di Luca Torzolini
Che cos’è il genio?
Forse è la capacità di dire o fare qualcosa di inaspettato per le persone che si hanno di fronte, come interlocutori.
Il mio esempio di genio è Nicola Tesla. Perché? Molti risponderebbero senza dubbio Leonardo Da Vinci o altri. Però Nicola Tesla aveva qualcosa che secondo me non aveva nessuno: una capacità immaginativa molto più sviluppata di personaggi del calibro di Caravaggio e simili. Tesla progettava nella sua testa le cose pensandone anche l’evoluzione e solo quando riusciva ad arrivare a un’evoluzione completa, disegnava e brevettava la suad idea. La capacità immaginativa è in grado di creare ciò che prima non c’era e quindi la considero la massima fra le capacità dell’intelletto. Un conto è modificare un’idea o qualcosa di già esistente, altro conto è inventare dal nulla con il solo sforzo immaginativo: si tratta di un processo decisamente complesso.
Un altro genio che ho avuto la fortuna di conoscere – e non sono facilmente impressionabile visto che nella mia famiglia ci sono persone geniali – è la mia ex fidanzata. Non ho mai conosciuto un tipo d’intelligenza simile al suo: se lei non sapeva qualcosa che io già conoscevo, bastava parlargliene per pochi minuti e, già subito dopo, aveva delle idee in merito (tra l’altro io ho una scarsa capacità d’insegnamento). Io mi stupivo e inchinavo, ogni volta, di fronte quella capacità. Quindi “cos’è il genio?” O Nicola Tesla, o Letizia. Se posso scegliere tra i due, Letizia (anche per una questione estetica, visto che era di una bellezza sconvolgente).
Non so, ora mi viene in mente anche Charlie Chaplin e il discorso che si è inventato in soli cinque minuti nel film “Il grande dittatore”: quella è solo una scintilla, un esempio che ci può far sfiorare appena il concetto di genialità. Il genio è la capacità di essere ricettivi perché, come dicono alcuni, le idee girano e bisogna essere l’antenna che le capta. Quindi sicuramente c’è un particolare lavoro di onde cerebrali da parte di un cervello fuori dal comune e che sicuramente io non ho! Mi dispiace, non si può essere perfetti!
Quanto il bagaglio culturale ed esperienziale va ad influire sulla capacità d’immaginare?
Influiscono, a mio parere, negativamente: i preconcetti e le conoscenze consolidate possono bloccare l’immaginazione. Infatti il livello immaginativo dei bambini è molto più sviluppato rispetto a quello degli adulti. Inoltre, in certi ambiti, non ci sono idee geniali e si gira sempre sulle stesse questioni e molti problemi vengono spesso risolti nello stesso modo. Per far spazio ad un progetto inusuale o a una soluzione diversa ci vorrebbe qualcuno che sia estraneo a quel contesto e che, quindi, non sia imbevuto di quelle nozioni precostituite. Molto spesso la nostra storia personale e culturale ci fa avere delle convinzioni che ci bloccano, diventando vere e proprie zavorre. L’ideale per me sarebbe riuscire ad approcciarsi al problema nel modo più vergine e spontaneo possibile. Come dice un famoso motto attribuito da Platone a Socrate “so di non sapere” e, quindi, vediamo cosa può succedere da questa premessa. Dal dubbio può darsi che venga fuori qualcosa di intelligente. Io ne ho la controprova nella mia esperienza personale: quando ho iniziato a fare aerografie, a fare le chitarre. All’inizio avevo delle idee geniali perché ero talmente vergine in quel campo; oggi, al contrario, ho molte acquisizioni ed esperienza alle spalle in quei campi, ma non ho più l’originalità di prima e riconosco d’essere più limitato. La storia personale, l’esperienza, quindi, può certamente aiutare ma anche no, perché bisogna saper spaziare e cambiare ambito, non si può essere geniali facendo sempre le stesse cose. Ecco perché molte volte alcuni sembrano dei geni anche se non lo sono: perché partoriscono nuove idee che in realtà sono semplicemente frutto dell’estraneità di quei soggetti a quel campo del sapere, o a quel settore in particolare.
