Tra le tue canzoni, ma anche tra i tuoi libri, le tematiche più frequenti sono la letteratura (è il caso di numerosi testi ispirati a letterati, come Pessoa, o a personaggi letterari, come è per le canzoni Euridice, La Bellezza, eccetera) e l’amore. Non pochi scrittori, in passato, hanno considerato l’arte e l’amore antitetici tra loro, affermando l’incompatibilità – ad esempio – tra un matrimonio stabile e un’arte vitale, tra una passione amorosa e quella per una letteratura che deve coinvolgere la totalità dell’individuo. Cosa ne pensi?
Non credo che l’amore e l’arte siano antitetici. Amore e arte hanno le stesse caratteristiche: vivono di fantasia e dipendono a volte dal destino e altre da noi. Sono due maniere diverse di appropriarsi del bello e, al tempo stesso, due amori profondamente differenti: l’amore per una persona, infatti, è un amore altruista: io devo amare una donna per quello che lei è; l’amore per l’arte è invece un amore profondamente egoista, attraverso il quale io mi “riempio”. Arte e amore non sono amanti gelose; sono io ad essere geloso di entrambe.
Abbiamo appena parlato della “letterarietà”, mi si passi il termine, dei tuoi testi. Oscar Wilde, ne L’anima dell’uomo sotto il socialismo, affermava che “L’arte non deve mai divenire popolare, ma è il popolo che deve divenire artistico”. Sei d’accordo? Cosa ne pensi dell’arte di oggi, sempre più asservita alle logiche di mercato?
Sono d’accordo con Wilde su molte cose: lui fu un grande prestigiatore di parole. Nello specifico, penso appunto che l’arte non debba mai sottomettersi ad un popolo incolto: il popolo va “educato” all’arte; è solo dopo questa educazione che l’arte può andare incontro al popolo.
Nelle tue canzoni spesso contrapponi un’anima – chiamiamola così – “realista” e una più idealista. Per fare un esempio, ci sono testi come Stranamore o Figlio figlio figlio, che sono di particolare crudezza: i rapporti affettivi vengono presentati così come realmente sono, con i loro lati positivi e negativi. Altre canzoni invece offrono la visione di un amore (o di un affetto, come in L’uomo che si gioca il cielo a dadi) totalmente idealizzato. Dunque reale e ideale sono due facce della stessa medaglia, entrambe meritevoli di essere cantate?
L’ideale e il reale sono “aggrovigliati”. In che misura lo siano, dipende molto dall’età della persona: per un giovane, ad esempio, la parte ideale è solitamente predominante. Inoltre noi non facciamo altro che ricostruire e reinterpretare la realtà, che diventa così come noi la vediamo; questo gioco di interpretazione è un filtro dell’uomo, e il suo modo di “salvarsi la vita”.
Per quanto riguarda specificatamente lo scrittore o il cantante, quindi, credo che lui debba essere sia crudo e diretto, sia condiscendente e carezzevole.
La nostra esistenza è pervasa dall’incertezza. In un concerto citi un passo di Alice nel Paese delle Meraviglie, nello specifico si tratta del passo in cui Alice viene a sapere che il Re Rosso, che appartiene al suo sogno, sta a sua volta sognando di lei. Come fa, l’uomo, a sopravvivere nonostante la mancanza di appigli saldi? Credi che le “illusioni” come l’arte e l’amore – per dirla alla Foscolo – possano bastare?
La vita è un gioco di specchi e un uomo deve capire, prima di ogni altra cosa, il senso della bellezza e l’importanza di essere uomo. Non tutti riescono a farlo. Molti amori finiscono in tragedia perché mancano la cultura e il sentimento. L’amore si presenta sotto molte forme: ora è una donna, ora è un’amica, ora un’altra donna; muta, ma non muore mai.
Tornando all’atteggiamento da avere di fronte all’incertezza, pare che la tua posizione in merito sia ben espressa dalla canzone Le lettere d’amore, dedicata a Pessoa, specie quando affermi che “il senso delle stelle non è quello di un uomo” e che “dentro quel negozio di tabaccheria c’era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia”.
