teatro.
Non ho mai amato particolarmente i bambini ma con stupore si sono potuti dimostrare più intelligenti e aperti rispetto a gran parte degli adulti ai quali abbia proposto la mia musica. Me incluso.
Alcuni pensatori hanno considerato la musica come la più elevata tra le forme d’arte perché non necessariamente collegata a particolari idee e concetti. Riusciamo a discernere la musica grottesca da quella rilassante identificandola in particolari suoni, tu che cosa ne pensi?
Adesso lo dico con fermezza, ma magari fra cinque minuti non lo dico più: la musica è il regno della soggettività e una delle sue più grandi qualità è quella di poter arrivare al destinatario slegata da orpelli. Sappiamo al contempo di essere però costruiti sopra un groviglio di convenzioni. Come nel mondo del cinema un esperto regista sa che attraverso determinate inquadrature e particolari giochi di luce è possibile ricreare specifiche sensazioni negli spettatori, anche un pianista saprà che una scala cromatica discendente porterebbe il pubblico a pensare, per esempio, al gatto Silvestro che ruzzola giù per le scale! Ma chi mi dice che oggettivamente siano immagini universalmente riconoscibili? La famosa colonna sonora de “Lo Squalo” fa necessariamente pensare all’animale killer? E perché non, slegata dall’immagine, ad un topolino che gira veloce per le strade in cerca del formaggio? È il caso dei bambini dei quali parlavamo poco fa: hanno un’immaginazione superiore alla nostra, sono come slegati da stereotipi e convenzioni. Loro si divertono sempre, noi siamo molto più marci. Attenzione: il pregio enorme della comunicazione musicale è la possibilità di lasciare più spazio all’immaginazione e all’interpretazione!
Qual è secondo te la differenza tra un suono ed un rumore?
Ma che domande! (ride, ndr) Il mio “Brusìo” è stato frutto di un anno di riflessioni del genere! Ne potremmo parlare fino a domani alle cinque. In una tournée di un mese ho affrontato proprio questo argomento interagendo con un’ora e un quarto di rumori, sia attraverso il pianoforte che fisicamente. Non credo ci sia particolare differenza fra un suono e un rumore. Pensa a “Experimentum Mundi” di Giorgio Battistell: è un pezzo per un ensemble di sedici lavoratori, dal falegname al fabbro, che agiscono coordinatamente! Creano musica. Capito, con classici oggetti da lavoro!
Cosa ti rende profondamente infelice?
Ora come ora? La mia sconfitta definitiva sarebbe sicuramente connessa al mio modo di rapportarmi alla musica. Il non riuscire a rispecchiarmi in quello che scrivo, e dunque in quello che vivo. Il giorno in cui sarà così, sarò pronto a gettare via carta e penna…ammesso che si possa fare. Sono profondamente infelice quando non riesco a scrivere ciò che voglio, ciò che sono. È specchio di un profondo problema che sta alla base.
Sono questi per caso momenti in cui la tua musica è più vera di te, più vera di quello che di te sai?
Sì, credo sia così. Sono le volte nelle quali non riesci a capire ciò che veramente sei. Quei momenti in cui, attraverso la musica, è come se spiassi una tua necessità di conoscerti, di riscoprirti.
Se vincessi oggi la lotteria e avessi un milione di euro in tasca, cosa faresti?
Prima la mia famiglia. Poi farei il panico: dopo avere insonorizzato casa per evitare continue discussioni coi vicini, prenderei in affitto i luoghi sacri della cultura romana e organizzerei festival, di qualità, veri, con tutta la gente vera che non può ma che è pronta a distruggere la mentalità culturale asfittica che regge questo paese e questa città: costruttivamente, partendo dalle fondamenta. Non facendo l’orrendo merchandising che pretende di rinnovare cambiando soltanto la facciata e il nome delle cose. Sarei sempre al fianco di tutte quelle persone che si ammazzano la vita dalla mattina alla sera inseguendo un sogno ma rimanendo fortemente attraccati alla terra. Al fianco di tutti quelli che in preda all’orrore hanno deciso di essere se stessi, non per alimentare folli processi creativo-masturbatori, ma perché davvero non possono fare altrimenti. Insomma, fatemela vincere sta lotteria, và! (ride, ndr)
di Daniele Epifanio
Live Orion Club 3 Aprile 2013.
Niente distorsioni brucianti, niente denti sulle corde, niente mirabolanti show di luci, niente pubblico preso da danzanti convulsioni musicali, solamente chiaro e sincero blues, proprio come doveva essere.
In una carriera musicale ricchissima di collaborazioni eccelse, tra le quali la più importante ai fini della sua notorietà fu probabilmente quella con Miles Davis (noto oltre che per la sua genialità creativa anche per il suo grandissimo intuito da talent scout), Robben Ford costruisce il proprio stile musicale nuotando come un pesce tra le fangose vasche del Blues, del Jazz e del Funk. Salta da una vasca all’altra, porta con sé la scia del liquido in cui era immerso e fonde così vari generi musicali, mantenendo però sempre il suo marchio di fabbrica. Effettivamente è forse quest’ultimo un termine adatto, “marchio Robben Ford” perché da quei due libri (rispettivamente di accordi e di scale Blues) che comprò per insegnarsi l’arte del Blues e dal derivante groviglio di conoscenze, è riuscito ad estrarre un timbro sonoro ed un stile musicale che per un orecchio amante del genere è difficile confondere.
Vedendolo muoversi sul palco mi è venuto da pensare che il tempo da lui passato negli anni ‘70 con il maestro di meditazione Chögyam Trungpa1 (riconosciuto come l’undicesima reincarnazione della linea Buddista dei Tulku Trungpa) deve aver prodotto i suoi frutti: sorridente sin dal primo momento in cui si avvicina al microfono, la sua presenza sul palco rimane, per le quasi due ore di concerto, fortemente positiva.
