L’immaginario popolare è sempre stato in netta contrapposizione alle reali (spesso misere) condizioni di vita del popolo stesso. Come sottolinea Calvino in Lezioni Americane, la letteratura ha sempre cercato di evadere da questi problemi tramite il mondo fiabesco o di affrontarli metaforicamente come usa fare più volte Kafka (Es. Il cavaliere del secchio). Per l’Italia odierna trovi i metodi di comunicazione sopracitati utili o pensi sia più pratico, seppur meno confortante, un ritorno al realismo, sia esso di natura “comico-bukowskiana” o ancor più ferocemente verista?
Non concordo con l’analisi sull’elaborazione dell’immaginario o del fantastico. Detto che Kafka proprio non compie una simile operazione (e tanto meno lo fa proprio con “Il Cavaliere del secchio”, su cui, come notava Scholem, si potrebbe attagliare alla perfezione non solo un’interpretazione cabbalistica, ma anche una alchemica), il riduzionismo quasi feuerbachiano, ma comunque tipicamente occidentale, perde di colpo il punto centrale dell’esistenza dell’immaginario – che è quella di porre un punto umano fuori e dentro al tempo, fuori e dentro al legame di causa-effetto. Mi chiederei, a questa altezza, come può esistere un realismo: non sarebbe derivato da un apparato percettivo e, quindi, totalmente fantasmatico anche ciò che si desume dalla realtà? E perché la natura comica, che non è bukowskiana in quanto Bukowski era tutt’al più sardonico, dovrebbe suonare come una poetica in alternativa ad altre? La verità è che, terminata l’enfasi critica sui generi e la loro contaminazione, si passa grossolanamente al confronto tra poetiche...
La sofferenza, non solo fisica e psichica, ma soprattutto come prodotto di una caratteristica empatica, aiuta a capire il mondo e permette allo scrittore di penetrare il mondo reale tramite la descrizione dei moti interiori delle personae. Tu sei uno scrittore altamente empatico. Che rapporto hai con questa caratteristica, variabile congenita della tua scrittura?
La sofferenza, a mio parere e secondo l’insegnamento eschileo, aiuta a capire il se stesso, e dunque se stessi. Cogliere ciò che è comune, stabilmente comune, tra umano e umano, o tra creaturale e creaturale, significa sforzarsi di indagare l’interno quanto l’esterno, la realtà in quanto fantasma e la fantasia in quanto potenza reale. Ciò mette in secondo piano due forze che sembrano in gioco e invece appaiono soltanto occasionali: cioè lo “io” psicologico (dell’autore, ma anche del lettore) e la forma di arte con cui si entra in contatto. Tali forze sono assolutamente messe sotto scacco da ciò per cui esistono: che è altro dall’arte stessa e qualunque cosa di reale o fantasmatico che sia la sostanza di cui è fatto l’“io”. Leggevo un grande scrittore, l’altro giorno, dichiarare che morirebbe per la letteratura. Io ritengo che la letteratura muoia sempre per il “me”.
Descrivici il rapporto tra Genna scrittore e Genna personaggio. Perché Genna personaggio ha così bisogno di emozioni forti? Da cosa scaturisce questa rabbia latente che non esplode mai? Perché in Internet ti definisci “Il miserabile”?
Che il nome del grande Divisore sia legione, è cosa nota. Resta da comprendere chi o cosa sia tale Divisore. Ciò che sottintende la domanda è la differenza tra componenti dello “io”, razionali o meno, emotive o meno, psicologiche o reali. Potrei affermare che “Giuseppe Genna”, che sia autore o personaggio o l’ologramma vero e falso che appare su Rete, è una legione. Sono componenti multiple, che tentano di prendere sagomatura e possibilità di rappresentazione, per oggettivarsi davanti a una forza di discriminazione, di osservazione priva di giudizio, che non coincide con “Giuseppe Genna” (espressione che comprende anche Giuseppe Genna). Della mia vita privata molto coincide con l’esistenza o le movenze del personaggio a cui do il mio nome; molto altro, no. In Rete, poi, io seguo una retorica cangiante e contraddittoria, che molti purtroppo ha irritato. Questa personalità di Rete è la sagoma che, a ora, vorrei disciogliere con l’acido della mia capacità di sopravvivenza – e non riesco in ciò perché questo ologramma è uno strumento di lavoro, di sussistenza. Il Miserabile è un omaggio a Victor Hugo da un lato, un’autoironia circa il mio spesso esasperato o esorcistico pauperismo dall’altro lato, e infine un aggettivo bino, poiché contraddistingue lo “io”, essendo questo davvero perverso e davvero da commiserare nel senso dell’empatia.
Nell’assenza di contenuti che investe ogni campo culturale, si sente la forte mancanza di un intellettuale come Pasolini, il quale abbia il coraggio di una presa di posizione netta, estrema. Credi sia possibile oggi la diffusione mediatica di un pensiero intellettuale al pari di quello “pasoliniano”? O, altrimenti, quali ostacoli incontrerebbe?
Pasolini è anzitutto un artista – si tende a scordare questa semplice verità e a ignorare che l’atto estremo di questa conclamata nitidezza politica è essenzialmente un’opera d’arte: cioè Petrolio. Detto ciò, oggi non ravvedo alcuna possibilità di penetrazione, da parte dell’intellettuale, nel contesto pubblico e politico. Ciò non significa che l’intellettuale o il creatore non debba prendere una posizione netta: anzi, se non lo fa, non è artista. È la posizione del pasolinismo tribunizio che trovo intollerabile e deviante. È ovvio, per fare un esempio, che Roberto Saviano ha inciso in parte su una realtà; ma non illudiamoci che i suoi lettori siano stati “educati” al civico dalla scrittura di Saviano. Inoltre io trovo che Kafka o Celan sortiscano una potenza del politico di abnormi dimensioni. È soltanto il momento presente a volersi apolitico, anideologico – risultando così violentissimo, discrimatorio, ingiusto e peraltro infondato dal punto di vista umanistico. A uno scrittore, di fatto, cosa spetta? Raccontare il mito, che è anche e soprattutto ritmo.
