"TUTUYÀT. INNOCENZA DELLA PRECARIETÀ”
Mostra personale di DENIS BACHETTI
MUSEO TONI BENETTON
Via marignana, 112 – Mogliano Veneto (TV)
26 novembre - 07 dicembre 2016
Titolo mostra: TUTUYÀT. INNOCENZA DELLA PRECARIETÀ
Date: 26 novembre - 07 dicembre 2016
Luogo mostra: Museo Toni Benetton, via marignana 112, Mogliano Veneto (TV)
Nome artista: Denis Bachetti
A cura di: Paolo Meneghetti
Presentazione critica: Paolo Bolpagni, Paolo Meneghetti, Vincenzo Centorame, Silvia Moretta
Vernissage: sabato 26 novembre, ore 18.00
Chiusura: mercoledì 07 dicembre
Giorni e orari di apertura: tutti i giorni
Biglietti: ingresso libero
Informazioni:
Luca Torzolini: 3381774824
lucatorzolini@gmail.com
www.denisbachetti.com
Facebook: Denis Bachetti
Breve presentazione della mostra TUTUYÀT. INNOCENZA DELLA PRECARIETÀ
Sabato 26 novembre, alle ore 18.00, presso il Museo Toni Benetton, via marignana n. 112, verrà inaugurata la mostra personale di pittura dell’artista Denis Bachetti, dal titolo “Tutuyàt. Innocenza della precarietà”. La mostra, a cura di Paolo Meneghetti, gode dei contributi critici dei prof. Paolo Bolpagni, Silvia Moretta e Vincenzo Centorame.
Denis Bachetti scrive, osserva e indaga cose d’arte. La sua è una pittura ad olio su tele di medio-grandi dimensioni. Prende le mosse da istanze tese al raggiungimento di una certa pacata liricità astratta attraverso una pittura fluida e repentinamente gestuale al contempo; votata prevalentemente a toni celebrali lenti e calibrati, a note melliflue episodicamente unite a caratterizzazioni tonali vivide e sferzanti. Nutre una morbosa ammirazione per De Kooning o Arshile Gorky tra gli action-painters americani come per Cy Twombly o William Baziotes, o i nostri Licini – suo grande conterraneo – ed Afro Basaldella, Alberto Gianquinto e pochi altri maestri.
Attraverso la pittura, il disegno e l’incisione giunge al perseguimento di una forma di arte imperniata sul confronto percettivo e sulla valorizzazione dell’opera involontaria e accidentale, fortuitamente concepita attraverso attività extra artistiche. Ritiene di poter risolvere i problemi tipici dell’artista – equilibrio, movimento, forma, spazio, armonia – nella proposizione di opere scevre da velleità intellettive nell’atto del loro concepimento: quindi tanto più efficaci quanto più estemporanee e casuali.
Tutuyàt è una parola segreta: è il mostro antropomorfo immaginario, visualizzato al tempo dell’infanzia, nell’età della formazione e della strutturazione dell’immaginario. Il mostruoso riaffiora di continuo nei sogni, nel linguaggio, nel disegno, nella pittura; e per domarlo, Bachetti lo eleva a simbolo e portavoce dell’esigenza di far riaffiorare la parte intima e segreta, sfuggente e irripetibile delle cose. Tutuyàt diviene veicolo di una inedita e personalissima interpretazione del reale, di un invito, rivolto all’umanità, di riappropriarsi della verità segreta delle cose, al di fuori di una convenzionale definizione formale, di accedere alla possibilità di guardare il mondo attraverso lo svuotamento dell’apparato percettivo, sgombro da definizioni note, tramite una pittura astratta, pienamente pervasa da un atteggiamento epifanico e profetico.
In occasione dell’inaugurazione, la sera di sabato 26 novembre, dalle ore 18.00, ci sarà l’intervento verbale dei critici, seguito dall'esibizione di Ivan Talarico, poeta e cantautore, che eseguirà successivamente un “dialogo poetico fra metamonologhi” con Luca Torzolini, regista e autore letterario. Verranno proiettati i cortometraggi “Baumwolle” (Bachetti, Sciolè, Torzolini, 2015) e, in anteprima assoluta, un estratto dell’ultimo documentario realizzato su Dario Fo proprio in Villa Marignana Benetton (Torzolini, 2016).