È accompagnato da un trio di musicisti di altissima qualità e i suoi assoli si alternano a quelli degli altri tre, in particolare a quelli di una piccola tastiera Hammond dietro la quale è appostato Ricky Person; talvolta, con i suoi movimenti scenici ed energici, è lui a incantare il pubblico, ancor più di Robben Ford stesso.
La band presenta l’ultimo album del chitarrista americano Bringing it Back Home e ne alterna i brani con alcuni pezzi storici di Robben, come Nothing to Nobody; un Cd morbido e sorridente, il suo recente lavoro, ricco di cover risalenti all’R&B e al Soul degli anni ‘60, nel quale la chitarra, saltando dallo Smooth Jazz al Blues, non dimentica mai la finalità dell’album stesso: portarvi nella serenità e nel relax con cui probabilmente l’autore sta vivendo i suoi anni. Sorprendente, invece, è stata la performance del pubblico: prevedibilmente statico. Rami d’albero tricolore, di cui le foglie neanche il vento caldo del singolare Blues “marchiato Robben Ford” è riuscito a far danzare. Mi chiedevo se gli occhi incollati sulle sue dita fossero segno di una divina contemplazione della poesia musicale oppure, grottescamente, invidia per un fenomeno artistico che più che meritare semplice apprezzamento necessita osservazione e studio scientifico… l’ennesima conferma che questo genere musicale, che storicamente non ci appartiene, ha attecchito nel nostro paese in modo superficiale. Immagino Robben e gli altri tre musicisti rimpiangere il pubblico americano che, al di là degli onnipresenti urlatori ubriachi, riesce non solo ad utilizzare la vista e le mani per gli applausi, ma è altrettanto capace di farsi trasportare con tutto il corpo dal profondo sound che musicisti di questo calibro sono in grado di regalarci.
1 : Robben Ford’s Bio. on www.robbenford.com
In uscita il 31 Ottobre 2012 Elementalea di Mario Mariani, il compositore e pianista che si è distinto nel panorama nazionale per il suo stile unico e le sue iniziative particolarissime, tra cui la residenza artistica di un mese all’interno della Grotta dei Prosciutti (2010) in cima al Monte Nerone ed il Teatro Libero del Monte Nerone (2011/2012), un festival a impatto zero all’insegna del rispetto della natura e della spiritualità. Ispirato a quest’ ultima esperienza, che lo ha visto ideatore di una serie di performance all’aria aperta, il nuovo album di Mariani è stato registrato in presa diretta nella Pineta di Fosto, ai confini tra Marche e Umbria, nell’arco di una giornata e testimonia il passaggio dal giorno alla notte, dal canto delle cicale ai grilli.
Elementalea, dedicato alle creature spirituali della natura che Paracelso definiva “elementali”, è coprodotto dall’etichetta personale dell’artista Zingaroton e da Ala Bianca Group e sarà presentato a stampa e pubblico con showcase e concerti in tutt’Italia a partire da Pesaro, il 29 Settembre al Centro Arti Visive Pescheria, e Urbino, il 6 Ottobre al Teatro Sanzio in occasione del Biosalus Festival.
Le “composizioni istantanee” di Mario Mariani si animano sullo sfondo di un’orchestra “naturale” che prende vita attraverso le espressioni sonore di flora e fauna che popolano il bosco: dal frusciare di rami e foglie al vento di Invocation, al duetto al piano con un uccellino di Avioloquium, vero e proprio dialogo tra l’artista e l’ambiente scandito dal passare del tempo come in Vespera ad Astra e Crepuscolaurea.
Una ricerca musicale che mira al recupero del rapporto uomo‐natura in una fusione di scienza e spiritualità, stimolando un viaggio dentro sé stessi alla ricerca del proprio io “transpersonale”. Quasi una musicoterapia dagli effetti ipnotici, che crea serenità e prepara alla meditazione come in Meditation on the inner temple, alla cui bonus track sono state aggiunte onde theta, che stimolano la sincronizzazione tra i due emisferi cerebrali generando nell’ascoltatore un benefico effetto di rilassamento e visualizzazione creativa. Se ne consiglia l’ascolto in cuffia o meglio ancora all’aria aperta, immersi nella natura.
Secondo album di pianoforte solo del musicista marchigiano, Elementalea, con la copertina rigorosamente in carta riciclata, testimonia la svolta olistica dell’artista che, partito dalla ricerca “estrema” delle sonorità pianistiche di Utopiano, ora si confronta con la sincronicità della Natura, in una “sinfonia” che si rinnova di continuo, rendendo l’ascoltatore parte di questo magico processo.
Nato a Pesaro nel 1970, Mario Mariani si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio di Musica “G. Rossini ”intraprendendo una lunga carriera come compositore e solista con all’attivo la partecipazione a numerosi Festival italiani ed internazionali. Di recente apparso nella puntata speciale dedicata alle Marche di “Road Italy” di Rai e nel reportage di Repubblica TV dedicato alla sua residenza artistica nella Grotta dei Prosciutti in cima al Monte Nerone, Mario Mariani ha collaborato tra gli altri con Elio (delle Storie Tese) nell’opera lirica “Isabella” di Azio Corghi e con gli artisti Giuliano Del Sorbo e Massimo Ottoni nelle performance “Action Music Action Painting” e
“Mandala”. Mario Mariani ha inoltre composto le sigle del Festival di Venezia delle edizioni 1999/2001 e 2005/2007 e le musiche di numerosi spot di noti marchi tra cui Microsoft, Toyota e Fiat, oltre ad aver firmato numerose colonne sonore, tra cui tutti i lungometraggi di Vittorio Moroni ed il film di prossima uscita “Notte finisce con gallo” di Matteo Pellegrini con cast internazionale (Aleksei Guskov, Eric Ebouaney, Filippo Timi e molti altri). Di recente si è aggiudicato il Premio Novaracinefestival per la migliore colonna sonora per il film di Andrea Lodovichetti “Sotto il mio giardino”.