Quindi, secondo te, il pensiero divergente, tipico dei creativi e degli artisti, potrebbe dare un grande contributo anche in ambito tecnico?
Perché no? Io sono del parere che si possa sempre imparare da tutti. L’artista può fare il tecnico e, ad ogni modo, questa commistione c’è sempre stata. Forse le cose oggi sono un po’ diverse, ma se guardiamo ai grandi protagonisti del Rinascimento, ci sono tanti esempi, primo fra tutti Leonardo Da Vinci che spaziava e primeggiava in campi del sapere molto distanti: era ingegnere, scienziato, artista. E tutto il suo lavoro d’indagine era mosso dalla volontà di capire e questo dimostra che prima di tutto era un artista: se si pensa di sapere già tutto non si è dei veri artisti. Tutti possono fare tutto. A tal proposito mi ha colpito molto il fatto che sia stato un meccanico - e non un medico - l’ideatore di uno strumento per estrarre i neonati durante il parto.
Oltre alla genialità di chi è riuscito a tenere in vita la propria parte bambina, a questo punto, introdurrei un’altra figura di artista che ha delle derive geniali e che sono legate a una sua particolare condizione mentale: la follia. Quanto quest’ultima è determinante e significativa?
Tocchi un nervo scoperto. Noi siamo qui, in questa saletta, con delle riproduzioni di Van Gogh che era un genio assoluto, ma che dai suoi contemporanei e dalla storia è stato stigmatizzato come folle. Ora, la domanda che mi sorge spontanea è: che significa essere folli? Se si definisce qualcuno come “folle” è perché si ha un riferimento codificato su ciò che non lo è e quindi potenzialmente sono ritenuti tali tutti gli anticonformisti e quelli che vanno contro il ben pensare. Cosa vuol dire? Che dobbiamo attenerci allo standard di normalità e non accettare chi va oltre la soglia? E chi è molto al di sotto della soglia di normalità cos’è? Scemo? L’accezione negativa che viene solitamente attribuita a questa parola mi da molto fastidio e io, al contrario, penso che sia invece un complimento. Nei Dipartimenti di salute mentale è pieno di gente geniale, talmente tanto intelligente da sembrare matta perché non capita! A tal proposito mi viene in mente una barzelletta esilarante che lo dimostra: c’è un imbecille con una Mercedes che è costretto a fermarsi davanti ad un manicomio perché ha forato una ruota. Mentre si appresta a cambiarla, gli cadono tutti i bulloni nel tombino e non sa più come fare per risolvere l’inconveniente. A quel punto un matto, che stava osservando la scena dalla finestra del manicomio, si propone per una soluzione. Il proprietario dell’auto all’inizio lo snobba con fare superiore, ma dopo vari tentativi mal riusciti accetta di sentire l’opinione del matto che gli dice: “ehi, perché non smonti un bullone per ogni gomma e lo usi per cambiare la tua ruota, così puoi dirigerti al primo gommista?”. Al che il signore stupito gli dice: “Caspita che ottima idea! Ma come ti è venuta in mente?” e lui risponde: “Oh, sono solo matto, mica stronzo!”. Questa può essere considerata una barzelletta solo per modo di dire perché ci fa riflettere sugli stereotipi della società. Potenzialmente tutti gli artisti sono folli, ma cosa determina la follia? Forse la rigidità del parametro utilizzato per altre patologie potrebbe non funzionare. Qual è il metro di paragone? L’essere sempre ineccepibili, buoni, tranquilli, nella media? Se fosse così allora azzarderei che siamo tutti un po’ folli – me per primo - perché nessuno rientra perfettamente in tutti gli standard di normalità. Invidio l’audacia di certe menti, il pensiero creativo e divergente di certi miei amici fuori dal comune. La follia, in questa accezione, mi piace. Con questa riflessione faccio riferimento a tutte le persone geniali e incomprese che hanno subito lo stigma sociale della follia ma, ovviamente, si sa che vivere questa condizione può avere risvolti negativi e che non sempre la follia è legata al genio. Ad ogni modo le etichette mi infastidiscono. Certo, ripensando a Van Gogh, è ovvio che il gesto di tagliarsi un orecchio è sproporzionato rispetto alle ragioni per cui decise di farlo ma, in fin dei conti, l’orecchio era suo, non di un altro! Folle? Certamente un temperamento molto passionale.