Secondo te in cosa risiede precisamente il potere taumaturgico della scrittura?
Nel momento preciso in cui si scrive, si è e non si sa cosa si è – se maschio o femmina, se giovane o anziano. Questa è la porta della taumaturgia attraverso la scrittura. Accade lo stesso per chi legge, se è nell’incanto della lettura. Si è – questo è tutto, bisogna trarne conseguenze non semplicemente intellettuali.
Facci un’analisi del cinema contemporaneo italiano.
È inesistente se non in fenomeni (faccio un nome per molti) come Davide Manuli, autore di Beket, premiato a Locarno e vincitore del Miami Film Festival.
Cosa ne pensi delle fiere del libro che si svolgono in Italia? Quale paese sceglieresti per pubblicare?
Non ho opinioni circa le fiere. Sulla nazione in cui pubblicare: dal punto di vista linguistico, solo l’Italia e l’India detengono una lingua talmente antica da avere trapassato la propria morte, per entrare in uno stato di esaustività ed esaurimento. La lingua esausta determina una frontiera interessante sulla quale lavorare. Poi: mi piacerebbe pubblicare in America per motivi prettamente materiali, nel senso che ravvedo là più chance di vivere con la scrittura, quindi di potere studiare di più.
Nella letteratura del Novecento molti hanno scritto riguardo il trapasso dei propri cari. Gadda, ad esempio, racconta la morte della madre, Svevo quella del padre; In Italia De Profundis cosa ti ha spinto a fare altrettanto?
La verità, che è amore. La necessità libera ad accedere alla zona paterna. Non certamente il lutto.
Jodorowsky, Battiato, Lynch: tutti sostenitori di varie pratiche esoteriche. Come mai anche tu ti schieri con loro? Cosa ti affascina di tale filosofia?
Non mi schiero affatto con nessuno. A me interessa la pratica metafisica, che è filosofia autentica, e circa la quale non c’è da dire molto. In ogni caso sono estraneo a qualunque attività di ordine esoterico, che proprio non mi interessa. Dubito inoltre che Lynch, dei tre citati, sia legato a pratiche esoteriche.
Il resoconto delle varie esperienze borderline da te praticate in Italia De Profundis sembra in realtà pura finzione letteraria essendo non credibile che una tale accuratezza lessicale, culturale e introspettiva appartenga a chi ha tentato coscientemente di abiurare al proprio raziocinio. Quanto c’è di vero in tali esperienze? Cosa significa per te “romanzare”?
Non ravvedo assolutamente questa distinzione tra raziocinio ed emotivo. Anzi, per me il problema è proprio quello di unificare, stando a me e me soltanto, psichico emotivo e somatico attraverso la scrittura. È la possibilità di una sutura per un’antica ferita, quella che mi offre il refe della scrittura. Tra credibile e incredibile, poi, proprio tenderei a fare molta attenzione – in presa diretta, se si è stati molto immersi nella lingua che si percepisce come propria lingua, è possibile raggiungere gradi estremi di esattezza. Inoltre va detto che parte della critica, proprio laddove voi ravvedete accuratezza, percepisce cadute e incapacità linguistica. Se si cerca di sapere se sono stato con tre travestiti, dirò che no; se mi sono praticato inoculazioni di eroina, dirò di no; se ho ucciso un uomo affetto da SLA, dirò di no; se mi sono inviato una lettera a distanza di anni, dirò di no; se sono stato in un villaggio turistico in Sicilia, dirò di sì; se sono stato davanti a uno sciamano che somiglia vagamente al ministro Frattini, dirò di sì; se ho sofferto di orticaria insedabile perfino dal cortisone, dirò di sì. Tutto ciò non apporta nulla al grado di eventuale verità del libro. Romanzare, per me, significa spingere, attraverso verisimiglianza data a priori dalla lingua, a una domanda extraletteraria che è: “Chi sono io?”. Romanzare, per me, è tentare di giungere e far giungere al grado zero.
Quanto ti ha influenzato il filone “espressionista” (identificato da un noto critico letterario quale G. Contini) che parte da Dante e ha come sue peculiari caratteristiche ad esempio il pastiche linguistico, seppur tu lo utilizzi in ambiti stilistici?
Moltissimo, sebbene non segua alcuna indicazione teorica in tal senso. Mi è molto chiaro, e principalmente perché vengo da una militanza pluriennale nella poesia contemporanea, che la mia lingua di superficie è porosa, scarta, si muove addirittura grossolanamente, precipita per sbagli. Ciò è tipico di quella che il grande critico e traduttore Giuseppe Guglielmi definiva “linea calda”, la quale nozione molto ha a che spartire con quella continiana. Rifiuto totalmente invece l’idea del pastiche come approdo o effetto – si tratta, al limite, di un segmento di retorica, la quale retorica è un patrimonio umanistico che va reinterpretato, se non rifondato, secondo le indicazioni di Burroughs. La lingua di superficie, se di matrice espressionista, sta a indicare una lingua più carsica, fatta di ritmo e di retoriche che sono anch’essi sotterranei.
Che cos’è www.ripubblica.net?
È un’iniziativa editoriale della web agency in cui lavoro, Siris (www.siris.com), la quale iniziativa ha uno scopo che si scoprirà col tempo.
Progetti futuri?