Enrico Ruggeri è un artista che fuga il pericolo contenuto nel detto: “non esistono domande stupide, esistono risposte stupide”. Con Enrico non esiste mai una risposta banale, anche quando la domanda sembra ovvia le sue risposte sono ricercate e mai simili tra loro. In questi mesi Enrico è uscito dal suo seminato abituale. Infatti, la prestigiosa carriera di cantante è stata affiancata dal suo primo romanzo, intitolato Che giorno sarà edito da Kowalski. L’ennesimo tassello della sua poliedricità: basti pensare che una delle canzoni più amate e cantate dalle donne, Quello che le donne non dicono, sia stata scritta da lui e dal chitarrista che con lui ha condiviso trent’anni di percorso musicale, Luigi Schiavone.
In occasione del “tour” di presentazione del libro è nata questa piacevole intervista.
Il tuo libro narra di un cantante che realizza una sola canzone di successo e poi sparisce dalla scena. Scrivere di Francesco Ronchi, il protagonista del romanzo, è stata una forma di esorcizzazione?
Sicuramente, l’arte è una forma di esorcizzazione. Io faccio spesso l’esempio di Foscolo che fa morire Jacopo Ortis per non suicidarsi, oppure dei bisticci tra fidanzati o delle preoccupazioni per un parente. Queste cose ti portano a scrivere canzoni su due che si lasciano o sulle persone che non hai più. Scrivere è il modo migliore per esorcizzare le proprie paure e conoscersi meglio.
Hai detto che le bozze del libro, durante la sua stesura, sono state lette dal regista Fausto Brizzi. Se ne venisse fatto un film, che canzoni tue e non tue sceglieresti?
Di mie probabilmente non ne sceglierei, poiché questo libro è un po’ il contrario di me. Io non sono Francesco Ronchi, ma non sono nemmeno Paolo Europa (l’antagonista di successo ndr). Non ci sono personaggi riconducibili direttamente a me: parlo di un mondo degli anni ‘80 dal quale mi distaccai presto. Di canzoni non mie, forse sceglierei quelle delle meteore che attraversarono gli anni ‘80, gli eroi di una stagione.
Tuttavia, in alcune parti emergi prepotentemente. Nei capitoli si dipana una descrizione abbastanza cinica della parte peggiore dello show-biz musicale, personaggi grotteschi che sono pronti a sbranare chi sogna il successo. È possibile fare associazioni e provare a immaginare che dietro i personaggi fittizi del libro si nascondano persone che davvero hai conosciuto?
Sì, ma non in maniera automatica. Nessuna persona della mia vita assomiglia precisamente a quelle descritte nel libro: sono immagini sovrapposte. In questo credo di aver lavorato molto bene; ho utilizzato delle caratteristiche umane costruendo come puzzle i vari personaggi.
Alla luce di quanto hai descritto nel libro, come vedi il mondo della discografia italiana?
Adesso è un mondo più freddo. Forse ci sono meno cialtroni rispetto agli anni ‘80, ma è venuta meno anche questa forma grossolana di creatività. Cercare di lavorare più sul personaggio, oggi, è mordi e fuggi; in più la pirateria musicale ha creato un mondo in cui non si investe più con le risorse di prima, quindi i cialtroni nemmeno ci provano o restano subito confinati. Sicuramente era più romantico e meno cinico il mondo della musica degli anni ‘80. Oggi, con “Amici” e “X Factor”, le case discografiche vedono subito se il personaggio funziona e chi non funziona resta fuori; è tutto più asettico. Dai il disco alla radio, la radio non lo passa, fine della storia. Forse qualche personaggio del mio libro potremmo trovarlo, adesso, in qualche concorso canoro minore, ma le multinazionali fanno solo copia e incolla. Non per colpa loro, è il mercato che glielo impone.
Vittorio Gassman diceva che per esprimere la propria arte bisogna prima di tutto accettare compromessi con i media. Pensi che sia così oppure godi di molta libertà espressiva?
Con i media devi interagire, volente o nolente. Al di là di questa intervista, che è molto piacevole, devi parlare con giornali che non leggeresti mai e andare in trasmissioni che non vedi. La comunicazione è abbastanza indiscriminata. Credo che sia dannoso il compromesso artistico, come anche cercare le amicizie, il giro che conta, l’appoggio giusto. Anche perché essere riconosciuti come liberi pensatori è una soddisfazione.
In Italia sembra essere importante sapere da che parte sei schierato. L’autonomia di pensiero e di azione è cosa rara. Questo clima e questa esigenza di schieramento viene avvertito anche nel mondo della canzone?
È quella la vera prostituzione: andarsi a prendere l’applauso dicendo la cosa che è di moda e facendo il soldatino. Ho sempre evitato di far parte di uno schieramento: ogni volta è bello poter prendere una posizione a seconda di quello che ti suggerisce il tuo cervello.
Tempo fa hai detto che se adesso esistesse un De André farebbe molta fatica a venir fuori. Cosa consiglieresti tu a un giovane per farsi largo nel mondo musicale?
Di battersi affinché cessi la pirateria su internet, perché riduce gli spazi e la libertà nel mondo musicale, che sono la sua salvezza. In secondo luogo, preferire sé stesso ai propri modelli e considerare la musica come una bella esperienza, sempre e comunque.
Per una volta prova a essere presuntuoso, anche se non ti appartiene. Di cosa vai fiero?
Caratterialmente mi rende fiero il non abbattermi mai troppo per le sconfitte e il non esaltarmi troppo per i trionfi. Il fatto di non essere catalogabile artisticamente. Inoltre, mi sono tolto grandi soddisfazioni: la tournee con l’orchestra, quella acustica, da solo con piano e contrabbasso, da jazz folk con Alberto Guareschi e Davide Brambilla (ora fisarmonicista di Davide Van De Sfroos).