Prova a definirmi che cos’è per te l’arte e come identifichi la tua espressione artistica?
Per me “arte” è tutto ciò che genera stupore e meraviglia al primo sguardo, al primo contatto con essa. Quindi “arte” non è ascrivibile esclusivamente all’opera d’arte in sé per sé, ma può essere qualsiasi cosa, anche un gesto.
Cos’è la bellezza?
È un concetto talmente tanto complesso che è difficile definirne i contorni con esattezza. Rispondo però con un’espressione abbastanza nota, di cui forse si è perso il senso ultimo e la profondità proprio perché troppo conosciuta: “la bellezza sta negli occhi di chi guarda”. Di questa frase sono intimamente convinto perché i nostri occhi, in realtà, non vedono niente: semplicemente si limitano a distinguere i colori e le ombre ed è poi il cervello che elabora tutto. Affinché, però, il cervello rielabori le cose ci vuole dietro una storia e ci vuole un addestramento al bello. Pensiamo a tutti quei bambini nati e cresciuti in contesti di guerra e difficili (ad esempio Afganistan): molti di loro cresceranno in contesti legati alla violenza e al male. Se si ha, invece, la possibilità di far vivere un bambino in contesti come l’Italia o la Francia pieni di bellezza, arte e meraviglie quel bambino sarà educato al bello. Fatto questo sarà poi facile per il suo cervello creare bellezza ad ogni suo sguardo. Però, anche qui, come si fa a definire ciò che è bello e ciò che non lo è? È estremamente soggettivo. Ecco perché molte volte sorgono polemiche e dibattiti in merito alle opere d’arte, agli stili e agli artisti. Si sente dire spesso in queste diatribe tutto e il contrario di tutto: da chi grida al capolavoro a chi non apprezza affatto l’operato di un artista. Se il confine fosse più netto e definito faremmo tutti le stesse “belle” cose, ma non è così e fortunatamente c’è la diversità. Forse il termine “bello” andrebbe abolito ma, ancor di più andrebbe abolita la sua antitesi “brutto”. Chi stabilisce ciò che è brutto? Potenzialmente tutto è bello, ma semplicemente la tua storia non ti permette di apprezzarne la bellezza.
Andiamo, allora, su un parametro più specifico: ciò che la natura ci insegna tramite le sue leggi. La natura ha in sé algoritmi biologici ben precisi che regolano lo sviluppo delle sue forme e dei rapporti geometrici, come ad esempio la sezione aurea. Perché, secondo te, quest’ultimi vengono distorti volutamente da alcuni artisti? Sto pensando, per fare un esempio fra tanti, ai colli lunghi di Modigliani…
Se bastasse utilizzare la proporzione aurea per rendere l’idea di bellezza sarebbe molto facile e saremmo tutti capaci di realizzare una cosa bella. Non nego di averci provato in passato: ho preso una tela che aveva le dimensioni auree e, onestamente parlando, devo ammettere che a lavoro ultimato quella tela mi faceva veramente pena. L’idea di rendere con una formula matematica la bellezza è sbagliata di per sé, perché non funziona così ed è limitante. Ecco perché Modigliani, uscendo fuori dai quei canoni, vuole creare la sua bellezza e addestrare le persone a vederla anche nella non proporzionalità. Anche Picasso lo ha fatto scomponendo volti e oggi ne riconosciamo il bello, ma quando lo fece per la prima volta non fu considerato proprio così. Ci si è dovuti addestrare. La bellezza va interiorizzata. Mi si potrebbe obiettare che in passato nel mondo dell’arte - e in special