Lavorare con più precisione, e più in silenzio, su me stesso. Dal punto di vista editoriale, che immagino interessi maggiormente, tre libri.
di Stefano Tassoni
La citazione del titolo prevederebbe che focalizzassi l’articolo sul duemiladieci come lo scrittore fece inquadrando bene il Portogallo salazarista, estrema falange di una già martirizzata Europa nell’aurora della sua più nera pagina: è il 1936, un anno dopo la scomparsa del suo inventore (Fernando Pessoa) muore Ricardo Reis. Ed è chiaramente un pretesto per parlare della dittatura portoghese, ma non solo; è anche l’occasione per Saramago di “affontare” vis-avis l’altra colonna portante del Novecento letterario portoghese. Non è da tutti misurarsi con i propri predecessori. Petrarca, ad esempio, finse per tutta la vita di non aver mai letto la Commedia poiché sapeva (per sua stessa futura ammissione) di non poter uscire incolume dal paragone con il Poeta, né tanto meno potevano farlo i suoi Trionfi. Onore al merito dunque dello scrittore lusitano: se è vero che Pessoa non è assolutamente accostabile a Dante come Saramago non lo è a Petrarca, confrontarsi con la propria tradizione resta comunque un atto di lodevole coraggio. Non a caso, a farlo è l’unico scrittore di tutto lo stato insignito di Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Il riconoscimento a livello internazionale arrivò, infatti, solo negli anni Novanta, pur avendo alle proprie spalle una già corposa serie di opere, con Storia dell’assedio di Lisbona, una delle più belle storie d’amore mai scritte, il controverso Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Cecità. Tratteremo gli ultimi due per costatare post-mortem il suo rapporto con la religione, sapendo si dichiarò ateo in seguito alle polemiche scatenatesi dopo il suo Vangelo che lo indussero a trasferirsi alle Isole Canarie. Polemiche riaperte nel 2009 con l’uscita di Caino, altro romanzo con soggetti attinti dal libro sacro, e specificatamente dal Vecchio Testamento, nel quale si descrive un Dio “vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia”. Sembra quindi che nel suo ultimo lavoro lo scrittore intendesse chiudere specularmente la parentesi aperta nel 1991 rivisitando il Nuovo Testamento. Il Gesù Cristo di Saramago, da alcuni cristiani ortodossi ritenuto blasfemo, è un carattere fortemente spirituale, ma in tutto e per tutto umano, che incarna i dubbi e le sofferenze propri della condizione universale di uomo. Il figlio di Dio, dalla nascita a Betlemme alla morte sul Golgota, affronta le medesime esperienze descritte nei Vangeli, qui però narrate secondo una prospettiva terrena, con spirito critico e senso logico. Viene così ri-immaginata tutta la storia terrena del protagonista dal suo concepimento, carnale come per ciascuno di noi, all’amore verso la Maddalena, all’erosione della linea di demarcazione tra Bene e Male, tra Dio e Satana interpretati come le facce di una stessa medaglia. In questa storia non c’è fede nei miracoli, bensì coscienza di trovarsi in balìa della volontà di potenza di un Dio padre distante e indifferente al dolore che provoca. La serie di disgrazie, stragi e morti che costellano l’esistenza di Gesù, fino al non cercato e non accettato compimento del destino di vittima sacrificale, diventa così un’occasione per riflettere sulla problematicità di compiere il giusto tramite l’ingiusto, sull’imperscrutabilità del senso della vita umana e sulla sconcertante ambiguità della natura divina. Il romanzo, come già detto, verrà fortemente contrastato dalla Chiesa, ma incurante di ciò l’autore continuerà il suo iter alla ricerca dell’essenza primaria degli uomini. A tal fine, la critica nel 1995 indica in Cecità il capolavoro dello scrittore lusitano. In un tempo e un luogo non precisati, all’improvviso l’intera popolazione diventa cieca per un’inspiegabile epidemia. Chi è colpito da questo male si trova come avvolto in una nube lattiginosa e non ci vede più. Le reazioni psicologiche degli anonimi protagonisti sono devastanti, con un’esplosione di terrore e violenza, e gli effetti di questa misteriosa patologia sulla convivenza sociale risulteranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l’insensibilità altrui, e qui si manifesta tutto l’orrore di cui l’uomo sa essere capace. Si capisce qui il vero intento dell’autore: attraverso l’escamotage della cecità globale, disegna la grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di qualunque forma di razionalità, artefice di abbrutimento, violenza, degradazione. Il romanzo acquista così portata e valenza universali sull’indifferenza e l’egoismo, sul potere e la sopraffazione, sulla guerra di tutti contro tutti; una dura denuncia del buio della ragione, con un catartico spiraglio di luce e salvezza. Infine, nel suo ultimo romanzo, Caino è protagonista e voce narrante. È lui che racconta della blasfema convivenza fra Eva e il cherubino Azaele, l’assassinio del fratello Abele e il suo successivo dialogo filosofico con Dio, la maledizione, il marchio e l’incontro con l’insaziabile Lilith nella città di Nod. È attraverso i suoi occhi che assistiamo al sacrificio di Isacco, alla costruzione della Torre di Babele, alla distruzione di Sodoma. È lui che dialoga con Mosé in attesa sul monte Sinai e che vede nascere l’identità israelita, fino a un ultimo duro confronto con Dio. Saramago rivendica il diritto di dire la sua in materia di religione. E lo fa, anche questa volta, a voce ben alta, con quella sua inconfondibile ironia capace di trasformare in sublime letteratura la storia di un Caino che accetta, sì, il proprio castigo per l’uccisione di Abele e il destino di errante, ma, insieme, insorge contro un dio crudele e sanguinario che considera corresponsabile. È a questo dio che Saramago, per voce di Caino, chiede spiegazioni, per affermare ancora una volta che “la storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, perché lui non capisce noi, e noi non capiamo lui”. Ed è essenzialmente l’uomo, purtroppo per l’ultima volta nelle pagine del grande scrittore, a essere protagonista.