Hai una profonda cura, non solo della musica, ma anche dei testi. La tua cultura è figlia di curiosità o è un retaggio familiare?
Tutte e due le cose. Probabilmente la gente curiosa ha più cose da dire. Mi piace leggere, è una bella avventura.
Tra le tue canzoni e il repertorio altrui, c’è qualche brano che ti ha commosso particolarmente?
Ci sono canzoni mie che mi commuovono e che ho pudore di cantare: per esempio, La medesima canzone e Vorrei (l’una descrive un ospedale psichiatrico, l’altra racconta il momento in cui si sta per morire) le tengo per me. Non sono canzoni nate per essere passate in radio, chi ha voglia le ascolta su disco. Canzoni di altri che mi emozionano? L’album Berlin di Lou Reed: meraviglioso, uno degli imprinting del mio mondo musicale.
Chi vedi attualmente tagliato per cantare una tua canzone? Per chi ne scriveresti una?
Non so risponderti. Le mie collaborazioni nascono in maniera informale, per amicizia o tramite un contatto. È stato così con Fiorella Mannoia e con Morandi; l’ultima mia canzone per Giusy Ferreri è nata perché ci siamo conosciuti, abbiamo fraternizzato e tutto è sorto per caso. Se leghi con una persona che fa musica può essere che poi si faccia qualcosa insieme.
Con chi ti piacerebbe duettare, a parte le star che si sono succedute in All in (triplo album con una parte composta di canzoni in duo)?
Mi viene in mente mio figlio Pico, ma lui non vorrebbe e non è il caso. Mi direbbe di no e avrebbe ragione! Per cui non glielo chiederò mai.
Quale cantante della tua città hai più ammirato? E in assoluto?
In assoluto Francesco De Gregori. Della mia città, Nanni Svampa (cabarettista e cantante), perché ha fatto l’ironia de I Gufi (gruppo di cabaret da lui fondato) e perché ha tradotto Brassens, dicendo che lo traduceva mentre altri non lo dicevano.
Hai detto che rileggere il tuo libro, Che giorno sarà, prima di darlo alle stampe ti ha commosso, come convincere anche il pubblico che è un libro da leggere?
Prendo in prestito quello che mi ha scritto Dario Ballantini: questo non è il più bel libro che sia mai stato scritto nella storia dell’uomo, ma è un libro interessante e tratta temi attuali.
Aggiungo io, con un finale totalmente imprevedibile.
di Cesare Del Ferro
foto di Claudio Romano
“Madre Tierra” è solo uno dei tanti appuntamenti musicali organizzati nel locale albense “Peccato Originale”, punto di rendez-vous jazz nel Teramano, caratterizzato dall’ottima qualità dei cocktail, dispensati dal barman freestyler “Cugg”, e dalla particolare disposizione di luci e pitture. Rosalia de Souza, rinomata artista musicale del panorama brasiliano e celebre anche per la collaborazione con il musicista italiano Nicola Conte, stasera è accompagnata dagli arrangiamenti latin jazz di Daniele Ferretti e Martin Diaz.
Nel finale della serata l’artista brasiliana parla con me dei propri progetti:
Come definisci il tuo rapporto con la musica jazz?
Mi piace ascoltare la musica jazz, ma non ritengo di essere una musicista che si può racchiudere in questo genere musicale, perché non considero la bossanova come musica jazz, ma piuttosto un genere a sé. Artisti come Antonio Carlos Jobim, Stan Getz, Joao Gilberto e altri sono e rappresentano la bossanova, considerata il rifacimento della musica classica brasiliana. Per esempio, il modo di suonare di Jobim interpreta in chiave contemporanea la bossanova; le sue composizioni sono caratterizzate da accordi che tutti classificano come jazz, ma in realtà è musica classica brasiliana. Tornando al nostro discorso, il mio rapporto con il jazz è ottimo: nella sua concezione classica è un genere basato soprattutto sull’improvvisazione e l’interpretazione che il musicista sente di dare ad ogni brano. Amo spaziare e cercare il massimo della libertà sia negli accordi sia nella vocalità.
D’improvviso, il tuo ultimo album, fonde in sé sonorità classiche della bossanova, con qualche sfumatura afro e jazz. Come mai la scelta di introdurre una traccia in italiano?
Non è la prima volta che canto in italiano. Nel 1994 ho cantato con il gruppo Quintetto X la canzone Senza paura, cover di Ornella Vanoni. La gente, purtroppo, non l’ha recepita più di tanto. La scelta di introdurre D’improvviso è quindi dovuta al mio forte desiderio di richiamare il pubblico italiano. Sono diciotto anni che faccio questo lavoro e da sempre mi chiedono di cantare brani di Mina, Pino Daniele e altri; alla fine ho deciso di portare questo brano, originalmente scritto in spagnolo, anche in italiano, adattandone le sonorità.
So che vivi e lavori a Roma. Come trovi questa città dal punto di vista ispiratore?
L’ispirazione non la trovo nella città di Roma, anche perché i mie contatti musicali sono proiettati verso il sud. Roma è il centro dei miei legami familiari, ma per le mie performance mi sposto a Bari e Salerno.
Attualmente stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Sto lavorando a tanti progetti. Ho in cantiere un disco che sarà prodotto in Brasile e ne ho inciso un altro (che uscirà a marzo) di musica Drum’n’Bass con un gruppo tedesco. Mi piacerebbe fare tante altre cose, ma è difficoltoso per questioni di tempo e per le abitudini di alcuni musicisti. Non è un modo di fare cui sono abituata (i brasiliani in quindici giorni riescono a produrre un cd); qua le cose funzionano un po’ a rilento: da un progetto musicale alla relativa realizzazione passa davvero troppo tempo. All’estero è più semplice portare a termine certi progetti.