modo durante l’antichità - la sezione aurea era presa molto in considerazione. È stato così, ad esempio, per la realizzazione del Pantheon. Se mi dovessero chiedere, però, qual è il segreto della sua perfezione estetica, di certo non risponderei la sezione aurea. La magnificenza di quest’opera è il risultato del duro lavoro del suo architetto che ebbe per essa, una dedizione quasi sacrificale e che volle dar forma all’idea di divino. Tutto ciò che è votato al divino, al sacro ha in sé una bellezza interiorizzata. Queste sono le cose, dal mio punto di vista, che hanno influito nel suo fascino intramontabile e che non hanno nulla a che fare con la sezione aurea quanto piuttosto con l’amore che ebbe l’architetto per la sua creazione. La natura, al contrario, è canonica e rispetta dei parametri. Un esempio fra tutti può essere il fatto che un certo tipo di fiore abbia sempre lo stesso numero di petali. Da questo punto di vista la natura è ordinaria, mentre l’uomo non lo è: attraverso la sua intelligenza realizza creazioni non banali. Noi dobbiamo cominciare a capire che siamo esseri straordinari e non dobbiamo limitarci alla mediocrità, alla norma perché altrimenti ci precluderemmo la possibilità di esternare la nostra eccezionalità, di manifestarla attraverso le nostre potenzialità. La maggioranza delle persone, al contrario, vuole spesso assomigliare agli altri, vuole essere normalizzata e chiudersi dentro lo spazio rassicurante della norma. Non c’è niente di più sbagliato e soffocante che uniformarsi a dei canoni: non sarà grazie ad essi che avremmo la possibilità di brillare, di esplodere come delle supernove nel cielo. Al contrario, senza la singolarità che ci contraddistingue, saremmo solo delle piccole lucine fioche che si spengono al soffio di un leggero venticello.
Secondo te cosa ci ha diseducato a vedere il bello?
La cosa che, più di tutte, ha impedito d’esperire il bello è stata l’imposizione di un canone. La bellezza va ricercata; di certo non la si trova sotto dettame! In questo processo di diseducazione, come ben si sa, i media hanno avuto un ruolo fondamentale: l’ossessiva riproposizione di modelli, molto spesso incarnati da figure iconiche (penso alla modella Claudia Schiffer negli anni Novanta) porta ad introiettare quei parametri e, quindi, tutto ciò che non rientra in essi diventa in automatico non all’altezza. La bellezza è una cosa che si scopre, anche in posti impensabili. Infatti solo con lo sforzo la ricerca darà frutti inaspettati e ci si educherà al bello. A volte in ciò che si osserva e si ha davanti si riescono a trovare aspetti oggettivamente belli (Come quando mi guardo allo specchio! Si vede che so’ bello!), altre volte no e sta proprio lì il segreto: non fermarsi, andare oltre. Una volta si era più disposti a fare questo sforzo, mentre oggi la pervasività del messaggio è talmente alta che non si è più capaci. Nessuno trova più strano questa eccessiva ricorsa al modello o l’uniformità di certi nostri comportamenti. Oggi si sentono tutti a loro agio nel vestirsi allo stesso modo. Una determinante fondamentale della diseducazione al bello è sicuramente stata la moda (soprattutto quella legata alle grandi commercializzazioni) e le sue esondazioni in tutti gli ambiti del pensare e dell’agire.
L’arte della seduzione si chiama così per un motivo, ma che cosa significa per te sedurre una donna?