Quella sera eravamo strafatti di Ketamina e MDMA, io e Menphis. Era la sera adatta per l’invenzione di una nuova rubrica. - Cosa serve per scrivere una rubrica? - chiese Hanry Menphis. - Non so, forse alcol. Vuoi dell’alcol? - risposi. Sapevo già che avrebbe accettato e gliene versai. Poi mi misi a sedere sulla grande poltrona di giaguaro. - Sai Menphis, in questo periodo le storie mi escono dalle dita come se dovessi pisciare. Sono delle vescicone piene di piscio con forti problemi di ritenzione. Menphis rimase in piedi, con il suo bicchiere in mano - Ti capisco Luca, a volte ho la sensazione che il mio cervello sia troppo grande per il cranio. Sento la corteccia cerebrale premere prepotentemente sulla ossa. Forse sto diventando un dobermann. I due continuarono a parlare e la storia d’un colpo passò ad essere narrata in terza persona: le trame, signori miei, non accettano di farsi calpestare dall’ordinario. Allorché, mentre i due sorseggiavano alcol e la notte passava, una creatura astratta prendeva vita: la rubrica. E lei non riusciva a sopportare l’ignorante voce con cui il primo si rivolgeva all’altro, ancora più ignorante . Ma era nata dal loro bisogno di parlare di qualcosa, di qualsiasi cosa, purché riempisse quel dannato silenzio. Era una rubrica che non esprimeva alcun concetto, quasi a volersi dire sopra le parti. Ma in effetti sentiva un profondo e viscerale disagio per la sua inutile esistenza. Rubrica senza senso, almeno apparentemente simile al resto della popolazione, ma cosciente della mentalità comune che l’avrebbe connotata come rifiuto. Decise di suicidarsi. Il difficile stava nel trovare un modo. Poteva sperare che i due, risvegliandosi il giorno dopo, si rendessero conto della cazzata che avevano fatto. Ma il giorno dopo prevedeva un equivalente dosaggio di MDMA e Ketamina. Sarebbe rimasta in vita, reduce di cicatrici cerebrali di due venticinquenni che non accettavano la realtà. Troppo banale, sarebbe troppo banale ridurre la sua infinita superficialità a del semplice “troppo banale”. Troppo umana. E allora che senso aveva tendere alla perfezione per sapersi alla fine comunque incompleti? Che senso aveva laurearsi in economia per poi non vedere neanche un soldo? Non aveva senso cercare un senso fittizio se alla fine della giornata la morte sarebbe venuta lo stesso, travestita da preoccupazioni per il giorno seguente, mentre della Marlboro non sarebbe rimasto che il filtro, e il catrame nei polmoni sarebbe stato sempre più forte di qualsiasi menzogna si potesse usare per giustificarlo. Così i due decisero di non cercarlo, quel senso; di non inventare un’arte che si arrogasse il diritto di spiegare tutto, ma limitarsi a passare il tempo, scrivere per riempire quel grasso disagio interiore, figlio del terzo millennio. Hanry Menphis e Luca Torzolini alternavano letture di elevatissimo spessore a cose totalmente demenziali, Popper ai Monty Python, Happy Tree Friends a Pasolini. Quindi cosa poteva fare la loro creatura? Le sembrava impossibile abituarsi all’idea di quella vita, trascorsa tra l’essere un abominio dell’editoria e la rubrica preferita di tanti imbecilli. All’improvviso, nell’affermazione di uno dei due su un certo Gurdjieff, prese la direzione della rubrica esoterica. Ma ad un chiasmo romantico recitato dall’altro si sentì subito sturmunddranghiana. Il lungo silenzio a venire le tolse di dosso il grande fardello: i due stavano pensando ora ad ammucchiate selvagge; ognuno nella propria testa scopava un numero indecifrato di ragazze mulatte, asiatiche, caucasiche. Prendendo esempio dalla facoltà femminile di sincronizzare il giorno del mestruo con le donne con cui si convive, le menti funamboliche dei due scrittori si diressero verso il medesimo punto, al centro di quell’orgiastico universo, per incontrare la stessa fanciulla. Una telepatia sincronica l’incollò per sette minuti e quaranta all’identico, infimo pensiero sconcio: la presero, Juliette, 21 anni, la presero e legarono il suo corpo al letto. Lei protestava, impotente, mentre i due indossavano i loro abiti di scena. Luca Torzolini , da carismatico Zorro , cavalcava la puledra imbizzarrita e, con grevi colpi di fianco, assestava potenti penetrazioni nel foro anale. Hanry Menphis, alias Aquaman, esplorava ogni condotto fino a sverginare anche il foro lacrimale. All’unisono vennero con urla e gesta inconsulte sul corpo esanime di colei che - nonostante fossero fatti come muli - avrebbero ricordato per sempre. La fantasia finì. La realtà, in tuta mimetica e berretto verde, li attendeva pronta all’agguato. - Oh, ma questa rubrica? - disse Torzolini. - Alcol, serve alcol! - rispose Menphis. E i due se ne versarono ancora. La rubrica era rediviva, come un vampiro risvegliato da un lungo torpore, e si stava avviando con profondo disagio verso le strazianti rotte della rubrica a tema. Nulla di più inquietante poteva capitare, dalla sua nascita, ad un rubrica. Etichettata, identificata in un pericoloso modello che riproponeva di volta in volta lo stesso schema esplicativo per narrare aneddoti di Rimbaud, Diogene o chiunque altro, o per intersecare fra loro periodi storici e correnti artistiche , facendo ciò che alla fine dei conti può essere letto come un semplice sproloquio soggettivo senza alcuna attinenza con la realtà. - Si potrebbe chiamare “Ma chi sono io per fare una recensione critica su un quadro?”. - disse Torzolini. - Sì - rispose Menphis - in realtà parliamo solo del pittore e del suo escursus artistico, senza scrivere nulla sul dipinto. -