DENIS BACHETTI
1992 Diploma Istituto Tecnico Sperimentale Mazzoni di Ascoli Piceno
2000 Laurea in Lingue e letterature straniere moderne Università di Bologna
2004 Master in Beni Culturali indirizzo Artistico Università di Siena
2009 Collettiva a Oakland, California (USA) a cura de I’Istituto Italiano di Cultura di San Francisco
2009 Personale Galleria il Modulo, Francavilla al Mare, CH
2012 Collettiva Biennale di Venezia Padiglione Italia, Torino
2016 Mostra Personale Circolo degli Antichi Editori Veneziani, Venezia
2016 Mostra personale Circolo Aternino, Pescara
2016 Mostra personale Museo Toni Benetton, Mogliano Veneto (TV)
di Luca Torzolini e Daniele Epifanio
In un nascosto paese del Lazio, immerso nella poesia che la natura costantemente e gratuitamente ci dona, siamo andati ad incontrare Fabio Piscopo, pittore figurativo e scultore fiorentino. Un artista che non definisce le proprie produzioni artistiche come “opere” bensì come “realizzazioni” e che racconta con un sincero sorriso sulle labbra di quando, in seconda media, bravissimo in tutte le materie, venne rimandato a causa della sua insufficienza in disegno: “il bello è che avevo già deciso di frequentare in futuro solo ed esclusivamente il liceo Artistico come scuola, volevo imparare a disegnare […] nell’opera, quadro, scultura, ceramica non metti l’oggetto, bensì un tuo pensiero. Per trasmettere tale pensiero però, devi essere in grado di formulare un discorso. Ad esempio, nel linguaggio parlato per saper formulare un discorso non puoi solamente saper spiccicare l’italiano, devi conoscere la sintassi, la grammatica, un poco di etimologia delle parole; insomma devi avere un minimo di formazione così da essere un bravo comunicatore. Nell’arte figurativa gli strumenti sono diversi ma il concetto è sempre quello. Sapendo che tutto ciò che m’insegnavano non era propriamente definibile come arte, mi sono iscritto al Liceo Artistico: volevo poter padroneggiare gli strumenti da utilizzare per esprimere ciò che volevo esprimere.”
Fabio, qual è il messaggio della tua arte?
Per me che ho scelto di comunicare attraverso “il segno” è un po’ difficile dirlo a parole.
In ogni mia realizzazione però vi è l’umanità, al centro di tutto c’è l’uomo. È inutile andare a ricercare altri benesseri all’interno della vita se per primo si esclude il rapporto con gli altri uomini. Il messaggio potrei definirlo come “amore”, nel senso grande del termine. Non come quello che nasce tra un uomo e una donna o nella sua accezione carnale, bensì nelle interazioni tra tutte le persone. Se ci fosse questo tipo di sentimento tra tutti gli uomini, il politico, dall’alto della sua posizione, farebbe gli interessi di tutti e ognuno, concorrendo al bene dell’altro, concorrerebbe anche al proprio: nessuno cercherebbe di fregarsi. Questo è il mondo ideale che noi chiamiamo “utopia”, ciò però non significa che non potrebbe esistere.
L’arte per te è un fenomeno sociale o naturale?
Io credo che l’arte sia insita dentro ciascun individuo, tutti al momento della nascita hanno la creatività insita nel proprio io o nella propria testa. Poi per un motivo o per un altro c’è chi la mantiene e c’è chi invece la soffoca e ciò accade nei primissimi anni di vita, quando si è ancora bambini. In seguito ci sono momenti in cui da fastidio avere questo cervello, questo “io creativo” e dunque ci si adegua alla società, ci si adegua alla normalità per avere una vita meno contrastante e meno contrastata. Invece c’è chi quest’arte la coltiva, chi vive bene dentro questo “io diverso” e che dunque coltiverà la propria predisposizione innata sviluppando il senso artistico, il senso critico e imparando ad accettare i disagi e le bellezze che la vita ci offre…
La vita da artista… sai, delle volte mi ritrovo a parlare con gente che mi dice <<beato a te che fai questo, beato a te che hai scelto di vivere così, beato a te che puoi fare quello che ti pare…>> la domanda che mi viene sempre spontanea è <<ma perché non lo fai anche te?>> loro dicono <<ah no… io ormai…>>: bene questa è la negazione dell’arte, quando uno dice <<io ormai sono distrutto>>, ma chi t’ha distrutto dico io? Una persona può riprendere la propria creatività anche se per 20-30 anni l’ha rinnegata. Ci vuole un minimo di coraggio… neanche molto in fondo, certamente non pari a quello di cui si ha bisogno per affrontare una malattia.
Qual è una delle tue più profonde paure da sempre?
