Holy EYE

CERTIFIED

di Luca Torzolini

Oggi è un giorno
che si crede stufo di tutto
e insulto ogni uomo e me stesso e le stelle.
Brutto vizio, stufarsi.
Sarebbe meglio nascere imbecille,
e avere una moglie e un lavoro
da cui farsi imprigionare.
Meglio non essere,
come chi legge il giornale
e non capirà mai che in fondo
sono sempre le stesse quattro notizie
e l’identica solitudine incurabile
a dire al collega “Hai visto che è successo?!”

Oggi è un giorno
in cui è meglio lasciarmi stare;
mi sento come Said l’extracomunitario,
marionetta in una catena di montaggio
sgozza 1300 polli ad ogni turno.
E lento scava la fossa in cui ficcare la propria ascesi.

Po-po-pooooo! Po-po-pooooo!
1300 polli
li affronto con righe determinate,
ma di solito dico “Scappa! Sei ancora in tempo…”.
Mi fissano con la coda dell’occhio:
sono uno di quei coglioni che scrivono ancora poesie,
“poesia” una parola più antica di “museo”,
come dice il mio amico Denis.
Al museo non ci sono gelati:
c’è uno che spiega, e particolari, e pensare.
Sulla parola poesia è caduta troppa polvere.

Sono sicuro che
Said vorrà sgozzare me
quando leggerà questa poesia,
ma sono altrettanto sicuro
che non la leggerà,
perché la sue mani conoscono
solo sangue da macello.
Mai sentì
sgorgargli addosso
effluvi di sangue eroico
tra le pagine usurate dai pollici.

Ormai non m’identifico più con niente e con nessuno.
Sono senza speranza
come l’ultima parola di un condannato a morte.
Solo come il silenzio a venire.

Ho studiato filosofie di uomini
che risalivano pecore fluviali
per farsi crocifiggere sull’albero maestro.
Sentii rimbombare il loro amore infinito
nella mia piccola e cinica mente da agnostico:
avrebbero dovuto raccontare alle pecore
la loro illimitata pochezza.
Fare o ricevere violenza
non aiuta il carattere imitativo
del popolo.

Ho letto reietti
insultare perbenisti e benpensanti
dimentichi che hanno già le loro vite.
E tanto basta.

Ho sfogliato superficiali riflessioni
di uomini profondi
e le ho trovate più profonde di me,
d’ogni burrone e abisso
che credevo d’aver visto.
Sento ancora il loro disagio
correre lungo la schiena
e scavare,
prepotente scavare,
fino a raggiungere
il più placido dei nervi
e il più inutile dei capillari
e non fermarsi.

Confutando ogni teoria
ho intravisto la Verità
fumare la sigaretta perfetta e irriducibile
della sconfitta umana
al disco-bar;
l’ho osservata ansimare per la bionda sul cubo
e pensare “Ad un porco non si può leggere la divina commedia!”
Poi si è avvicinata, le ha messo una mano tra le gambe,
e non ha dovuto spendere neanche una bugia.

Non mi dà più conforto alcuno
l’amicizia con i pochi intellettuali;
mi sfinisce l’attesa del bimbo deforme che porto in grembo
e la possibilità (pressoché nulla) di toccarti con queste parole
dove posso ancora farti male,
con lo schifo più violento che provo per te.

Non mi confortano, davvero,
il successo, il denaro e le donne,
offerti come un pacchetto vacanze
a chi si sente già arrivato
disilluso dall’idea che l’ha portato fin là.

Provo tristezza, un’infinita tristezza assassina
per chi invidia la fortuna dell’altro
che nascosto piange ossessioni di mercurio:
rosica per un dio perfetto al quale non potrà parlare. Mai.
Il divo tanto amato da un fan insignificante.

Ma mi alzo ancora al mattino tardi,
con in bocca gli eccessi della notte ,
e mi arrendo al mondo lettera per lettera
declamando alle pareti
poeti che ancora non conosco.

Ma mi muovo ancora, tra le folle,
con la patologica imperfezione che contraddistingue qualunque essere umano
e mi arrischio a castigarvi fonema per fonema
declamando di fronte a voi,
poeti che ancora non conosco.

di Luca Torzolini

I gufi - Foto di Stefano Terenzi 1

Gufi si nasce?
[Marisa] Gufi si muore.
[Luigino] Ma la risposta non è pertinente.
[Marisa] Allora non lo so.
[Luigino] Io sono nato gufo. Ma non posso giurare che questo avvenga ogni volta e per ogni esemplare di gufo.