- Esatto - si esaltò Luca mentre stappava altre due bottiglie di alcol - e concludiamo ogni volta la rubrica scrivendo “All’interpretazione del quadro, a questo punto, pensateci voi”... Bene, visto che è un’idea figa lasciamola per un’altra Racconti di Luca Tor zolini e Hanr y Menp his rubrica. Adesso pensiamo a questa. - continuò Torzolini, che frettolosamente si dirigeva verso il bagno per vomitare. Hanry Menphis, rimasto solo, contemplava con avidità la luce scarna della lampada da cucina, affezionato all’arcaico impulso elettrico che dominava un tempo le scimmie nel circo dei fratelli Watislava. Di colpo si destò dal suolo l’editor, che ore prima era stramazzato a terra a causa di una sfida leggendaria: tracannare una damigiana di vino rosso non fermentato, da due litri e mezzo. Tassoni Stefano, questo era il suo nome, cominciò da subito a sparlare della rubrica in modo saccente e viperino. - La rubrica sarà sulla storia culturale dell’Italia centromeridionale! O no, meglio ancora, sarà invece sulle disquisizioni sopra i Paralipomeni della Batracomiomachia!! - Dopodiché perse di nuovo i sensi. Era l’unico acculturato del gruppo. Poverino, avrebbe fatto una brutta fine. Loro là a cercare di sbarcare il lunario con la rivista più cazzona della storia editoriale italiana e lui imprigionato con loro, in quella litote d’impertinenza che mitragliavamo contro il genere umano. Eppure nel frattempo qualcuno prendeva appunti, là, nell’angolo della stanza. Una donna saggia senza età scriveva senza sosta le lettere che ora v’imbocca a viva forza senza le giuste precauzioni. Più tardi sarebbe morta, per non avervi fatto usare il preservativo. Hanry Menphis e Luca Torzolini l’avrebbero seppellita in giardino, scrivendo sulla sua lapide:
“FANTASIA, NATA IL 00/00/00, MORTA IL 21/05/10”
Sarà difficile senza lei creare,
cercare motivazioni scomposte
che le vostre proposte
potessero stupire.
Magari andare avanti di poesia,
purché non rubino a vossia
talento e grazia.
L’artista ipocrita ringrazia
e s’inginocchia umile ma sapiente
al vostro dio penitente
che presto invecchiare v’ha fatto
con “l’identico” a contratto.
A tempo indeterminato.
A quel punto le idee stavano per finire. Nelle menti dei due scavava con forza il proprio rifugio Il Grande Vuoto. Presi dalla scintilla dell’ultimo impulso vitale, due neuroni sull’orlo del collasso incrociarono i propri assoni per dare un senso al finale. - Quale credi sia l’unico modo in cui una rubrica possa suicidarsi? - chiese Hanry Menphis. Torzolini rispose - trasformandosi in un semplice racconto - poi si alzò e se ne andò da casa dell’amico, portandosi via le sue buste piene di piscio
di Stefano Tassoni
Metallica (1991), il quinto lavoro in studio della band omonima (informalmente conosciuto come The Black Album per la copertina) è, nel bene o nel male, il disco (c’è chi lo definisce “metal”, chi “hard rock”) più venduto delle ultime tre decadi. Già, perché se da un lato è stata la consacrazione dei “four horseman”, dall’altro è stato considerato un vero e proprio tradimento da parte dei fan più estremi del “thrash-metal”, cullati dai precedenti quattro lavori in studio. Personalmente è così che li ho conosciuti, e solo consequenzialmente ho scoperto le suddette (tradite?) origini. Ci sarà chi rimarrà di sasso nel leggere questa recensione, ma i brani sono tutti appetibili al primo boccone, chi più, chi meno (ed è la maggior critica degli amanti del “thrash”: troppo melodico, troppo armonico). Sei brani su dodici, l’esatta metà, diventeranno future hit del gruppo e loro cavallo di battaglia (Enter sandman, Sad but true, The unforgiven, Wherever I may roam, Nothing else matters, Of wolf and man) conosciutissime per chiunque, per cui su di esse non mi dilungherò soffermandomi invece sulle restanti. È senza dubbio la canzone più rapida, anche se è in lizza con Through the never, veloce e potente “track” che sembra voler riallacciare (miseramente?) i Metallica al loro (glorioso?) passato, Holier than thou. C’è poi Don’t tred on me, fortemente cadenzata dalla pesante batteria e dai classici riff da metà canzone. Chiaramente la più discutibile. Chiudono il disco tre stelle neglette, surclassate da ben più splendenti sorelle, che comunque però valgono l’ascolto: The God that failed, My friend of misery, The struggle within.