Forse la banalità. Ritrovarmi a essere piatto e non avere, la mattina quando mi sveglio, più nessun entusiasmo. Pensare che quella mattina sarà uguale all’altra…
Ad esempio, mi ha sempre spaventato il così detto “lavoro giornaliero”, senza un minimo di emozione, diversità o creatività nei confronti della giornata. Mi angoscia l’idea di ripetere il gesto, di partire, di andare, di tornare, di vedere, di mangiare, di dormire per poi ricominciare da capo sempre lo stesso ciclo… vivere dentro questo senso di noia per poi arrivare sino alla vecchiaia e alla morte. La maggior parte delle persone arriva in fondo alla vita non vivendo più, sono già morte prima; sono morte dal momento in cui hanno iniziato la famosa “carriera”: la carriera del lavoro, della famiglia o dei rapporti con la società… questo modo standard di vivere.
Possono esserci compromessi nel corso dalla vita?
No no no…. Compromessi non devono esserci, assolutamente. Se hai un compromesso e un senso della vita creativo prima o poi questo compromesso ti crolla, o crolli te o crolla lui. Non ci devono essere compromessi ma una chiarezza totale, poi le persone che ti stanno accanto ti devono accettare o non accettare per quello che sei. Non bisogna poi essere spaventati dalla solitudine poiché, se vissuta coscientemente, non è solitudine quanto pienezza del proprio essere. Quando una persona impara a vivere bene nella propria solitudine, vive benissimo anche insieme agli altri.
Cosa significa per te “sperimentare”?
Prima di tutto la sperimentazione è una distruzione di ciò che sai e di ciò che ti è certo. Io ho delle sicurezze, dal momento in cui violento queste sicurezze, ho la possibilità di scoprirne di nuove. Quindi la ricerca è non aver paura di andare oltre il conosciuto, oltre il certo, oltre ciò che da sicurezza e pane quotidiano.
Cos’è la “perversione”?
La perversione è tutto ciò che è contro la naturalezza. Uno che si abbuffa di pasta asciutta è un pervertito o uno che si abbuffa di vino è un ubriacone, mentre gustare un bicchiere di vino è un'altra cosa; anche nel sesso è così. La perversione è sempre qualcosa che va oltre il naturale. Non credo che in natura essa esista, dunque se vai contro ciò che è naturale, vai contro la tua stessa natura.
Se mancassero 6 ore alla fine del mondo, cosa faresti?
Mhà… guarda penso che continuerei a fare quel che sto facendo. Effettivamente sono diversi anni che penso alla mia fine e sono dunque diversi anni che penso a gustarmi ogni momento, invece di continuare ad affrettarmi. Se dovesse finire il mondo tra sei ore, credo che rallenterei ancora di più, proprio per gustarmi ogni secondo di quel che sto facendo, perché tanto correre sarebbe inutile.
Spenderesti tempo anche per aggiustare quella mattonella incrinata?
Ahahah… Beh se mi trovassi nel momento in cui la sto aggiustando finirei di farlo. Non importa se aggiusti una mattonella o fai un quadro, tanto è la stessa cosa, arriva la fine no? L’importante è che quel che stai facendo tu lo viva… non è che cosa fai ma come lo fai.
Credi che le cose finiscano?
Si, un’opera finisce… ma solo perché ne deve iniziare un’altra. Lo stesso è per il rapporto con le persone. Quando un rapporto finisce è sempre una cosa orribile, un rapporto non dovrebbe mai finire, perché poi rimangono solo rabbia, rancore e negatività; il rapporto dovrebbe evolvere. Il finire di una relazione dovrebbe essere il suo trasformarsi. Ad esempio, posso avere un rapporto amoroso o sessuale molto stretto con una donna, poi improvvisamente esaurirlo, per tanti motivi dipendenti o meno dalla volontà di entrambi, però questo rapporto dovrebbe rimanere vivo, rimanere costruttivo, dovrebbe percorrere un’altra strada rimanendo però sempre in cammino, un cammino evolutivo, in avanti.
Il rapporto che finisce è stato un avanzamento, un qualcosa che ha accresciuto la tua personalità… perché distruggere qualcosa che ti ha arricchito?
Chimera estetica: pittura enigmatica e cerebrale
Nicola Zinni a Pavia con le sue ultime opere
Dopo quasi tre anni torna ad esporre in territorio pavese il giovane pittore Nicola Zinni. Sede della mostra sarà il Centro Culturale I Crociferi di via Cardano 8.