Ma chi l’ha detto che quando si parla di seduzione lo si debba fare solo riferendosi all’universo femminile? Prendo spunto dal mio mestiere, quello di venditore per dimostrartelo. L’arte della vendita è pura seduzione: se voglio raggiungere il mio scopo devo vendere prima la mia immagine, poi la mia idea e poi il prodotto. Non amo molto definirmi “rappresentate” perché lo trovo un modo per evitare di chiamare le cose con il loro nome. Per me “rappresentante” è una parola che non esiste perché perde di significato rispetto all’azione concreta della vendita: io vengo a casa tua per vendere, non per rappresentare e ci posso riuscire solo se ti coinvolgo. Quindi un aspetto non indifferente del mio lavoro si basa sulla fascinazione e la cosiddetta “arte della vendita” è una vera e propria arte seduttiva: come faccio a farti acquistare qualcosa se non mi ami o se non ami il mio prodotto? Nel mio ruolo di venditore voglio ottenere un contratto, con le donne, invece, vorrei ottenere altro (non entro nello specifico ma si capisce che ci sia la voglia di divertirsi e di stare bene insieme!). E tutto questo è arte, tutto ciò che realizza l’uomo è arte, sia che sia fatto bene, sia che sia fatto male. Non deve essere naturale deve essere “artefatto”, fatto a modo proprio, senza copiare nessuno. Se si riesce ad esprimere la propria personalità in qualsiasi gesto o cosa che si compia si è creata arte, a prescindere che possa essere apprezzata da pochi o da molti. Anzi, il vero capolavoro d’arte si realizza proprio quando ci si svincola dal giudizio altrui e si apprezza ciò che si fa. Purtroppo per me, tutto ciò che faccio non mi piace abbastanza.
Interessante. Perché tutto ciò che fai non ti piace abbastanza?
Perché io sono convinto di essere in continua evoluzione. Quando, poco fa, ho rivisto uno mio quadro, realizzato all’incirca dieci anni fa, ho subito pensato che avrei potuto realizzarlo meglio. Ed è così che dovrebbe essere: se ci si accontenta e ci si adagia sulle proprie capacità non si fa mai il passo verso il miglioramento. Come diceva Pindaro e poi Nietzesche: “diventa ciò che sei” ma, per farlo, bisogna sforzarsi, passare attraverso stadi anche molto dolorosi e anche sbagliare. Il cammino verso l’incontro di sé stessi prevede un percorso pieno d’ostacoli e tortuoso, la linea retta, la traiettoria lineare non è contemplata, solo il proiettile percorre una parabola lineare e non fa una bella fine! Gioire del proprio operato è giusto, ma c’è una linea sottile che separa la consapevolezza d’aver fatto un buon lavoro ed esserne contenti e l’autocompiacimento. Io penso che questo volersi spingere sempre oltre la soglia delle proprie capacità sia il tratto distintivo di un vero artista.
Come mai non ti sei mai lanciato nel mondo dell’arte pur essendo un venditore?
Ah, allora, ti confesso una cosa che non ho quasi mai detto a nessuno: io sono un pessimo venditore di me stesso. Credo che questo dipenda da una ragione ben precisa: per evitare un entusiasmo smodato – che non è mai funzionale allo scopo della vendita – tendo ad eccedere nell’opposto e a sminuirmi tanto da non sapermi promuovere. In più non ho mai avuto interesse nel vendere le mie creazioni che, invece, sono sempre state realizzate per il soddisfacimento di un mio bisogno personale momentaneo. Ci sono quadri che sono nati durante un sogno e che ho fatto nascere al mio risveglio il mattino seguente, quadri che sono espressione di un particolare frangente, di “quel” momento (poi magari li ho bruciati, come ho già fatto diverse volte, perché non mi piacciono). Vendere, senza nulla togliere a chi lo fa, sarebbe come mercificare un mio pensiero e la vendibilità non è la discriminante che stabilisce quale sia un’opera d’arte e quale non lo sia. La storia personale di Van Gogh ce lo insegna: lui che è ritenuto uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, in vita, riuscì a vendere un solo quadro “Il vigneto rosso” che probabilmente fu acquistato dalla pittrice Anna Boch più per cortesia che reale interesse. Il fratello di Van Gogh, Theo, nonostante fosse un affermato mercante d’arte, non riuscì mai del tutto a far apprezzare ai contemporanei le sue opere che rimasero a lungo incomprese perché decisamente non in linea con i canoni estetici di allora. Solo in seguito, sarà la moglie di Theo, nonché cognata di Van Gogh, a riuscire nell’ardua impresa di promuovere quelle tele, lottando, inizialmente, contro porte chiuse e rifiuti. Quindi questa storia, come altre simili, ci insegna che la qualità artistica prescinde dalla vendita. Io, poi, che in vita mia ho venduto le cose più assurde e disparate, non sono proprio capace di vendere le mie opere perché provo pudore. Un altro fattore che complica ulteriormente la cosa è il tempo: come riuscire a quantificarlo? Nel realizzare i miei lavori sono lento perché la meticolosità è un tratto che mi contraddistingue. Per fare solo un esempio, per un mio quadro con un solo colore ho impiegato trenta ore. Ma quanto valgono trenta ore della mia vita? Se ti dovessi rispondere come risponderei ai miei nipoti, ti sparerei delle cifre esorbitanti, tanto che molto spesso loro mi guardano sconcertati. Ad ogni modo, per me, trenta ore della mia vita valgono circa 6 milioni di euro. Tu la compreresti per quel prezzo la mia opera? Non credo proprio! Quindi te la regalo.