Sì, Pessoa stesso scrisse che trovava più viva la tabaccheria, e io sono con lui. L’incertezza è la sacerdotessa della mia vita; se non ci fosse incertezza non ci sarebbe bellezza, sarebbe sempre la “domenica della vita”, mentre invece noi abbiamo il “sabato perenne”.
“Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero, e naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo”. Sogna, ragazzo sogna è un grande tributo alla capacità umana di credere in qualcosa e un invito rivolto ai giovani, affinché non smettano di sognare. Pensi che la vita sia in grado di ripagare gli uomini che sanno credere in lei?
Sì, io sono ottimista. Penso che la vita sappia sempre ripagare gli uomini che sognano, bisogna solo sapere come e quando.
Sappiamo che da poco è uscito il tuo nuovo libro Scacco a Dio, dove un creatore in crisi esistenziale ascolta la storia di quei personaggi che hanno saputo opporsi a lui, mettendolo sotto scacco. Svelaci qualche retroscena su questa partita.
Scacco a Dio è una rivalutazione del libero arbitrio. Da un lato, tutto è conseguenza di cose che abbiamo già fatto: ci troviamo di fronte a concatenazioni meccaniche legate al passato. Dall’altro lato, tuttavia, sostengo che la vita sia imprevedibile, ma non predestinata, e che in questo consista la sua bellezza. Noi non abbiamo già determinato il nostro futuro. Sì, è vero, l’imprinting iniziale è molto importante, nei primi dieci anni della nostra vita ci creiamo una mappa della affettività che ci accompagnerà molto a lungo, ma nulla è definitivo. Noi abbiamo delle regole, sì, ma accade che a un certo punto volino le torri, e allora non possiamo proprio farci niente. L’unica cosa che possiamo fare è non farci prendere dalla frenesia, e tenere gli occhi sempre ben incollati sulla scacchiera.
Bene, ce la possiamo fare. Abbiamo il telefono, abbiamo il numero, carta e penna non ci mancano, abbiamo le sigarette, possiamo intervistare Stefano Bollani. Ci diciamo, ok: è Stefano Bollani, scherza sempre e non manca di prendersi in giro ma tentiamo di darci un contegno e facciamo un’intervista professionale. Alzo il telefono e faccio il numero. Squilla. Mi presento al grande pianista jazz italiano, nonché simpatico showman. Sì, ciao - ci fa lui - ma diamoci del tu ok? Perfetto, l’intervista può iniziare.
Oscar Wilde diceva "L'arte non dovrebbe mai divenire popolare. E' il popolo che dovrebbe divenire artistico". Tu cosa ne pensi?
Beh, ma Oscar Wilde era un tipino snob… Penso che esistano infinite vie di mezzo, come la storia ci ha insegnato. Esistono artisti molto popolari senza che per questo siano commerciali. L’arte può essere apprezzata dal pubblico senza dover per forza diventare nazional-popolare, e penso ad esempio a Chopin.
Cosa manca alla musica italiana?
Posso dirti cosa manca all’Italia in generale verso l’arte e cioè attenzione da parte delle istituzioni, manca una glorificazione dell’artista. In altri paesi assistiamo ad un impegno costante, un aiuto non per forza economico ma a volte anche solo di immagine. C’è bisogno di investire nella cultura, ma quando si devono fare dei tagli si taglia nell’istruzione. L’Italia deve cominciare a guardarsi allo specchio: è una nazione che vive di turismo culturale, che vive in un certo senso della cultura del passato e non valorizza quella attuale.
Quali sono stati gli artisti che ti hanno dato la spinta a diventare un musicista?
Mah, a diventare musicista mi sono spinto da solo. A sei anni mi sono seduto ad un pianoforte e non mi sono più fermato.
Qual è secondo te il picco massimo della creazione artistica? Scegli un'opera.
E’ difficile. Ce ne sono così tanti che sarebbe comunque una scelta troppo personale, sono gusti.
La tua carriera musicale ti porta inesorabilmente nel campo jazz. Tuttavia i forti riferimenti a Prokofiev in "Piano Solo" denotano un tuo background classico. Chi tra i pianisti classici apprezzi di più?