di Stefano Tassoni
“Sei proposte per il nuovo millennio”: caratteristiche che la letteratura, e quindi indirettamente gli scrittori, posteriori al Duemila dovrebbero non dimenticare di portare con sé... Un libro dunque comprensibilmente essenziale per chiunque si accinga a scrivere: da magnifico mentore, l’autore riesce a non opprimere mai il lettore con la sua erudizione da intellettuale (poiché denota ignoranza chi lo consideri semplicemente uno scrittore) anzi, appassiona e sorprende con la stessa familiarità colloquiale tipica di un fratello maggiore. Nello specifico le sei caratteristiche, analizzate nei relativi saggi (queste le intenzioni, ma purtroppo la morte colse il conferenziere poco prima realizzasse l’ultima) derivati da relative conferenze, sono nell’ordine: la “leggerezza”, la “rapidità”, l’“esattezza”, la “visibilità”, la “molteplicità” e l’incompiuta “consistenza”, di cui abbiamo solo il titolo e il libro-simbolo: Bartleby di H. Melville. Sei ‘modus scribendi’ incarnati per ogni saggio da diverse opere, non soltanto romanzi, ma anche racconti, miti e leggende popolari: dal Decameron al Voyage dans la lune di Cyrano de Bergerac, dal De Rerum Natura alla Morfologia della fiaba di Karl Propp e l’elenco sarebbe infinito per gli innumerevoli esempi pur limitandosi al primo saggio. È bene infine premettere che considerando tali qualità Calvino non esclude i loro opposti anzi, li include come facce della stessa medaglia: « ...sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io considero le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’avere più cose da dire.»
di Stefano Tassoni
La rappresentazione caricaturale del critico che conosce a menadito l’intera bibliografia riguardante un determinato autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o non legge compiutamente) i testi del suddetto, ha la sua prima attuazione nella figura del mediocre docente. Nulla di più lontano dal celebre artista francese… Personaggio di culto per la futura generazione sovvertiva francese (ma non solo) degli anni ’60 – ’70, Boris Vian muore la mattina del 23 giugno 1959 (lo stesso anno in cui Piero Ciampi lascia Parigi per la sua Livorno) a causa di un colpo apoplettico susseguente le prime scene del film tratto dal suo controverso romanzo “Sputerò sulle vostre tombe”, durante cui, pare, sia esploso in preda all’ira: “E questi dovrebbero essere americani?? Col cazzo!!!”. La storia di questo romanzo è la storia di uno scandalo. Nell’estate del 1946 l’editore D’Halluin era a caccia di un romanzo americano, considerato il successo ottenuto all’epoca dagli autori d’oltreoceano. Vian propose di scrivergli in quindici giorni, e meglio di un americano, un libro scabroso dalle tinte davvero forti. Nacque così Vernon Sullivan, scrittore nero censurato in America a causa del razzismo, e nacque Lee Anderson, nero dalla pelle bianca, che vuol vendicarsi per l’assassinio del fratello e quindi stringe amicizia con una cerchia “bene” di bianchi, con il progetto di sedurre le splendide e inavvicinabili sorelle Asquith... Il plot si sviluppa sui tratti salienti della “gioventù bruciata”: automobili a folle velocità, brividi dell’avventura, alcol, violenza, sesso, per poi raggiungere una crudezza esemplarmente riassunta dal titolo. Ma Vian non fu solo questo.
Chi ti credi di essere?
Innanzitutto io non mi credo, nel senso che non credo a me stesso, ma so per esperienza di essere un buon affabulatore, quindi la domanda non è "chi ti credi di essere" ma "chi gli altri credano io sia”.
Vedi Lu', quando ormai si è etichettati non se ne può più uscire, per questo qualunque cosa faccia, trasuderà sempre cultura ad occhi altrui. Forse sono la plurisecolare e imperitura anima di Socrate, secondo la ben nota teoria della metempsicosi.
Come è possibile riconoscere l'uomo più saccente al mondo?
Lo sapevi che nell'antica Roma i riti matrimoniali si celebravano con la formula "Ubi tu gaius, ego te gaia"?
Perché utilizzi spesso termini linguistici quasi proibiti alla maggior parte della popolazione?
Per diffondere il loro utilizzo tra l'enorme massa degli ignoranti, dalla quale strisciando carponi sono assurto come un verme, il Verme Conquistatore di Poe.
Che valore ha per te l'estetica?
È semplicemente il plus valore nell'operato di un artista.
È vero che l'Hypnerotomachia poliphilii è stata scritta da Francesco Colonna e che con quest’opera ha lanciato il genere che sarà poi definito dalla critica polifilesco?
Tu l'hai detto, come disse Gesù Cristo a Kaifa durante il proprio processo.
Cos'è che ti manca?
La proprietà ignifuga, metaforicamente parlando e, in virtù di tale registro, ricorda che previa argomentazione posso darle il significato che voglio.
Cosa porteresti su un'isola deserta?
Te.
Perché?
Per il piacere di aver tabula rasa su cui scrivere qualunque cosa, magari una brutta copia di una lista della spesa che ovviamente, essendo su di un’isola deserta, non potrà mai evolvere a bella copia, mancando il supermercato.
Una ricetta per migliorare il paese?
In padella a fuoco lento.
Ci fa una domanda?
Da dove comiciare?
Che consigli daresti ad un giovane che volesse diventare saccente?
Classici, classici, classici.
Qual è il classico dei classici?
In realtà potrei rispondervi, prendendovi per culo tutti, un qualunque iperonimo letterario.
Chi sono i tuoi maestri?
Non ho maestri e in questo modo posso alludere al fatto che tutti potrebbero essere miei maestri. In filosofia il Tutto e il Nulla si equivalgono e analogamente il discorso può essere trasposto al Tutti e Nessuno.
Perché hai tanti problemi di dizione se sei così saccente?
Perché per quante cose so, so che le cose non dette posso essere intese. O meglio, mi si accavalla la lingua.
Cosa c'è di sbagliato nei modi di dire?
"Il sole sorge". Sono 2000 anni che dicono così mentre si sa benissimo che il sole è fermo. Colpa dei modi di dire.
Cosa vuoi fare nella vita?