Il mio sogno più grande è quello di istituire un’associazione italo-brasiliana d’interscambio culturale: vorrei organizzare eventi legati non solo alla musica, ma anche al teatro, alla musica e alla pittura.
Sono nati con l'obiettivo di portare sui grandi palchi il sapore delle chiacchere scambiate tra amici nei piccoli bar di paese, ma non immaginavano che ci sarebbero saliti presto su quei palchi, a diffondere tra le folle il desiderio di trasformare il mondo. Lo hanno fatto cantando la rivoluzione con parole nuove, le parole di un poeta che indossa i panni del vecchio marinaio: Erriquez, un uomo maturo che porta negli occhi e nei concerti i sogni di quando era ragazzino.
La Bandabardò è stata recentemente a Teramo per il concerto organizzato il 18 settembre 2010 presso l'area ex Villeroy, a cura dell'Associazione Federica e Serena, che prende il nome dalle due ragazze del teramano morte il 6 aprile 2009, vittime del terremoto aquilano. L'ente, fondato dai loro amici, si occupa di portare avanti le attività di beneficenza a cui lavoravano le ragazze stesse quando erano in vita, come organizzare eventi, il cui ricavo viene utilizzato per appoggiare la ricerca scientifica e sostenere le organizzazioni che si occupano di curare soggetti con difficoltà economiche.
Quest'anno l'Associazione ha invitato la Bandabardò, ospite da tempo dei palchi teramani. La band ha pubblicato da poco l'ultimo disco: Allegro ma non troppo. Tra le novità l'ingresso nel gruppo di Ramon, alle percussioni e ai fiati. Nel proprio manifesto la Banda scrive: "Lottiamo per un mondo a misura di donna e di bambino e per vedere un giorno trionfare allegria e gentilezza".
Re-volver ha intervistato Erriquez, lo storico leader della band.
"Ritmo è vitalità" è uno dei tuoi versi più celebri e stasera la BB è qui per solidarietà. Durante la vostra esperienza, d'altronde, non vi siete mai tirati indietro dall'impegno sociale e culturale. La musica può trasformare questo mondo che vive di retorica?
La musica di una certo tipo, tra cui la nostra, deve ricaricare le persone. Deve regalare loro la voglia di sognare, di guardare il futuro con la schiena dritta. Deve regalare la voglia di vivere sentimenti come la malinconia, che sono bellissimi, ma di cui spesso la gente ha paura.
Quando è nata la Bandabardò?
Stiamo per compiere 18 anni. Siamo nati l'8 marzo del '93: una lunga vita e una lunga esperienza. La BB è stata la nostra vita, abbiamo fatto più di 1200 concerti e non è ancora finita.
Avete una lunga storia ed un seguito enorme. Tanto quanto i rave party, ma mentre con voi le persone si innamorano, ai rave è tutto completamente diverso. Cosa cambia? Sarà la poesia delle vostre canzoni?
Ai rave ci si va per drogarsi ed io non voglio giudicare, mentre ai nostri concerti ci si viene per ballare. Indubbiamente si tratta di due situazioni completamente diverse: nei nostri concerti c'è un giocare tra noi e il pubblico, che si sente partecipe del concerto stesso. I rave stanno diventando un problema, come sta diventando un grosso problema l'abuso di droga in Italia, un paese invaso dalla cocaina e dalle sostanze chimiche. Sono droghe sbagliate, sono droghe di destra, sono droghe e basta. Quindi vai a ballare, ma non distruggerti, perché di vita ce n'è una. A diciottanni non avrei mai pensato di dire una frase del genere, ma è una santa verità.
Dal vostro primo album, Circo mangione, ad Ottavio, del 2008, quant'è cambiata la vostra musica?
È cresciuta, perché abbiamo imparato a suonare. Nei primi dischi si sente che siamo nervosi, viscerali, molto istintivi. Poi è cambiato il rapporto con lo studio di registrazione, che prima ci sembrava una prigione, una catena ai piedi di persone che volevano volare e che volevano cambiare posto ogni giorno. Oggi invece è un posto bello: quando abbiamo inciso Ottavio lo abbiamo coccolato come un bimbo e lui ci ha ricambiato. Una bellissima storia.
Le vostre canzoni sono sempre ironiche, divertenti, mai superficiali e indubbiamente poetiche. Qual è il segreto della BB?
Più che altro è una gran fortuna. Siamo gli stessi componenti di diciassette anni fa, tranne che per l'ingresso di Ramòn, che ha portato alla Banda quella dose di ritmo caraibico che mancava. Fin dall'inizio ci siamo scoperti diversi e tra noi ci sono stati molti litigi, ma sempre costruttivi. Quei litigi necessari come ce ne sono nei matrimoni, senza mai mettere in discussione il seguito del rapporto. Se qualcuno fa un viaggio in furgone con noi pensa subito che ci odiamo, invece ci vogliamo bene come fratelli. C'è un rapporto diretto, senza mediazione e abbiamo avuto la fortuna di ritrovarci tutti insieme. Ci incrociamo per i nostri hobby, per i nostri gusti musicali, per il nostro amore per il tempo libero: siamo una... una famigliona e andiamo avanti così.
Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il modo più crudo per definire la storia degli ultimi decenni di questo paese e sono certo di non esagerare. Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il titolo di un romanzo gotico ristampato nei nostri giorni, oppure il nome di una tela di Hieronymus Bosch, ma in questa sede è soltanto il nome di una vulcanica rock band emergente che ho potuto ammirare qualche sera fa in un esaltante live a Parabiago (Milano).