Classe 1982, originario di Voghera, in questi ultimi anni Zinni si è concentrato nella sua ricerca di stile e presenta 50 nuovi oli su tela realizzati tra il 2006 e il 2011 che testimoniano un percorso evolutivo contrassegnato da un segno personale e riconoscibilissimo. Autodidatta, L'autore inizia la sua attività espositiva con opere grafiche nell'agosto del 1999 e nell'arco di una decina di anni intraprende un percorso caratterizzato da figure antropomorfe surreali ed enigmatiche che sono la chiave per aprire un mondo criptico e onirico. Il fine ultimo è sempre lo stesso: la ricerca dell'origine della vita, delle forme e dell'estetica della natura. Il titolo della mostra, "Chimera Estetica", riassume efficacemente i riferimenti alla mitologia greca come mezzo d'espressione finalizzato a creare poesia e dialogo su cosa è e cosa non è il Bello. In parallelo si ritrovano le nature morte, dalle rivisitazioni di composizioni celebri a quelle più personali. Consigliato a tutti gli amanti dell'arte contemporanea, in particolar modo a chi desidera essere spettatore di un'eccellente carrellata di opere dall'alto contenuto poetico.
Gabriele Grazia
L'inaugurazione si terrà sabato 21 gennaio alle ore 16:00 presso il Centro Culturale I Crociferi in via Cardano 8, Pavia. La mostra si protrarrà fino al 5 febbraio.
Orari:
da Lunedì a Venerdì 14:00 - 20:00
Sabato e Domenica 10:00 - 12:00 / 14:00 - 18:00
Inaugurazione sabato 21 gennaio ore 16:00
ingresso gratuito
per informazioni: info@icrociferi.it
tel. 0382-312041
www.icrociferi.it
www.zinni.it
“L’arte non si vede”, una sua dichiarazione. Cosa signifca esattamente?
L’arte è ciò che l’artista ha in mente e non ciò che la tela esplicita. L’intensità della presenza umana nel quadro sovrasta ogni artifizio tecnico; la presenza sentita del pittore si palesa in tracce e campiture preziose ed inaspettate. Un bel quadro è nulla rispetto ad un quadro sentito.
Lei ha avuto la fortuna di allacciare stabili e sinceri rapporti di amicizia con personaggi di prim’ordine nell’ambito dello scenario artistico italiano della seconda metà del 900. Tra gli altri, Saetti, Guccione, Licata, Guttuso, Guidi: quali sono le vicende che ricorda con maggior piacere?
La frequentazione di Guidi mi ha arricchito molto, soprattutto il suo consiglio di ascoltare gli altri: tutti hanno qualcosa da insegnare osservava, Guccione si impegnava allo stesso modo, sempre al massimo, per ogni faccenda, per ogni cosa, dalla più piccola alla più grande. Ritengo che dietro ad ogni grande artista si nasconda un grande uomo; incline all’amore, alla passione, alla comprensione. Si vive bene e semplicemente guidati da una grande moralià intrisa di passione. Di Piero Guccione, dicevamo, ammiro quella sua estatica meticolosità: ama tornare sullo stesso quadro anche dopo 10 anni, per lui è importante solo il risultato finale. Inoltre Guccione scrive in modo sublime: ho avuto la possibilità di avere con lui un continuo scambio epistolare. Di Saetti mi ha stupito la semplicità incredibile: le sue figure semplici e maestose così lontane dal clamore: lo ricordo esclamare davanti ad un manifesto affisso a Venezia; “questi americani non sono niente. Hanno comprato anche l’arte!”. Con Guttuso il contatto umano era massimo: si metteva al tuo livello, ti faceva sentire un grande amico. Le mie esperienze con lui e con gli altri hanno avvicinato il mio ideale di artista ad ambiti di altruismo e generosità; onde fluttuanti di emozioni verso spiagge di placida sapienza.
E cosa ci dice di Alberto Gianquinto?
Gianquinto aveva lo sguardo proiettato verso il futuro. Usava grandi formati e riusciva ad esprimere l’essenza della propria interiorità. Era un pittore lirico, un colorista. Il colore lo sentivi, c’era una vibrazione notevole nei suoi quadri. A mio avviso egli ha influenzato e continua ad influenzare molti pittori italiani. La storia lo ha un po’ penalizzato relegandolo, in ambito internazionale, ad un ruolo più modesto rispetto al suo talento. Sono sicuro che in futuro verrà fuori il suo genio. Non dipengeva ciò che vedeva, dipingeva ciò che pensava. Egli precedeva il pensiero.
Dell’incontro con Robert Rauschenberg cosa ricorda?
Ricordo il comportamento alla mano. Il suo inglese cadenzato, il suo sorriso. Lo ritengo un grande artista del suo tempo. Ha posto l’Europa di fronte all’ America e viceversa, rimescolando a suo modo le carte artistiche del pianeta.