Ora sono curioso di sapere, però, la risposta che avresti dato ai tuoi nipoti...
Beh, mettiamo che una prodotto di consumo distribuito nei negozi costi cento euro. Io per guadagnare cento euro ci metto un giorno e, per me, un giorno della mia vita vale intorno ai 12 milioni di euro. Ovviamente i miei nipoti, ormai, hanno rinunciato a capirmi!
Ma perché cifre così elevate? Perché, da sempre, sono profondamente convinto che la cosa più preziosa posseduta dall’essere umano sia il tempo. È inestimabile. Se dovessi per forza quantificare il valore di una mia giornata, ti direi che vale intorno ai 15 milioni al giorno… e per me è comunque una cifra bassa! Il tempo è preziosissimo proprio perché non torna più e con il passare dei giorni si riduce, come la sabbia della clessidra che cadendo, attimo per attimo, inesorabilmente diminuisce sempre più. Con lo svolgersi del tempo quindi il prezzo della vita sale perché ne rimane sempre meno a disposizione. Ecco perché gli artisti, quando invecchiano, valgono di più. Di questi ultimi tempi abbiamo perso dei mostri sacri - penso a Jeff Beck, penso a Gigi Proietti e a tantissimi altri – e, nella nostra vita, abbiamo fatto l’esperienza della perdita di qualcuno a noi caro. Tutto questo dovrebbe bastare per farci rendere conto del valore inestimabile del tempo. Quindi: fanculo ai soldi! Piuttosto te la regalo la mia opera. L’importante è che chi la possiede l’apprezzi e se ne prenda cura. Mi risulta molto spontaneo regalarle a chi mostra apprezzamento ed entusiasmo al primo sguardo. Se qualcuno se ne innamora, la cedo volentieri.
A questo punto del discorso introdurrei una figura un po’ particolare: quella del critico. Cosa ne pensi del critico che si cimenta nell’arte e, al tempo stesso, la critica? E cosa ne pensi, invece, del critico che non è artista? Questa figura per te assume un ruolo costruttivo o distruttivo?