Ammiro molti pianisti classici, ma sarebbe piu' facile rispondere riguardo ai compositori, dove sono piu' selettivo. Dovendo rispondere citerei quantomeno due imprescindibili: Pollini e la Argerich.
Nello "Zibaldone del dottor Djembe" assistiamo ad una vera e propria campagna contro il "giro di do". Ne sei mai rimasto vittima?
(Ride n.d.r.) No, mai. Lo Zibaldone del dottor Djembe, come hai visto è un libro molto giocoso, ci sono giochi molto attivi all’interno. Ad esempio quando è nato il personaggio del dottor Djembe con David Riondino volevamo invitare Gino Paoli per fare “Il Gino di Do” ma lui non è venuto. Il libro è pieno di umorismo. Una cosa che mi piace molto fare è giocare con i miei miti.
Si può dire che anche te come il tuo personaggio Simpliciano sia un amante della contraddizione?
Sì, assolutamente. Anche se spesso non condivido quello che dico.
Oltre che della contraddizione sembri anche essere un amante della metascrittura. Quali sono stati i tuoi riferimenti in questo ambito?
Beh, qui posso essere precisissimo: alcuni hanno visto un collegamento con Rodari, ma di grande ispirazione sono stati per me Calvino e Queneau. Infatti nel libro avrai notato molti discorsi surreali.
Allora Stefano, mi rimane solo un’ultima domanda da farti e devo fartela per forza.
Oddio, credo già di sapere qual è…
Mi elenchi i nomi dei sette nani?
(ride n.d.r.) Ah, ma allora non vale perché li so tutti. Brontolo, Dotto, Pisolo, Mammolo, Eolo, Cucciolo e naturalmente il nostro preferito: Gongolo.
di Giorgia Tribuiani
Un giorno, cadendo da cavallo, Gabriele D’Annunzio scoprì l’importanza della stampa. Era a quel tempo poco più di un brillante esordiente e qualcuno “per malignità o per errore” sparse la voce della sua morte: quasi tutti i giornali portarono articoli necrologici sul giovanissimo poeta che la morte aveva colpito nel primo fiore delle speranze. La brutta notizia fu smentita; ma restò la glorificazione funebre.
Il fatto, secondo il poeta, “contribuì ad aumentare il rumore” intorno al suo nome: con esso si rese conto di quanto uno scoop sulla vita di un artista potesse richiamare l’attenzione sulle opere dello stesso: in seguito, infatti, si servì spesso della stampa per creare scandali sul proprio nome e farsi pubblicità. Come, ad esempio, tornando ad annunciare il proprio decesso, rendendo note le proprie avventure sessuali, dandosi a spettacolari dimostrazioni guerrafondaie. Avendo compreso la potenza della stampa, la usò in ogni modo come mezzo di autopromozione e, grazie alla capacità divulgativa, riuscì a creare un proprio personaggio.
Poi, tuttavia, capì che avrebbe potuto sfruttare le sue abilità di giornalista non solo per un proprio tornaconto, ma anche per una causa più grande e a lui cara: fu così che cominciò a combattere sui giornali una vera e propria battaglia contro la letteratura spicciola e massificata. Non l’artista, ma il periodista lasciò la Torre d’Avorio per elevare la cultura dei lettori e preparare il popolo all’arte.
«L’arte non dovrebbe mai cercare di rendersi popolare. È il pubblico che dovrebbe cercare di rendersi artistico. C’è un’enorme differenza», aveva scritto Oscar Wilde nel suo saggio Critica del socialismo, e D’Annunzio, sulla sua stessa lunghezza d’onda, si batté per questo, per avvicinare la moltitudine al lavoro dell’artista.
«Anche la miserabile fatica quotidiana del giornale, in questa prima sollevazione – scrisse nel 1887 sulla Cronaca bizantina – vi appare meno dura e meno inutile poiché vi illumina la speranza che almeno una piccola parte dei vostri convincimenti e dei vostri intendimenti e dei vostri gusti si diffonda nella moltitudine e serva a preparare tempi migliori per l’arte che amate».