Cosa pensa dei critici?
Molti critici sono sterili, fanno giri di parole da giostrai, in realtà il loro scopo è non farti capire ciò che vogliono dire, se davvero hanno qualcosa da dire. Pochi sono validi e quelli validi sono davvero essenziali per la pittura.
Quali sono le doti che dovrebbe possedere un talentuoso gallerista?
Una grande sensibilità. Saper leggere nelle persone ed essere a volte più sensibile dell’artista stesso. In secondo luogo saper promuovere, richiamare personalità e gente al fine di far emergere dell’artista il messaggio, la poetica, la Weltanschauung o come si dice...
Cosa non dovrebbe mai fare un gallerista di oggi e cosa non ha più opportunità di fare rispetto ad un gallerista dei suoi tempi?
Molti galleristi promuovono tutti i quadri. Sono tutti belli, in effetti, ma tutti uguali.. È stato sempre così, ma oggi la cosa è peggiorata. La condizione essenziale per la qualità in un quadro è che sia unico, diverso da tutti gli altri. Oggi c’è frastuono e confusione; si sceglie a caso e ci si fida di tutto tranne che dell’intuito.
Oggigiorno l’affermazione di un artista prevede un excursus?
Ci vuole tempo. Non serve fare il giro d’Italia e avere esposizioni dovunque. Non serve avere il sito internet se ancora non avete creato un’opera. L’unica cosa importante è creare, creare senza sosta.
Cos’è una serata nomade?
È un’iniziativa a cui di quando in quando do seguito. È semplicemnte una serata dove ci si riunisce, anche in pochi, ad osservare uno o al massimo due quadri. Si discute delle sensazioni che suscita il quadro, della tecnica e si finisce a parlare di tutt’altro, magari di nuovi progetti artistici.
Qual è a suo avviso il futuro dell’artista? Cosa ci rimane ora dopo un secolo di straordinarie espressioni quale il ‛900 è stato?
Il futuro è duro, arduo, insidioso, sterile. La linea di condotta dell’artista è in simili circostanze fondamentale per poter porre seguito ad un’esperienza di sì bruciante creatività quale quella del secolo scorso. Ancora creare: creare senza sosta.
Che ne pensa della pop art? Che ne pensa dell’arte concettuale e delle performance? E dei nuovi mezzi espressivi come la videoart?
Andy Warhol era un grafico e un pensatore. Ritengo che l’operato grafico di Warhol sia di alto profilo. Aveva una sovraumana capacità di comunicare. Inarrestabile. Ma non era un pittore, non c’entra niente con la pittura quella roba. Lo stesso giudizio è da me riservato all’arte concettuale e alle performance: non appartiene più al mio modo di concepire l’arte; sono nuove forme di espressione. Avulse, scollate dal mio tempo, ma non meno rispettabili del fulgore dei miei decenni.
Cosa senti di consigliare al giovane artista in erba?
Frequentare le mostre valide e i grandi artisti. È importante frequentare ambienti molto evoluti per mettersi in rapporto con gente che può farti crescere spiritualmente e tecnicamente.
Come ti approcci alla tela?
Mi concentro sulla memoria, do un senso al tempo. Più si pesca a ritroso, più la trasposizione acquisisce senso.
In che stile ti identifichi maggiormente?
Il mio è un lirismo simbolico. Una volta usavo l’olio, oggi prediligo l’acrilico. La mia pittura aspira semplicemente a togliere polvere dai ricordi, rendendoli vivi sulla tela, rievocando l’intensità emotiva del vissuto. Maggiore è lo scarto temporale, maggiore risulterà l’intensità emotiva del mio viaggio empatico.