La ragione principale che mi spinge a parlare di questi musicisti non risiede tanto nella loro capacità musicale quanto nell’aver proposto una forma alternativa di veicolazione del suono: il progetto musicale de Il Teatro degli Orrori ha solide fondamenta e intenti ben definiti circa l’utilizzo della teatralità come tecnica di amplificazione del linguaggio musicale.
Prima di proseguire è doveroso presentarvi la formazione attuale del gruppo: Gionata Mirai (chitarra-voce), Francesco Valente (batteria), Pierpaolo Capovilla (voce), Nicola Manzan (chitarra–violino) e Tommaso Mantelli (basso). La band attua un sapiente utilizzo del teatro per potenziare, e spesso sublimare, la parola; le pause, le pose stilistiche (affascinanti nei live) e i testi poetici di Capovilla formano un linguaggio parallelo alla musica che scolpisce puntualmente la natura dei brani. La voce di Pierpaolo Capovilla, la cui timbrica ricorda ai nostalgici Carmelo Bene, alterna un registro stilistico da puro frontman insieme ad un cantato pulito. Il testo in musica, generalmente subordinato al suono, ne Il Teatro degli Orrori diventa la linfa stessa della musica, dove ogni sonorità è incentrata a sottolineare la potenza del messaggio contenuto nel testo. Il suono esplode, commenta, culla, addolcisce e sopratutto scatena la poesia del testo, proprio come in una vera pièce condensata in pochi minuti, dove in parte vengono annullati gli stilemi tradizionali della canzone. Percussioni e chitarre lavorano freneticamente in partiture disparate, fatte di raddoppi improvvisi e arpeggi dolcissimi, supportati da grandi giri di basso. La distorsione del suono giunge a sbalzi tenebrosi, quasi ad accostarsi alle improvvise alterazioni vocali di Capovilla che prosegue a “narrare” la canzone da vero artificiere.
Rivendico con forza la capacità de Il Teatro degli Orrori di essere tornata, come tanti gruppi del passato, a ricreare quelle atmosfere e quei stati d’animo ormai annullati dall'infame modo attuale di concepire la musica, quasi sempre un insieme di dance, costume e sterile tecnica strumentale. Dove è finita la trasfigurazione e l’effetto psichedelico che dava alle note quelle tinte così forti e visionarie nel suono? Non troverete una canzone de Il Teatro degli Orrori che non faccia del proprio suono un edificio poetico dove ammassare messaggi, sentimenti, allucinazioni e tensioni molteplici.
Il Teatro degli Orrori è ora in giro per l’Italia ad assolvere le date del loro tour estivo e per promuovere il loro ultimo lavoro: A Sangue Freddo (La Tempesta Records, 2009). Tra i vari impegni musicali il cantante Pierpaolo Capovilla ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda.
Ho notato nella tua voce una tecnica interpretativa che vuole scardinare il cantato tradizionale per potenziare il “come dire” piuttosto che il “dire”, quasi che il canto divenisse un fatto meramente linguistico. Ritieni che nella vostra musica sia essenziale procedere in questi termini?
Non parlerei di tecnica interpretativa, direi "attitudine attoriale". Il fatto è che sono un pessimo cantante...
Cerco sempre di immedesimarmi nelle canzoni e mi piace pensare che queste vivano di vita propria. Non io, ma esse, vivono sul palcoscenico, quasi fossero momenti di reale vita vissuta, superando la realtà della rappresentazione. Ecco, io non sono un cantante, sono un attore.
All’inizio della vostra carriera avevate tutti un progetto differente che con il tempo si è amalgamato in un suono preciso, oppure qualcuno ha spinto più degli altri per trovare nel teatro la metafora vincente per una sonorità selvaggia e aperta a infinite suggestioni?
Non c'è dubbio che Giulio Ragno Favero ha sempre svolto un ruolo preponderante nella composizione, esecuzione e registrazione dei nostri dischi, ma sta di fatto che un "gruppo" è un organismo collettivo: è nella dialettica plurale che le canzoni vengono composte ed è questo il bello di "essere gruppo", di condividere obiettivi, aspirazioni, speranze e ambizioni. Il capitalismo ci ruba la capacità di "fare insieme"; esser gruppo è quanto di più intimamente e poeticamente democratico esista.
Perché hai scelto il Théâtre de la cruauté di Antonin Artaud come scintilla ispiratrice per il gruppo?
Credo fermamente nella teoria del teatro di Artaud: il magnifico paradosso della rappresentazione più vera della vita stessa. Quando salgo sul palcoscenico finalmente vivo. Resuscito! Quando, invece, torno a casa a guardare la TV, o in ufficio a far di conto, o in fabbrica a menar bulloni muoio lentamente, senza neanche accorgermene. Quello che voglio da un concerto de Il Teatro degli Orrori è che il pubblico possa specchiarsi nel nostro spettacolo e portarsi a casa, non solo un semplice momento di intrattenimento e socializzazione, ma un pezzo, per quanto piccolo, di vera vita vissuta. Qualcosa che dura nel tempo e nel cuore.
Quali sono state le difficoltà principali riscontrate nell’editoria musicale per pubblicare il vostro primo lavoro Dell’Impero delle Tenebre (aprile 2007)?
Non c'è stata alcuna difficoltà, al contrario! C'è stato grande interesse da parte di più operatori discografici. Abbiamo scelto La Tempesta per simpatia ed affinità elettive.
Prendiamo in esame un ipotetico campione di vostri fans: credi che la poesia dei tuoi testi sia più veloce e penetrante della musica stessa per le loro orecchie, considerando anche la singolare performance della tua timbrica?
Non c'è dubbio. Da quando canto in italiano mi accorgo di quanta amorevolezza venga indirizzata verso le parole delle mie canzoni, nelle quali molti, giovani e meno giovani (il nostro pubblico, grazie al cielo, è davvero intergenerazionale), si riconoscono e si immedesimano. Che soddisfazione!