Qual è il vostro ruolo sociale?
[Marisa] Abitiamo i quartieri più miseri e malserviti.
[Luigino] Svolgiamo i lavori più umili e malpagati.
[Marisa] Gli uomini ci trattano come bestie.
[Luigino] Ma da sempre affasciniamo le donne sposate, che trovano riparo tra le nostre piume.
[Marisa] E perché proprio le donne sposate?
[Luigino] Perché crediamo nel valore della famiglia.

Guidando sull'A24 notate che un camionista, accostatosi sulla vostra destra nell'atto di sorpassare, va su e giù con il braccio e probabilmente si sta masturbando su di voi. Come reagite?
[Luigino] Cos'è l'A24?
[Marisa] Cos'è un camionista?
[Luigino] Cos'è la nostra destra?
[Marisa] Sono immagini che non possiamo immaginare.
[Luigino] Viviamo sempre in casa, ci guardiamo tutto il giorno, non usciamo mai.

Che cos'è la bellezza?
[Luigino] Marisa.
[Marisa] Gianni Barba, l'amante dalle piume di cristallo.

E' morto, sogna o son desto?
[Luigino] E' sempre morto. E' l'alternativa migliore.
[Marisa] Io ho fatto un sogno funesto.
[Luigino] Tienilo per te.

"Strappa da te la vanità, ti dico strappala!"? (Canto pisano 81, Ezra Pound)
[Luigino] Sembra una cosa dolorosa. Magari un'altra volta.

Perché non fate uso dei social networks?
[Luigino] Perché ti esprimi in termini inglesi?
[Marisa] Perché ha studiato, come noi.
[Luigino] Nonostante siamo gufi parliamo un corretto italiano.
[Marisa] Lo parliamo tra di noi, perché non ci piace dare confidenza agli estranei.

I gufi - Foto di Stefano Terenzi 2

Vincete un milione di euro alla lotteria. Che ci fate?
[Luigino] Potremmo nascondere i soldi nel materasso.
[Marisa] Potremmo anche comprare un nuovo materasso.

Dove vanno a morire i gufi?
[Marisa] Moriremo soli. Nei nostri letti.
[Luigino] Io morirò in bagno.

Cosa centrate voi con l'intervista a Ivan Talarico e Luca Ruocco presente nel giornale?
[Luigino] Non so di cosa parli.
[Marisa] Parla di quei due.
[Luigino] Ma io non li conosco, e neanche tu.
[Marisa] Io non li conosco, e neanche lui.

di Guido Fabrizi

http://guidofabriziraccontibrevi.wordpress.com

 

 