di Giorgia Tribuiani
“Volevo far sì che la pittura servisse ai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico. A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente […] Di fatto fino a cento anni fa, tutta la pittura era stata letteraria o religiosa: era stata tutta al servizio della mente. Durante il secolo scorso questa caratteristica si era persa a poco a poco. Quanto più fascino sensuale offriva un quadro – quanto più era animale – tanto più era apprezzato”. A quindici anni, Duchamp cominciò a dipingere sotto l’influenza degli impressionisti, dai quali prese poi le distanze per abbracciare il Fauvismo, altra corrente che avrebbe presto abbandonato; non ancora trentenne, insoddisfatto dalle possibilità espressive che la pittura metteva a disposizione degli artisti, cominciò a dedicarsi al Grande Vetro, opera costituita da un insieme di elementi grafici riportati su lastre di vetro e metallo, permeata da una serie di simbologie e da apparenti non sense. Duchamp voleva dimostrare che l’arte non era rappresentazione, ma presentazione; il compito dell’artista, perciò, consisteva nel donare un senso all’oggetto. “La pittura – sosteneva Duchamp – non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe avere a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria. Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare”. Dalla necessità di donare il senso agli oggetti, nacquero allora i “ready-made”, strumenti d’uso comune che, attraverso la “scelta” dell’artista, si trasformavano da elementi ordinari in opere d’arte. Un esempio lampante è quello della ruota di bicicletta, o quello ancor più famoso di Fountain, l’orinatoio rovesciato che la giuria della Society of Independent Artists rifiutò indignata. In realtà quella di Duchamp non era una provocazione, ma l’espletazione di un concetto: da quel momento, per lui, il lavoro dell’artista non consisteva più nella creazione dell’opera, ma nella selezione e ricontestualizzazione dell’oggetto che, in questo modo, avrebbe perso il proprio significato oggettivo per acquistare il valore soggettivo proposto dall’artista; al contempo anche lo spettatore, divenuto “soggetto interpretante”, avrebbe acquisito un ruolo attivo rispetto all’opera.
Sfatiamo il mito dell’artista che non si vende: si può fare dell’arte un mestiere senza sottostare a dei compromessi?
Pochi sono quei fortunati che possono vendere il proprio prodotto per quello che vale, cioè per il tempo, la tecnica e la passione con cui è stata creata l’opera. Anche gli artisti affermati devono seguire l’immagine che si sono creati nel corso degli anni e questo si può considerare un compromesso già di per sé.
Che ne pensi delle riviste che vendono monografie o interviste agli artisti?
Oggi basta pagare questi “procacciatori dell’arte” per avere uno spazio su una rivista. A Milano mi proposero di pubblicare un libro, uscire con i miei quadri su di una rivista nazionale d’arte e fare una mostra. Dopo quattro mesi di preparativi arrivarono alla conclusione del loro gioco: dovevo pagare tutto io, critico compreso. Naturalmente non pagai e persero ogni forma di interesse verso le mie opere. È necessario un reale interesse verso l’artista, una forma di glorificazione che in Italia va pian piano morendo: si relega l’arte a mero business senza anima.
So che hai partecipato come attore protagonista nel corto “Vibrata” girato dalla Philozei prod. Qual è il motivo per cui nasce e di cosa parla?
Il corto ha una storia particolare. Tutto ciò che si racconta in Vibrata è vero. Il corto nasce dall’improvvisazione unita al racconto di questi avvenimenti. Per il 90% delle riprese è stata buona la prima. Non c’era una sceneggiatura definita, ma alla fine la morale e il senso sono venuti fuori: discorsi insulsi, gente perditempo, luoghi piatti, mancanza di rispetto per la morte e per gli amici. In definitiva c’è la rappresentazione desolante della becera realtà di una cittadina. Il dialetto con cui si esprimono i personaggi è caratterizzante per la circoscrizione dell’ambiente. I due protagonisti, io e Stefano, parlano due dialetti leggermente differenti denotando le differenze generazionali.
Hai recitato in Reznedog, sempre per conto della Philozei. Il personaggio che interpretavi era un pittore barbone. Qui, al contrario del corto Vibrata dove improvvisavi, hai dovuto recitare in condizioni estreme. Raccontaci tutto.
La prima scena è stata girata senza permessi al centro di Teramo, vicino al Duomo. Nevicava. Poi mi è toccato fingere di dormire per strada alle 03:00, con un freddo immane. L’ultima scena, di fronte alla villa comunale, è stata girata sotto la pioggia.
Philozei prod. ha girato anche Volando sull’acqua. Cos’è?
Sono molto attaccato alla Philozei, hanno girato questo video in cui spiego (tramite un monologo) la poetica della mia pittura, la spinta organica che muove la mano dell’artista nella creazione delle sue opere. Il documentario è incentrato su un’opera intitolata “Dove vanno a morire i gabbiani” che io stesso ho dipinto qualche anno fa. L'istallazione è composta da tantissimi cubetti fatti di pietra di travertino, con qualche intervento pittorico per creare una profondità e rappresentare i loculi tombali dei gabbiani. Ho scavato queste pietre porose, il cui materiale stesso, eroso dall'acqua, si presenta con dei trafori che sembrano respirare l'inquietudine e la cupezza stessa della morte regalando ai gabbiani una pace ultraterrena.
Raccontami la storia del vichingo che è venuto a morire sulle sponde del Vibrata.