Io penso che la critica sia fondamentale e deve partire, in primis, da sé stessi attraverso l’auto-critica. Poi c’è la critica che proviene dall’esterno, indispensabile anch’essa per la propria crescita personale e professionale. Dal mio punto di vista, però, una critica è valida solo se fatta con il cuore e non con il fastidio. Per questa ragione considero un bravo critico, solo chi, osserva e giudica qualcosa che non sa riprodurre perché, al contrario, se fosse in grado di realizzarla, parametrizzerebbe tutto secondo il suo modo si fare. Chi non sa fare niente riesce ad apprezzare autenticamente forme espressive molto distanti, il critico-artista, invece, sarà sempre un po’ inficiato, nella valutazione, dallo stile di predilezione. Poi, per carità, non nego a nessun artista la possibilità di fare critica, ma io parlo anche per esperienza personale. Infatti, a tal proposito, mi viene in mente quando, per prendere in giro le opere astratte del mio collega e amico Michelangelo, scherzosamente gli chiedevo se avesse vomitato sulla tela. Ovviamente la diversità la so apprezzare ma io parametrizzo tutto rispetto all’espressività, devo fare espressionismo, figurativo, ho bisogno degli occhi, devo far comunicare gli occhi dei soggetti che realizzo. Chi non ha cristallizzato uno stile, può criticare, con i dovuti studi, un’opera in maniera più distaccata e costruttiva. Ricordo ancora il commento ricevuto all’esposizione del mio David di Michelangelo da parte di Michele Sagona, bravissimo pittore e architetto. Quest’ultimo, disegnatore di straordinario talento, dopo essersi complimentato con me per come avevo realizzato il corpo, mi disse che i capelli lasciavano a desiderare. Al che io gli risposi scherzosamente: “Hai ragione Miche’, ma è Michelangelo che, mentre realizzavo l’opera, mi ha detto di smettere altrimenti, avrei realizzato un capolavoro!”. Da quel momento in poi, l’opera fu ribattezzata “Minchiata” perché a me piacque quel commento riguardo i capelli e io accettai di buon grado quello scambio di battute che ricordo ancora sorridendo. E io accettai positivamente quella critica perché sapevo per primo che i capelli avevano dei difetti, mentre il corpo no, il corpo era quasi perfetto (e non lo sto dicendo per esagerare!). Se non avessi avuto una buona capacità d’autocritica probabilmente non sarebbe stato facile digerire un termine così diretto, tranchant, difficilmente presente nei critici di mestiere. Per queste ragioni le capacità d’autoanalisi, l’obiettività devono sempre rimanere salde, altrimenti ci si adagia sugli allori e non avverrà mai un miglioramento successivo. C’è da dire anche che, non necessariamente, l’evoluzione positiva di un artista debba sempre essere temporalmente seguente. Ci sono casi di artisti che originano grande eco intorno a loro per poi involvere o, addirittura, sparire.
Bisognerebbe essere bravi, con l’esperienza, a sopperire le qualità della gioventù che vengono meno...
Sì! Bisognerebbe riuscire a preservare il più possibile la freschezza dei primi anni, l’approccio ingenuo. L’avanzare del tempo rende meno spontanea la creazione che verrà inficiata da domande del tipo: “piacerà, non piacerà”, “cosa è di gradimento?” ecc. La verità è che le cose vengono bene quando le si fa esclusivamente per sé stessi. Poi, parliamoci chiaro, se si vive con le proprie opere non si possono escludere completamente pareri e gusti altrui. Tutto questo mi fa pensare a Mario Schifano. Noi pensiamo sempre a questo grande artista come “quello che appiccicava le cose sopra la tela”, per le palme ecc. quando, in realtà, realizzò un bellissimo ritratto alla mia fidanzata che rivelava tutta la sua abilità tecnica. La sua padronanza tecnica, però, nel ricordo di molti, passa in secondo piano rispetto alle sue opere più in voga e realizzate per il mercato. È bene però ricordare che dietro tutto c’era di base un’elevata padronanza pittorica: si può fare una cosa apparentemente molto semplice, che ai più sembra una “minchiata”, solo se si è veramente bravi. Quelli che, al contrario, sono scarsi come me non si possono permettere il lusso di fare una “minchiata”. C’è un aneddoto su Picasso molto eloquente in tal senso. Picasso era un personaggio che di certo non brillava in gentilezza e, un giorno, mentre era al ristorante viene importunato da un cliente che gli chiede un disegno. Lui prende il tovagliolo, ci disegna una rondine con quattro segni e chiede all’uomo una cifra spropositata. Quest’ultimo sbalordito gli chiede: “Maestro, come mai questa cifra esagerata?”, al che Picasso risponde: “eh, ma per arrivare a fare solo questi quattro segni ho impiegato una vita!”.
Parliamo del finale: il finale di un’opera, di un film, della vita come opera d’arte... Cos’è il finale per te?