Mi piacerebbe saperlo. E infatti lo so. Evolvendo nel volgare il verbo latino “sapio” (= io so), come in tutti i casi in cui una parola latina evolve, sono possibili due soluzioni: una dotta per cui “sapio” da “sapienza”, l’altra popolare per cui “sapio” evolve in “saccio”. È semplicemente l’evoluzione del nesso consonantico P+J che se non può modificarsi rimane invariato. Da qui inutile spiegarvi cosa voglia fare nella vita, no?
Perché sei misantropo?
Perché, come scritto nell’ Heautontimorumenos “Homo sum nihil umanum a me alienum puto”, e conoscendolo in parte già so che conoscerò qualcosa che mi farà sempre più schifo.
Se il genio della lampada volesse esaudire un tuo desiderio, che vorresti?
Vorrei sapere perché voglia esaudirlo. Quale oscuro motivo potrebbe mai indurre un’essenza ectoplasmatica a occuparsi dei miei desideri? C’è sicuramente qualcosa sotto…
di Stefano Tassoni
Completati gli studi in Ucraina, nella sua patria natale, l’autore partì alla volta di Pietroburgo in cerca d’un impiego. Ma gli guastò l’arrivo nella capitale un forte raffreddore, ancor più fastidioso perché, avendo la punta del naso gelata, non la sentiva. Così, subito trecentocinquanta rubli se ne andarono in vestiti nuovi: tale è almeno la cifra riportata in una delle sue rispettose lettere alla madre. Tuttavia, stando a una di quelle leggende che in anni successivi Gogol’ seppe intessere con tanta abilità intorno al proprio passato, si recò in primissimo luogo a fare una visita a Puškin, del quale era fanatico ammiratore, benché non conoscesse di persona il grande poeta. Lo trovò però ancora a letto e non si poteva parlargli. «Dio mio, » disse, pieno di reverenza e di compatimento «deve aver lavorato tutta la notte, vero?» «Lavorato!» sbuffò il cameriere del maestro «Macché! Giocato a carte! »
Aveva portato con sé a Pietroburgo alcune poesie, tra le quali Hanz (sic) Küchelgarten: il poemetto tratta d’uno studente tedesco, un po’ byroniano, e contiene immagini ispirate da un eccesso di letture “sturmunddranghiane” e cimiteriali. In più d’un’occasione si ha l’impressione che il vivace umore ucraino del giovane poeta prenda il sopravvento sul patetismo romantico, eppure fu un completo disastro. Scritta nel 1827 e pubblicata nel 1829 fu letteralmente stroncata da una recensione, breve ma micidiale, sul «Telegrafo di Mosca».
Gogol’ e il suo fidato domestico si precipitarono dai librai, comperarono tutte le copie e le bruciarono. La carriera letteraria dello scrittore cominciò quindi come doveva finire una ventina d’anni dopo, con un rogo catartico imposto dalle sue crisi ascetico-religiose e iniziate in seguito alla frequentazione di un fanatico prete predicatore, tale padre Matvèj Konstantìnovskij, presentatogli dal conte Aleksàndr Petròvič Tolstoj, altra sua vittima.
Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1852 facendosi nuovamente aiutare dal suo servitore, prese un pacco di quaderni legati da un nastro e lo gettò nella stufa ardente. Il servitore, secondo il racconto lasciatoci dal fedele amico Pogodin, «comprendendo di che si trattava, cadde in ginocchio e lo implorò di non continuare. “Non è affar tuo”disse il maestro“è meglio pregare.” Il ragazzo prese a singhiozzare e continuò a implorare. Gogol’ notò che il fuoco si stava spegnendo e che solo gli angoli dei fogli erano carbonizzati. Allora riprese il pacco, slegò il nastro, dispose i fogli in modo da facilitare la combustione, accese di nuovo la candela e si sedette su una sedia di fronte al fuoco, aspettando che i fogli si consumassero. Quando tutto finì, tornò nella sua stanza, baciò il ragazzo, si sdraiò sul letto e scoppiò in lacrime». Secondo un’altra testimonianza, il mattino seguente chiamò il conte e gli disse che il diavolo gli aveva teso un inganno inducendolo a bruciare il manoscritto delle Anime morte invece di certe carte inutili. In ogni caso, dopo questo episodio lo scrittore cadde in uno stato di cupa malinconia e, giunto ormai a uno stato di debolezza irreversibile a causa dei prolungati digiuni con cui voleva mortificarsi, morì il 21 febbraio.
di Stefano Tassoni
La genesi di quello che, a giudizio di chi scrive, rappresenta il miglior album dei Pink Floyd è da ricercare nel senso di colpa del suo autore per uno sputo dato in pieno volto a un fan, durante il tour di Animal (1977)... Ma questa è pura aneddotica. Il concept ruota attorno Pink, figura che attinge dall’immaginario del rocker schivo e maledetto: una stella sull’orlo del collasso pronta ad esplodere. Una serie di rilevanti avvenimenti della sua esistenza lo indurranno ad una chiusura totale nei confronti del mondo esterno fino a spingerlo a erigere un muro di incomunicabilità tra la sua mente, e la realtà circostante a lui completamente devota. Sarà però la sua mente a metterlo sotto processo, dopo aver preso le sembianze del Giudice Verme,di fronte al quale testimonieranno tutti i personaggi contribuenti alla costruzione del muro; una spietata autoanalisi conferma quindi l’accusa di “aver dimostrato sentimenti umani” e la punizione non può essere che la più atroce, sebbene al contempo liberatoria: essere riconsegnato al mondo, essere costretto ad abbattere il muro.