Da principio credevo che le mie discendenze etniche fossero slave, ma poi ripensando che nel lontano 4500-5000 a.c. il mare stava sulle colline di Ripuli e Colonnella, dove poco tempo fa hanno fatto degli scavi e hanno trovato queste capanne con suppellettili (vasi, anfore, utensili) la mia mente ha creato diverse soluzioni per la mia discendenza genealogica. Perso in odissee del pensiero, scoprii il mio avo: immaginando questo guerriero supino sopra un windsurf abbandonato sul Vibrata, cominciò a saltarmi in testa l'idea di un guerriero vichingo. Ma com’è possibile che un guerriero vichingo avesse attraversato lo stretto di Gibilterra e tra le brume, i venti del nord e i marosi, dopo tanto peregrinare fosse approdato mortalmente sfinito sulle rive del fiume Vibrata? E man mano che portavo avanti questa istallazione immaginifica del fossile di windsurf, i contorni dell'essere nordico andavano pian piano definendosi: fiero, con la barba dorata, brizzolato e un'impavida pancia muscolosa che testimoniava il suo vigore lavorativo e la sua sfrenata passione per la neoscoperta del vino.
Cos'è la tecnica per te?
La mia tecnica scaturisce da un'esigenza particolare che unisce il peso della materia e la leggerezza dell'anima. Bruciare la plastica e fonderla sul quadro corrisponde allora a rappresentare emozioni ardenti, vissute e mai spente. I pensieri che si rincorrono e si scontrano in un labirinto erudito sono pennellate confuse di colori differenti che s’intrecciano, si sovrappongono e si mischiano. Utilizzare cortecce di albero, foglie secche, cozze, pietre di mare, vetri levigati, reti di pescatori, pezzi di legno di barche diventa un modo con cui creare volumetrie del ricordo. La tecnica non è altro che comunicazione efficace della propria poesia interiore, della musica inarrestabile che l'uomo sente nelle cose. È assorbire la vita come una foglia verde e donare, nella propria lenta degradazione, nelle striature stesse del colore, l'immagine esatta della condizione interiore. La foglia cade dall'albero e si adagia nelle acque della pozzanghera ai piedi dello stesso; trasuda, attraverso un raggio di sole, gocce di linfa pietosa agli umani. L'aritmia morente e impazzita dell'io. Decriptata la discendenza del popolo vibratiano con la scimmia Bonobo, il guerriero abbandonò le armi e dedicò la sue ultime energie vitali alla scoperta della dantesca selva tra le splendide cosce femminili del luogo.
Tutti i pittori iniziano col prendere in mano una matita, passano al pennello e si trovano pian piano dietro la complessa architettura dei chiaroscuri, della prospettiva e di tutti gli artifizi della tecnica. Nell'evoluzione dell'estro artistico e della maestranza si affianca al pennello dell'artista un pensiero scarno che man mano diventa solido e porta avanti il messaggio del pittore. Come si articola il tuo pensiero?
Sinceramente, quando ho incominciato a dipingere sul greto del fiume con le dita e il fango, cercando l'argilla, sentivo già un forte impulso nel trasmettere all'uomo le mie piccole e immaginifiche visioni emotive. Non si decide da un giorno all'altro di diventare artisti, si eredita un modo di essere, un ricordo ancestrale che è la somma delle civiltà. Io sono nato in questo secolo ma potrei avere molti più anni di quanti ne abbia. Ecco perché il ricordo - la memoria - di ciò che è la vita terrena non è sempre il tempo reale ma una specie di “paradiso perduto” di Milton. Per questo mi sono reso conto che nel passare dallo scarabocchio al dipinto ci si può trovare di fronte ad enigmi possenti quali i fenomeni della materia e quelli dello spirito, così simili e allo stesso modo complessi: la dualità della mia persona, la ricerca dell'oggettivo e l'imposizione del soggettivo di tutti gli esseri coscienti nel mondo.
Illustrami le fasi pittoriche da te attraversate.