Che cosa è lesivo nella musica per quegli artisti che, come voi, tentano di affermarsi con le unghie e con il sudore?
La totale e sistematica indifferenza del legislatore nei confronti di tutto ciò che sia cultura. In altri paesi, come la Francia, lo stato ti da una mano. Qui no, mai. È uno schifo vedere un ministro dileggiare gli artisti, gli enti lirici, il cinema, i musicisti. Per l'attuale governo la cultura è un nemico da combattere, ma che ci vuoi fare? Con i Bondi, i Brunetta, le Gelmini e tutti gli altri ministri di questo miserabile esecutivo non si può far altro che collidere. Un giorno pagheranno, mi auguro, per il male fatto al paese.
Pensi che l’Italia potrà, un giorno, superare o modificare i pregiudizi in fatto di avanguardie musicali? In altre parole: perché i virtuosi e i veri talenti devono fuggire da questo inferno mediocre?
Beh... io non fuggo. Resto, per Dio! Resistere è la mia parola d'ordine.
In conclusione, Pierpaolo, credi che la poesia nella musica sia più estetica, etica o entrambe le cose?
Etica.
Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (http://www.collisioni.it)
Partiamo dai tuoi inizi: come ti sei avvicinata alla musica lirica?
Io nasco come attrice di prosa, poi sulla mia strada si è infilata quasi per caso la lirica. Kuniaki Ida, il mio insegnante di recitazione della scuola “Paolo Grassi”, aveva come collaboratrice una cantante lirica che mi ha sentito cantare e mi ha incitato a provarci.
Spesso una forma d’arte come la lirica ha una scarsa visibilità rispetto ad altre più commerciali. Tu hai avuto difficoltà?
Di difficoltà ce ne sono state tante. Nonostante l’Italia sia la patria del bel canto e della tradizione operistica, non c’è spazio per iniziare una carriera. Se non hai fatto gavetta non lavori ad alti livelli. Purtroppo, però, non c’è la possibilità di fare questa gavetta. L’idea della “Compagnia Lirica di Milano” nasce proprio da questo presupposto. Eravamo un gruppo di persone con un’ottima capacità lavorativa ed eravamo stanchi di bussare a tante porte per poi lasciarci trattare in maniera poco carina. Se non hai tanti soldi da investire non riesci a entrare in questo mondo, è tutto mercificato e mercificante. Noi eravamo consapevoli di avere delle capacità, così abbiamo provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo fondato la Compagnia Lirica di Milano: oltre a me ci sono Alessandro Bares, direttore d’orchestra, e Marzia Scura, un altro soprano. Poi si è inserito anche Fernando Ciuffo, un baritono. Il nostro desiderio è di riportare l’opera ai teatri di provincia, poiché in Italia non c’è più quella via di mezzo che permetteva di far conoscere l’opera al grande pubblico.
Credi che manchi un’educazione all’opera?
Assolutamente. In Italia l’opera è un po’ come il cattolicesimo, mi si perdoni il paragone. Nel senso che anche chi non è cattolico conosce almeno in parte ciò che riguarda la religione, perché fa parte della nostra cultura. Tutti gli italiani conoscono l’opera, il problema sta nel fargliela sentire. Tutti amano ascoltare il tenore che canta “all’alba vincerò”, ma l’opera è considerata una cosa d’élite. Si è creata una spaccatura bizzarra.
Forse si è creato un meccanismo perverso. Se da un lato l’opera è considerata una cosa d’élite, dall’altra viene associata alla pubblicità…
Queste operazioni pubblicitarie partono dal fatto che anche la casalinga conosce le arie di Mozart o di Prokofiev. Solo che, estrapolate dal proprio contesto, finisce che vengono ricollegate ai pelati.
L’opera sta risentendo dei tagli del governo fatti alla cultura?
Per quanto mi riguarda, di soldi non ne ho mai visto neanche l’ombra. Tantissimi fondi vanno a pochissimi enti, non c’è una distribuzione sensata. Manca una regolamentazione logica.
Quali sono stati i tuoi maestri? A chi ti sei ispirata?
Io ho ricevuto un consiglio preziosissimo all’inizio dei miei studi: prendi meno riferimenti possibili, almeno tra i grandi nomi. Ascoltare tanta musica fa bene, prendere più spunti possibili anche, l’importante è non ancorarsi a un’immagine in particolare. Il voler assomigliare a qualcuno di famoso è un errore grossolano che fanno tanti.
Quali sono state le opere che hai preferito interpretare?
Sogno da una vita di essere una Mimì nella Bohème, ma purtroppo non ne ho ancora avuto la possibilità. Amo molto Mozart: è comodo per la mia vocalità. Adesso stiamo girando con il Don Giovanni e mi diverte molto essere Donna Elvira. La mia è una formazione da teatro di prosa, quindi mi piace molto il lato dell’interpretazione attoriale, cosa che viene spesso tralasciata. Per risolvere questo problema abbiamo scelto non un regista di opera ma uno di prosa. È stata una mossa sana.
Allora sei favorevole a una commistione di arti?
Certamente, proprio da questo nasce Masca in Langa, un festival di arte e cultura. Più si dialoga, più c’è la possibilità di inventare qualcosa di nuovo. Credo molto in questo.
Che tipo di consiglio daresti a chi volesse dedicarsi alla tua arte?
Tanta pazienza e apertura mentale. La mia prima insegnante diceva che per cantare ci vuole cervello, cervello e poi ancora cervello. Capire che il mondo non inizia e finisce con la lirica.
Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)
Quali sono i punti di contatto tra la cultura giapponese e l'arte operistica?
In realtà molto pochi. Forse solo ill modo in cui uso il respiro: è lo stesso del canto giapponese e del karate.
Il Giappone è molto famoso per i propri esecutori musicali virtuosi, anche enfant prodige. Cosa hanno le scuole di musica giapponesi che le altre non hanno?