La mia penna ha le ore contate

Dopo una nottata passata ad imprecare e lamentarsi a causa di un vecchio molare marcio, Aldo decise di recarsi in farmacia all’apertura mattutina per fare una cospicua scorta di antidolorifici, di cui era rimasto sprovvisto, di quelli che spaccano il fegato, perforandolo da parte a parte come una revolverata consigliata dalle migliori case farmaceutiche. Per tutto il percorso premette con l’indice sulla guancia, in corrispondenza del dente agonizzante, sperando di annientare il dolore con una brutale pressione, quasi cercando di cavarsi il dente dall’esterno. Gli occhi marci, la bocca fetida, la pelle unta dal sudore ed un odore d’ammoniaca, simile a quello di un cadavere. Barcollante, scese dalla sua vecchia Fiat Ritmo, parcheggiandola di traverso rispetto alle altre auto. Entrò in farmacia dondolante e a fatica; dopo aver preso il numeretto raggiunse una poltroncina bassa dove, lasciandosi sedere, trascinò con sé lo scaffale dei preservativi. Mentre imbarazzato raccoglieva le decine di scatolette, gli apparve una donna dalla bellezza eterea, slanciata, elegante, come se da sempre i suoi geni fossero stati nobili, raffinati, appartenenti di diritto ad una realtà superiore, elitaria, fuori dal comune e dai canoni di bellezza. Quando si dice “una classe innata” che immediatamente ti fa comprendere l’appartenenza ad un livello sociale elevato e abbiente di denaro, cultura e potere. Lunghi capelli lisci e biondi come il grano e morbidi come la seta. Che luogo comune… Aldo avrebbe voluto definirli come un punto di biondo fra Barbie e la Principessa Sissi, ma preferì un “biondo paradiso”. Un volto dai lineamenti perfetti e dagli occhi espressivi, quasi regali. Un sorriso di stampo positivo e affascinante che lasciava delicatamente affiorare una dentatura di perle tahitiane. Un’anima non appartenente al mondo brutto, sporco e cattivo della miseria, delle beghe, delle nevrosi, della povertà dalle incolmabili solitudini, della disperazione di una vita che scorre senza riuscire a darle un senso. Una mannequin dell’anima e dell’estetica, vestita di savoir faire e Chanel, comprato in ogni angolo dei continenti. Insieme a lei le sue due piccole figliole di sei anni circa, gemelle dagli stessi capelli della mamma, biondo regale, vestite con gli stessi graziosi vestitini. Vivaci come l’intelligenza della madre che, di tanto in tanto, proferiva una nota di moderazione, probabilmente in madre lingua inglese, mentre parlava con la dottoressa che si trovava dall’altra parte del bancone. Le piccole si rincorrevano così velocemente che ad Aldo era quasi impossibile vederne i lineamenti. Solo di una, che si era fermata e seduta su di una poltroncina di fronte alla sua, ne vide la bellezza principesca, simile a quella materna. Un’adeguata delfina dagli occhi tristi… L’altra, in continuo movimento, girava e rigirava intorno ad una colonna della farmacia e veniva richiamata di frequente dalla mamma, alla quale non dava molto ascolto. Ad un certo punto la piccola, non più alta del bancone, si avvicinò alla madre per chiederle insistentemente qualcosa: iniziò a tale scopo a strattonarla dalla manica del trench maxi Armani alta moda. Tirava come chi cerca di attirare su di sé qualcosa di più di una semplice attenzione. In questo tira e molla disperato, ad un tratto, mentre la dottoressa si allontanava per prendere le medicine richieste, con un gesto fulmineo, quasi invisibile, come un camaleonte cattura la sua preda con la lingua, la madre cambiò espressione e, digrignando i denti come un animale all’attacco, diede una sberla micidiale sul volto della bambina. Uno schiaffo che non finiva nel suo naturale gesto, ma continuava a comprimere il piccolo viso contro il bancone contundente, fino all’arrivo della dottoressa che ritrovò un’atmosfera di serenità sorridente, contraddetta solo dagli occhi bassi della piccola. Quasi come se non fosse successo nulla, dopo aver accennato ad una espressione repressa di pianto, la bambina si avviò verso Aldo che aveva osservato tutta la scena. Man mano che si avvicinava, Aldo si rese conto che la gemellina aveva qualcosa di diverso dall’altra. Pur essendoci una somiglianza generale a livello somatico e fisico, gradualmente focalizzò che la bambina era affetta da nanismo. Con un contraccolpo scomparve il dolore al molare, mentre la bambina quasi di fronte a lui, guardandolo fissamente negli occhi, gli digrignò i denti che teneva serrati, in un’espressione d’odio, proveniente dal dolore. Due richiami della madre e le figliole la seguirono, saltellando e distogliendosi da quella noiosa sosta in farmacia. Aldo si alzò dalla poltroncina, risvegliandosi come da un sogno e, barcollando meno del solito, dopo essersi guardato intorno, si rimise apposto la camicia che gli fuoriusciva dai pantaloni. Visto che il dolore al dente gli era passato, decise di  ritornare a casa per andare ad accompagnare a scuola il figlio di sette anni, cosa che non faceva da molto tempo.

di Luca Torzolini

Intervista a Marco Valerio Nati 1

Che cos'è la fotografia?
La fotografia per me è nata come mezzo di espressione.
Sentivo di aver bisogno di fare dell'arte e la fotografia era il mezzo a me più congeniale.
Il primo libro di fotografia mi è stato regalato da mia madre, era lei la "fotografa di famiglia", era lei, e prima di lei mio nonno che costringevano me e le mie sorelle, durante le vacanze, ad estenuanti ed infinite pose sotto caldi soli estivi per immortalarci davanti ad un qualsivoglia, ormai stanco, monumento!! Si sa, la fotografia è anche precisione e mia madre e' una che non lascia niente al caso!!!
Con il tempo ho comprato nuovi libri, ho studiato, finche all'eta' di 22 anni non ho deciso di comprare la mia prima reflex con la quale mettere in pratica tutte le nozioni che avevo imparato sui libri nei mesi precedenti . In quel momento mi si è aperto un nuovo mondo ed è nata una vera e propria passione dalla quale sono stato rapito completamente.
Ho cominciato a fotografare quello che mi sembrava più' semplice, quello che mi aveva dato sempre grandi emozioni senza chiedere nulla in cambio, la mia città, Roma.
Con lei ho sempre avuto un forte legame emotivo, così sulle note di " il cielo su roma" dei "colle der fomento" ho deciso che meritava la giusta ricompensa.