Il finale deve rimanere sempre aperto. L’altro giorno con un amico parlavo proprio del finale nelle opere d’arte. Un’opera scultorea o pittorica, una volta conclusa, non può essere modificata. In altre arti, come in quelle cinematografiche o come nella canzone, può accadere che qualcuno di diverso dal suo creatore prenda l’opera e la modifichi, o la rifaccia completamente omaggiandola. E non sono stati pochi i casi in cui l’artista creatore si sia complimentato dei cambiamenti, degli arrangiamenti, delle personalizzazioni.
Un esempio di lavoro di riarrangiamento riuscito può essere quello di Filippo Graziani con le opere del padre.
Esatto, ottimo esempio. Infatti le ha modernizzate – anche con la sua voce che personalmente preferisco rispetto a quella del padre – e ha ricreato un’opera che non era finita. L’ha ridefinita. Lo stesso discorso vale per i film. Uno dei film che ultimamente mi ha devastato è “Joker” e io, che sono profondamente empatico, per uscire dal personaggio di Joker non so quanti giorni ho impiegato. Durante la proiezione del film mi sono messo nei suoi panni e non sono riuscito, poi, ad uscirne facilmente. Quel film per me non era mai concluso: i possibili sviluppi continuavano nella mia testa. Quindi, eccetto per le opere pittoriche e scultoree, nulla finisce. Certamente, nessuno vieta all’autore di un quadro di modificarlo, ma quando quello stesso quadro finirà dentro un museo, rimarrà immutabile. Si può dire che il museo è un po’ la tomba dell’arte! Vuoi ammazzare un’opera? Mettila in un museo! Però, se ci pensi, come accostamento non mi sembra troppo sbagliato: l’atteggiamento tipico del visitatore di museo e simile ai comportamenti messi in atto quando si va a trovare un morto! Sai quante volte al Louvre ho rischiato più volte di essere cacciato perché avrei voluto toccare le opere e mi avvicinavo troppo facendo suonare l’allarme. Stare davanti al quadro immobile è come stare davanti a una lapide. Sarebbe bello invece – e questo l’ho sognato più di una volta – stare accanto ad un artista mentre realizza un suo quadro. Una volta sognai di stare accanto a Van Gogh mentre dipingeva quella che per molti era considerata l’ultima sua opera (anche se non si sa se è così): “Campo di grano con volo di corvi”. Ho ripercorso con lui tutto il processo di realizzazione, ho provato ad immaginare come si sentisse, a ipotizzare quali pensieri lo tormentassero prima di morire. Ne ho fatti molti di sogni così e me li sono goduti tutti. L’unico motivo per cui mi piacerebbe avere la macchina del tempo è proprio per osservare gli artisti famosi durante le loro creazioni. E lo farei non solo per puro piacere, ma anche per vedere se, nel loro processo creativo, sono tutti scemi come me! Io di certo non potrei farmi vedere mentre realizzo le mie opere perché sono completamente fuori dagli schemi, rido da solo, mi racconto barzellette fino a farmi lacrimare gli occhi, di certo non ho un atteggiamento composto e sicuramente non lo avevano nemmeno tutti gli altri artisti che vorrei andare a spiare. Io ci vedo temperamenti come quello di Van Gogh e Caravaggio a imprecare contro la tela. L’unico che secondo me era un po’ troppo serio, senza nulla togliere alla sua persona, era Michelangelo Buonarroti. Era molto attaccato ai soldi ed era una delle persone più ricche della sua epoca, dal momento che si faceva pagare molto. Infatti per convincerlo a realizzare la Cappella Sistina dovettero dargli ottomila scudi quando, invece, lo stipendio annuo di un medico di allora era in media di 50 scudi! E pensare che quei soldi non se li è nemmeno goduti perché li ha messi da parte per il nipote. Per carità, si tratta di un grande artista e anche di un animo sensibile – lo dimostrano anche i suoi versi, oltre che le sue opere più famose – ma non si è goduto i frutti del suo talento e ha condotto una vita da miserabile. Ecco, se tornassi indietro nel tempo vorrei dirgli: “A Michela’, sti’ fa proprj na cazzata!”.