Non è tanto l'istruzione ad essere speciale: i giapponesi hanno il dono di mescolare bene la cultura occidentale con la propria. Per cui un giapponese dotato di talento dispone di una percezione dell'arte più ampia rispetto ad altri.
In Italia l'opera lirica non gode di molta considerazione tra la gente comune, viene reputata come una forma d'arte di elìte. È lo stesso anche in Giappone?
In Giappone c'è lo stesso problema: solo una ristretta cerchia di persone si interessa all'opera. Tuttavia Riyoko Ikeda, con cui collaboro, ha una compagnia che aiuta i giovani ad emergere nel mondo della musica. Inoltre stiamo promuovendo un nuovo tipo di opera, metà narrata e metà cantata con i sottotitoli in bella vista. Così da estendere un po' la nostra arte a tutti.
Da parte delle istituzioni c'è un attenzione particolare per l'opera?
Il teatro dell'opera di Tokio è proprietà dello Stato, ma non hanno un'attività molto grande e lasciano esibire per lo più cantanti stranieri. Di tanto in tanto la televisione di stato trasmette l'opera nel fine settimana.
Devo dire che grazie ad alcuni manga molto famosi la gente comune si è avvicinata alla musica classica, però l'opera resta ancora qualcosa di troppo impegnativo.
Come ha iniziato la carriera operistica?
Di base ho la voce potente. Il mio maestro di musica mi ha convinto, senza alcuna preparazione, ad entrare nell'accademia di canto.
Quando mi sono diplomato non avevo lavoro, così ho iniziato a studiare opera in un laboratorio di ricerca musicale. Iniziando a recitare ho capito che avrei fatto questo per tutta la vita.
Quali sono le opere liriche che ha sentito più sue?
Da giovani, di solito, si hanno molti tormenti. Quando ho interpretato il Michele del Tabarro, un personaggio che diventa un omicida dopo essere stato tradito dalla moglie, mi sono reso conto che sul palco posso fare delle cose che non è possibile fare nella vita normale. È stata un'illuminazione, ho liberato il caos che avevo dentro.
Cosa del Giappone avrebbe voluto portare qui in Italia e cosa dell'Italia porterebbe in Giappone?
Dal Giappone sicuramente il riso, oltre ad un po' di cultura giapponese. Nel mio paese l'Italia è molto amata, più di quanto gli italiani possano immaginare; se fosse possibile prenderei una piccola chiesa ed un teatro: l'acustica qui in Italia è eccezionale.
Intervista realizzata nell'ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)
Partiamo dal tour “Onda Libera”. Qual è la novità e qual è il rapporto con i beni confiscati alle mafie?
“Onda Libera” è iniziato nell'ormai lontano 2009. È un progetto particolare, durante il tour abbiamo organizzato, insieme all'associazione “Libera”, una serie di concerti nei luoghi appartenuti alla mafia, come bar e hotel confiscati. Abbiamo suonato nella villa di Felice Maniero, in Veneto, anche per dimostrare che la mafia non è una cosa legata esclusivamente al Sud. Infatti abbiamo toccato regioni come la Lombardia, l'Emilia e la Toscana.
Ho visto che la copertina del CD è molto particolare. Com'è nata l'idea?
Diciamo che quella è la bandiera ideale. C'è un po' di Cuba, un po' di America; un mix dei colori del mondo, come del resto è l'album stesso.
Nel vocabolario dei Modena City Ramblers cosa c'è scritto accanto alla parola “libertà”?
Vita.
E accanto alla parola “censura”?
Non lo posso dire.
Voi credete che l'impegno politico da parte di un artista sia particolarmente importante?
La musica dev'essere prima di tutto divertimento, ma anche un modo per pensare, per veicolare dei messaggi e parlare di cose serie. Poi, girando molto e conoscendo tantissime persone, veniamo a contatto con una gran quantità di storie. È inevitabile che molte di esse colpiscano la nostra musica.
Quindi anche l'impegno sociale. Voi siete stati in Palestina...
In Palestina ci siamo stati tre volte, è stato molto bello. Con le vendite di un disco abbiamo finanziato la costruzione di un pozzo in un villaggio della campagna di Gerusalemme, presenziando alla sua inaugurazione. Abbiamo suonato in dei teatri e dopo abbiamo toccato con mano la realtà palestinese e quella israeliana, fatte di guerra e numerose crudeltà. Nel 2009 siamo ci siamo tornati per un evento bellissimo in cui abbiamo suonato con i ragazzi del conservatorio di Edward Said.
Mi ricollego al fatto che hai accennato alla guerra: nell'ultimo album avete parlato molto di guerra; guerra di vario tipo, come quella sul lavoro. Allora, tornando al vocabolario, cosa mettereste accanto a questa parola?
È una parola che non dovrebbe esistere. In un nostro brano, La ballata della dama bianca, parliamo delle morti sul lavoro. È una guerra non dichiarata, in Italia muoiono tre persone al giorno sul posto di lavoro.
Quali sono le principali influenze musicali nell'ultimo album?
In generale i Modena sono molto “irish”. L'ultimo CD è influenzato molto dalla musica del Sud: ci sono strumenti come mandolini e mandoloncelli, suoniamo in tre ottavi e ci rifacciamo alle tarantelle. Nel contempo ci sono band come i Gogol Bordello che ci ispirano sempre. Facciamo parte di una grande famiglia che parte dal folk e finisce al rock folk.
C'è anche una ricerca dialettale...
Sì. Ad esempio, nel brano Onda Libera il ritornello alterna frasi in napoletano e frasi in emiliano stretto.
Progetti futuri?
Siamo reduci di un tour europeo ed è ripartito il tour italiano, il nuovo disco è in lavorazione e poi... suonare, suonare, suonare!