Perché prediligi la fotografia, moda e fashion?
Più il tempo passava e più mi rendevo conto che anche fotografare soggetti animati mi stuzzicava, ho iniziato così a scattare ritratti a chiunque si prestasse alle mie stressanti sperimentazioni, finché non ho cominciato a ricevere i primi apprezzamenti da amici e parenti, poi in rete, su i forum dedicati alla fotografia.
Da quel momento ho iniziato a concentrarmi sulla fotografia in studio ho frequentato dei workshop e mi sono tolto lo sfizio di fare una sessione con la mia prima modella professionista nello studio di un fotografo per professione.
Alla fine della sessione, incantato dalle infinite possibilità di giocare con l'illuminazione e dal feeling che si era creato durante lo shooting, avevo deciso che quello sarebbe stato il genere di fotografia che avrei continuato.

Che cosa sarebbe la fotografia senza la tecnica?
Il risultato di una fotografia è "arte", ma alla base c'è una scienza!
Conoscere ed imparare ad applicare le regole per poi sapere quando è il momento di superarle è per me un concetto alla base di ogni buon fotografo!

Intervista a Marco Valerio Nati 2

È possibile realizzare una foto, spontanea , quando si tratta di fotografia fashion?
La bellezza la vivo in maniera pura, quello che voglio trasmettere nelle mie foto è la bellezza viva, un corpo o un viso bello non sono sufficienti! Dev’essere un mix di più elementi…quello che cerco è quel tipo di immagini che trasmetta la bellezza vissuta, in modo da percepire lo stato d’animo, i sentimenti della persona e quella sensualità elegante, che coinvolge più mentalmente.
Quindi perché no, la spontaneità non potrebbe che arricchire il contenuto emotivo di un immagine dando maggiori possibilità all'utente di apprezzarne il messaggio.

Quali sono le difficoltà nel fotografare oggetti?
Dal momento dell'allestimento del set fino alla pressione sul pulsante che genera il classico "click", le cose di cui tener conto e conseguentemente le difficoltà, fotografando un oggetto, sono molteplici. Il materiale di cui è composto ad esempio. Un oggetto in metallo sarà più difficile da immortalare rispetto tessuto, nel primo caso dovremmo preoccuparci di più che le luci non creino riflettenze spiacevoli  e che lo stesso risulti gradevole alla vista dell'utente.
D'altro canto non dovremmo preoccuparci dell'imbarazzo che si viene a creare tra "modello" e fotografo, non dovremmo preoccuparci di "stressare" il soggetto con lunghe sessioni di scatto sotto luci molto calde e trucchi colanti, e soprattutto, cosa molto importante, una pentola non ci dirà mai che "non si piace".

Cosa è giustificabile e cosa no nel voierismo fotografico?
Al giorno d'oggi il limite tra foto-giornalismo e foto-cannibalismo è molto labile. E' difficile capire dove finisca la notizia e dove inizi il voyeurismo.
La fotografia al giorno d'oggi non è più solo una forma di espressione artistica ma viene spesso messa al servizio di scopi non propriamente nobili. Certo è che in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo le persone sentono spesso la necessità di distogliere l'attenzione dai problemi propri per riversarla nelle "disgrazie" altrui, quasi come fosse un modo per esorcizzare la paura. In questo senso la fotografia in quanto prodotto non fa altro che il suo dovere dando all'utente quello di cui ha bisogno.La macchina fotografica diventa il mezzo per intromettersi, trasgredire e distorcere una realtà.
Grazie alle nuove tecnologie, a nuovi telefoni cellulari dotati di obiettivi fotografici ed a macchine digitali sempre più piccole, siamo testimoni costanti di quello che accade. Se, tuttavia, per molti l’atto di fotografare si riduce in una semplice attestazione di un’esperienza e nella riduzione della stessa in immagine, per altri la fotografia non è solo il frutto di un incontro tra evento e fotografo, ma uno scambio tra tale incontro e l’evento in sé.