La musica, accompagna ed esprime magnificamente, con un sound pieno e limpido, le tematiche dell'album, rispecchiandone anche l'intensità emotiva e la violenza di fondo. Il disco è coinvolgente, stilisticamente ricco, ed i momenti memorabili sono parecchi. Si spazia da ballads marcatamente ‘floydiane’, a pezzi carichi di lugubri leit-motiv, a canzoni d'autore accompagnate dal pianoforte. Un lungo viaggio straniato che ha accompagnato molti in ore ed ore di quieta disperazione, e che ancora oggi continua ad esercitare un fascino violento.
di Stefano Tassoni
Perdonerà l’esimio filologo-romanzo Alfonso Maria Petrosino quest’umile e sgangherata recensione di un futuro collega, ma l’omaggio è d’obbligo. L’opera si presenta come uno snello libercolo di un’ottantina di pagine divise in quasi sessanta componimenti poetici con forme e metrica delle più disparate: canzoni, ballate, sonetti e madrigali si alternano a mottetti, reinvenzioni stilistiche e componimenti burleschi sensu latu, cui da superbo mastice spiccano l’enorme ironia, rivolta spesso verso l’autore stesso, e il gusto dell’irriverente risata trobadorica (e alludo a Guglielmo IX, duca d’Aquitania) persino di fronte alla morte. Colpisce inoltre la padronanza della ritmica poetica a tal punto affinata da saltare da un binario linguistico all’altro; eccone un minimo esempio: “Guardo i piedi della gente/che incontro in corso Cavour/canticchiando nella mente/Gaudeamus igitur”, con inaspettata allusione al canto goliardico simbolo della spensieratezza giovanile universitaria medievale… che dire? La semplice cattura di una perla tanto inusitata lascia piacevolmente esterrefatti, ma la raccolta è ben lungi dall’esser mero (e quindi vano) gioco intellettuale inter pauperes poiché sono semplici pepite adagiate in un forziere di pietre preziose: non risultano imprescindibili al valore di esso ma, una volta colte, si limitano ad aumentarlo. Purtroppo non c’è spazio per citare o anche solo dire altro, pena il ritaglio dell’articolo, ma un’ultima lode è da attribuire alla dedica: “alle ragazze”, da perfetto tombeur de femme degno del migliore Bernart de Ventadorn, non perde tono neanche nell’ardua prova d’indicare un destinatario.
di Stefano Tassoni
A me l’onore e, ahimè, l’onere di parlare del libro più magnificamente provocatorio dell’ultimo decennio! Ma non espliciterò oltre la spettacolare oggettività con la quale l’autore descrive, continuamente stupendo il lettore incallito che ancora speri di coglierlo in fallo, il suo mondo attraverso lo sguardo cinico-materialista tipico suo e degli autori del calibro di Raymond Carver, Bret Easton Ellis e Don De Lillo… Michel è un ricercatore di biologia con un brillante avvenire davanti a sé ma oltre che da un eccessivo stacanovismo è caratterizzato con tinte fredde che ricordano vagamente il “contemplatore” schopenaueriano, pur senza l’emotività di questo: appare infatti come un estremo calcolatore capace di osservare la vita nel suo scorrere (e prosciugarsi), annoiandosene. Un personaggio del genere può affascinare, certo, anzi, senza dubbio, ma alla lunga potrebbe rivelarsi piatto, monocromo. Ecco allora che il ruolo del protagonista necessita di un complice: Bruno, in sostanza, l’antitesi di Michel. Già, perché è un uomo di lettere. E di sesso. L’altra metà dello scibile umano appare così delineata con piccole e rapide pennellate che tuttavia denotano la stessa magniloquenza dei narratori russi ottocenteschi. Arbitrariamente penso alla descrizione a tutto tondo del mondo che offre Delitto e Castigo, ma se per Dostoevskij sono state necessarie più di 600 pag. ecco che il nostro autore ne impiega esattamente la metà per un ritratto senza dubbio altrettanto vivo. Un libro tripartito con sorprendente epilogo finale: una straziante purezza!
di Stefano Tassoni
Il 13 Novembre è uscito l’ultimo lavoro di Franco Battiato dal titolo Inneres Auge – Il tutto è più della somma delle sue parti contenente solo quattro inediti, oltre a brani del passato completamente rivisitati. Ecco forse spiegata la filosofica allusione del sottotitolo; mentre la copertina dell’album è chiarita dalla fantomatica teoria delle “linee orizzontali e verticali” che ci spingono rispettivamente verso la materia o verso lo spirito.
Inneres Auge (trad: “sguardo interiore”) -il primo singolo-, con il quale Battiato ha voluto esprimere tutta l’indignazione cui il cantante siciliano ci ha abituati contro la politica attuale, conferma l’indole sperimentale del musicista più ascetico a noi contemporaneo. Sonorità techno-dance armoniosamente fuse alla sua adorata musica sinfonica barocca, per lo più archi e pianoforte, di cui fu maestro Arcangelo Corelli (citato nel testo). Non proprio inedita, Inverno, stupenda versione riarrangiata di una delle canzoni più cupe di De André in perfetta sintonia con la linea dell’album del collega di Catania. Si prosegue con Tibet, il terzo inedito dell'album. Il tema in evidenza è rappresentato dalla dura (e armata) repressione cinese contro i monaci tibetani. L’ultima perla è ‘U Cuntu (trad: “il racconto”), interamente in siciliano e in latino, cantata insieme all'inseparabile Manlio Sgalambro. “Stiamo perdendo il senno”, dice la canzone, ed è forse questo il vero significato dell'intero album. Un album nero, pessimista, si potrebbe credere, ma non si dimentichi che l’autore offre la sua personale soluzione: rivolgere il proprio sguardo interiore ai maestri del passato in modo da riconoscere la giusta prospettiva per ri-stupirci del creato, nonostante tutto.