Il primo ciclo naturalistico comprende paesaggi di mare, squarci notturni, mondi bucolici, nebbie soffuse di sguardi oltreoceano. Sono stato influenzato dal luogo in cui sono cresciuto, dalle poesie di Garcia Lorca e dalla prosa illimitata di D'Annunzio. Segue un ciclo di pittura fantastica che coinvolge gli uomini e le cose in un panteismo incantato, atemporale (i colori sono quelli dei quattro elementi di Anassagora). Molti pensavano in quel tempo che imitassi Chagall, ma io non lo conoscevo ancora. La verità è che i pensieri e gli stili si ripetono reinventandosi nella visione soggettiva degli artisti che cavalcano la storia. Nonostante riuscissi già a creare opere di una certa importanza, dentro rimaneva un senso insoddisfatto dell'essere, l'incomprensibile, ciò che non riuscivo a tradurre di me. E arriviamo ad uno stallo, dopo tanto dipingere, con tutto l'accumulare quadri su quadri fino ad allora, sperimentazione e classicismo: la fame vampirica verso la rappresentazione del mondo interiore non era ancora soddisfatta. Ed ecco che l'artista, come se si potessero stampare le parole mentre si parla, vuole afferrare il momento al netto, il vero e immutato messaggio dell'ego: l'artista s’identifica con il creatore, egli è artefice di un pensiero puro che, seppur contaminato dalle conoscenze e dalle sovrastrutture, vivifica l'opera con l'estensione della sua anima sul dipinto.
Nel processo creativo qual è il rapporto fra verità e finzione?
Riallacciandosi a Freud, il pittore per eternare l'atto creativo elude se stesso e gli altri; crea una finzione di se stesso, una bugia prolungata per il prossimo. Beandosi della stessa bellezza dell'opera che ha creato, s’illude di ricevere una divinizzazione terrena. Ma quando l'artista comprende il significato e il senso stesso del suo cercare, la menzogna non può più essere parte di lui se non come meccanismo stilistico: l'arte si spoglia del mero gioco narcisistico e abbraccia l'uomo nella sua più intima natura. Ed ecco che la titanica lotta fra l'io creatore e il mondo fenomenico si traspone attraverso il conflitto tra l'io e il non-io sulla tela. Potremmo affermare quindi che nella parte finale del mio percorso c'è questa specie di ritorno al neoumanesimo per cui le mie opere non possono essere paragonate o indicizzate ma sono solo frutto interiore dei patemi dello spirito: il canto di Orfeo che libera Euridice consapevole del suo imminente voltarsi.
78 anni. Sabino, l’artista. Whiskey sotto l’ascella, carboncino in mano e la mitica frase “carta pane!” Ed ecco che il cameriere porta la “tela” un po’ unta sui lati e lui prepara il soggetto sulla sedia, lo scannerizza con occhi di falco e, in un italiano da un dente solo, dice “Fermo. Sei mio!” Lo trovi al “Posto 9”, uno chalet-ristorante di Martinsicuro che frequenta come fosse casa sua. Il tratto nervoso del Maestro elabora al primo incontro con i soggetti solo profili, metafora di una realtà che possiamo osservare limitatamente. Poi c’è “su la testa!”, “concentrati!” e “ho concluso!”, tira le ultime stoccate “paniche” e ti mostra il disegno finito, gira il foglio e mostra “l’anima”, il colore che ha trapassato la carta e rende l’unicità del soggetto: il disordine dell’assurdo, pozzo emozionale di chi, di chimere, non canta ragione o torto. Solo la distorsione enigmatica della bellezza.
Fammi un affresco di ciò che ti ha portato a fare quello che fai.
Io sono sulla strada per far capire agli altri cos’è l’arte. A scuola non la insegnano, per questo devo insegnarla qui sulla strada.
L’arte o la vita?
Sono la stessa cosa. L’arte insegna alla vita come la vita insegna all’arte.
Cosa vorresti cambiare del mondo?
Non voglio cambiare nulla. Però hanno dimenticato la sensibilità, pensano che siamo robot o robaccia simile, che non alziamo mai la testa. Bisogna ricominciare da capo, con calma e strategia moderna: una cultura rinascimentale, un nuovo rinascimento.
Quali sono le persone che preferisci?
Gli imperatori romani. Specialmente Cesare e Augusto. Chi ha creato e crea la civiltà, il progresso. Soprattutto Cesare, facendosi pontefice massimo, capì i meccanismi di base per un buon potere centrale.
Cos’è la politica?
Io avevo due zii. Uno era di destra, uno di sinistra. Sono morti tutti e due.
Descrivi la realtà che stai vivendo ad un uomo del futuro?
Dunque. Queste sono due fasi. La realtà attuale è che siamo in mano a dei buffoni. Se fra un anno non cacciamo tutti a calci in culo siamo rovinati. Il futuro? Non esiste…
Scrivi anche poesie, vero? In che lingua?
Scrivo le poesie in francese perché spesso non lo ricordo bene: la poesia è dimenticanza.
Qual è il senso della vita?
Lorenzo dei medici ha scritto “i canti carnascialeschi”. Quello è il senso della vita.
Qual è il senso della morte?
La vita stessa.