Quanto la letteratura e il cinema hanno influenzato la tua fotografia?
Devo molto ad entrambe per diversi motivi. La letteratura per me è stata una compagna, molto spesso un'amica, è stata lo stimolo a dare voce ai miei pensieri. Il cinema anche mi ha sempre affascinato e a lui forse devo la passione per "l'inquadratura", la scelta dei piani, delle luci e la voglia di narrare con le immagini.

Che rapporto si viene a creare fra fotografo e modella? questo rapporto può inficiare la riuscita di scatti creativi?? come cambia una persona di fronte all'obbiettivo?
Il rapporto con le modelle, che siano esse professioniste oppure alle primissime armi, è un aspetto molto importante per la buona riuscita dello shooting. Un piccolo sbaglio o una frase malintesa potrebbe mettere a disagio la modella e rovinare il rapporto di complicità e di conseguenza l'intera sessione nonché la reputazione. Le persone e i loro caratteri variano e non è sempre facile entrare subito in contatto e trovare il giusto feeling, per il resto  essere gentili e cortesi, informali ma professionali allo stesso tempo. Ridere e scherzare per rompere la tensione e per dare alla sessione il giusto grado di divertimento e piacere, cercando di non esagerare. Si deve comunque tenere un comportamento di fondo professionale.

Intervista a Marco Valerio Nati 3

Postproduzione: quando e perché?
Penso che questo sia un argomento molto controverso sul quale si debba fare una fondamentale distinzione, esistono due tipologie di fotografia, fotografia intesa come documentazione, come ad esempio la fotografia di reportage, e la fotografia cosiddetta interpretativa come può essere la fotografia pubblicitaria, di moda, oppure nel paesaggio.
Nel primo caso non è ammesso nessun tipo di fotoritocco che ne possa in qualche modo inficiare la veridicità e renderla così inattendibile, nel secondo caso ben venga l’intervento creativo perché essenzialmente ci permette di dare spazio alla creatività, di mostrare la nostra visione del mondo. Personalmente una lieve correzione del colore, delle piccole imperfezioni, che possono andare dai pori della pelle in un ritratto alla rimozione di piccoli elementi di disturbo nei paesaggi, amo sempre farla per dare alle foto quel tocco in più.

Cosa significa per te sperimentare?
tutto… o quasi ! da buon fotografo cresciuto sui libri e sul campo più che a scuola posso dire che per me la sperimentazione resta uno dei pochi, se non l'unico mezzo per conoscere. La fotografia è per me ancora in continua evoluzione, ogni giorno scopro tecniche nuove e nuovi modi per giocare con la luce, e ogni esperimento è una nuova emozione.
Quello che consiglio a tutti gli aspiranti fotografi è di sperimentare il più possibile, confrontare e perché no anche "copiare". Quante volte ho visto immagini strabilianti e ho cercato di replicarne l'atmosfera e l'illuminazione ottenendo spesso risultati differenti perché comunque intrisi del mio stile e del mio modo di vedere il mondo.

Come "leggi" una fotografia?
La prima cosa che faccio è guardarla nell'insieme, se non mi colpisce al primo impatto è difficile che io possa cambiare idea, superato questo primo passaggio analizzo prima la tecnica e il messaggio, se ne contiene uno.

Qual è il tuo ultimo progetto?
E' un connubio fra reportage e moda. Sono delle doppie esposizioni in cui sovrappongo gli interni delle sfilate di moda alla vita quotidiana spesso cruda e soprattutto lontana.
Un gioco di luci e ombre.
E' il mondo incantato della moda che si scontra con la vita di tutti i giorni.
Allo stesso tempo è il mondo crudo della moda che si insinua all'interno della quotidianità.

Perché hai deciso di fotografare interni ed esterni della sfilata?
L'idea mi è venuta durante la settimana della moda di Milano, avevo la mia analogica con me, che permette di fare questo tipo di esposizioni, e ho pensato che sarebbe stato interessante mettere a confronto, anzi scontrare i due mondi, spesso lontani e spesso molto vicini.