Compito del buon cronista, dunque, divenne per lui quello di affinare il gusto del lettore, per far sì che il romanzo di elevato livello avesse successo.
«L’idea seminata nel giornale – scrisse su La Tribuna – più che nel libro, o prima o poi produce il suo frutto. E non v’è forse spirito ottuso di letteratura in cui l’insistenza di chi scrive non riesca a produrre una qualche fenditura, ad aprire un piccolo varco. Inoltre, la passione ha un’efficacia straordinaria sulla massa popolare. Tutti i sostenitori appassionati di un’idea emanano una forza più cattivante di qualunque sofisma». È il motivo per cui Sighele definì il poeta-giornalista un “meneur des foules”, una sorta di opinion leader in grado di condurre i lettori sulla strada del progresso.
Se volessimo riutilizzare la metafora della Torre d’avorio, potremmo dire che il giornalismo di D’Annunzio si prefigurò come una sorta di ponte levatoio per permettere alla moltitudine di scavalcare il fossato e di raggiungere l’artista: risulta chiaro, dunque, che l’intellettuale fosse ben lungi dal voler «soggiogare in uno schema di cultura “un esercito di serve, di parrucchieri, di portinai, di pizzicagnoli” che “si getta avidamente sull’ultimo fascicolo illustrato” uscito dalla tipografia». Le sue cronache, al contrario, necessitavano di un pubblico attivo, che si impegnasse a seguirlo lungo la strada dell’arte: fu questo anche il motivo del suo conflitto con Treves, che alla qualità opponeva spesso la “capacità di vendere”.
Gli articoli dedicati alle opere d’arte, inoltre, divennero anche lo spunto per esporre una personale concezione dell’opera artistica: presentò l’arte come un lavoro di semplificazione, in grado di orientare l’osservatore (o il lettore) verso la realtà complessa delle cose. «Il disegnare – scrisse sul Corriere di Napoli – non sta nel vedere semplicemente quel che è», ma nell’estrarre ciò che nella varietà merita d’essere distinto, «quel che dà carattere (...) Un’opera d’arte, se è perfettamente concepita ed eseguita secondo un tal principio, entra nel mondo non come una opera ma come un vivente organismo, al paro degli altri viventi organismi, e nella coscienza degli uomini seguita a vivere, eterno soggetto di studio, come la vita».
Il disegnare sta quindi nello “scegliere”, per cui «non soltanto l’occhio, non la mano soltanto fa il buon disegnatore; ma sì bene l’intelligenza, poiché lo scegliere è una delle più alte operazioni d’intelligenza». Non sembrerà strana, a tal punto, l’avversione nei confronti di tante opere di poco conto: «bisogna troncare le gambe a tremila pittori ogni anno – affermò D’Annunzio – se no, fra dieci anni, tutti saranno pittori e non ci sarà più pittura (…) L’Arte non è una istituzione di beneficenza. E non è un mestiere. Quindi non ha per iscopo l’alimentazione di gente bisognosa».
Stesso discorso per la letteratura. Il poeta fotografò la situazione di un’Italia inondata da letteratura amena, nella quale era già in corso la proliferazione di «biblioteche minime, lillipuziane, diamantine, gialle, azzurre, verdi, a venticinque centesimi, a quindici centesimi, a dieci centesimi e perfino a un soldo», dove «la concorrenza tra i piccoli editori diventava ogni giorno più attiva» e «migliaia e migliaia di volumi si propagavano per tutta la penisola, leggeri e multicolori come le foglie d’una foresta abbattuta da un vento d’autunno».
Per D’Annunzio questo era sintomo di una corruzione dello stesso sistema artistico, che avrebbe dovuto essere destinato, non all’appagamento dell’industria editoriale, quanto all’elevazione delle masse e alla loro guida. Alla base di questo problema, dunque, il poeta pose “il bisogno del sogno”, la necessità di soddisfare «l’appetito sentimentale della moltitudine (...) mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterari». Da qui alla nascita della “fiera degli ideali a buon mercato”, il passo era breve.