Quale sarà' il tuo ultimo scatto?
Non so dirti quale sarà, posso solo dirti che finchè sarò in grado di meravigliarmi, ci sarà sempre qualcosa di interessante da fotografare.

di Luca Torzolini e Daniele Epifanio

In un nascosto paese del Lazio, immerso nella poesia che la natura costantemente e gratuitamente ci dona, siamo andati ad incontrare Fabio Piscopo, pittore figurativo e scultore fiorentino. Un artista che non definisce le proprie produzioni artistiche come “opere” bensì come “realizzazioni” e che racconta con un sincero sorriso sulle labbra di quando, in seconda media, bravissimo in tutte le materie, venne rimandato a causa della sua insufficienza in disegno: “il bello è che avevo già deciso di frequentare in futuro solo ed esclusivamente il liceo Artistico come scuola, volevo imparare a disegnare […] nell’opera, quadro,  scultura, ceramica non metti l’oggetto, bensì un tuo pensiero. Per trasmettere tale pensiero però, devi essere in grado di formulare un discorso. Ad esempio, nel linguaggio parlato per saper formulare un discorso non puoi solamente saper spiccicare l’italiano, devi conoscere la sintassi, la grammatica, un poco di etimologia delle parole; insomma devi avere un minimo di formazione così da essere un bravo comunicatore. Nell’arte figurativa gli strumenti sono diversi ma il concetto è sempre quello. Sapendo che tutto ciò che m’insegnavano non era propriamente definibile come arte, mi sono iscritto al Liceo Artistico: volevo poter padroneggiare gli strumenti da utilizzare per esprimere ciò che volevo esprimere.”

Intervista a Fabio Piscopo 1

Fabio, qual è il messaggio della tua arte?
Per me che ho scelto di comunicare attraverso “il segno” è un po’ difficile dirlo a parole.
In ogni mia realizzazione però vi è l’umanità, al centro di tutto c’è l’uomo. È inutile andare a ricercare altri benesseri all’interno della vita se per primo si esclude il rapporto con gli altri uomini. Il messaggio potrei definirlo come “amore”, nel senso grande del termine. Non come quello che nasce tra un uomo e una donna o nella sua accezione carnale, bensì nelle interazioni tra tutte le persone. Se ci fosse questo tipo di sentimento tra tutti gli uomini, il politico, dall’alto della sua posizione, farebbe gli interessi di tutti e ognuno, concorrendo al bene dell’altro, concorrerebbe anche al proprio: nessuno cercherebbe di fregarsi. Questo è il mondo ideale che noi chiamiamo “utopia”, ciò però non significa che non potrebbe esistere.

L’arte per te è un fenomeno sociale o naturale?
Io credo che l’arte sia insita dentro ciascun individuo, tutti al momento della nascita hanno la creatività insita nel proprio io o nella propria testa. Poi per un motivo o per un altro c’è chi la mantiene e c’è chi invece la soffoca e ciò accade nei primissimi anni di vita, quando si è ancora bambini. In seguito ci sono momenti in cui da fastidio avere questo cervello, questo “io creativo” e dunque ci si adegua alla società, ci si adegua alla normalità per avere una vita meno contrastante e meno contrastata. Invece c’è chi quest’arte la coltiva, chi vive bene dentro questo “io diverso” e che dunque coltiverà la propria predisposizione innata sviluppando il senso artistico, il senso critico e imparando ad accettare i disagi e le bellezze che la vita ci offre…
La vita da artista… sai, delle volte mi ritrovo a parlare con gente che mi dice <<beato a te che fai questo, beato a te che hai scelto di vivere così, beato a te che puoi fare quello che ti pare…>> la domanda che mi viene sempre spontanea è <<ma perché non lo fai anche te?>> loro dicono <<ah no… io ormai…>>: bene questa è la negazione dell’arte, quando uno dice <<io ormai sono distrutto>>, ma chi t’ha distrutto dico io? Una persona può riprendere la propria creatività anche se per 20-30 anni l’ha rinnegata. Ci vuole un minimo di coraggio… neanche molto in fondo, certamente non pari a quello di cui si ha bisogno per affrontare una malattia.

Qual è una delle tue più profonde paure da sempre?
Forse la banalità. Ritrovarmi a essere piatto e non avere, la mattina quando mi sveglio, più nessun entusiasmo. Pensare che quella mattina sarà uguale all’altra…
Ad esempio, mi ha sempre spaventato il così detto “lavoro giornaliero”, senza un minimo di emozione, diversità o creatività nei confronti della giornata. Mi angoscia l’idea di ripetere il gesto, di partire, di andare, di tornare, di vedere, di mangiare, di dormire per poi ricominciare da capo sempre lo stesso ciclo… vivere dentro questo senso di noia per poi arrivare sino alla vecchiaia e alla morte. La maggior parte delle persone arriva in fondo alla vita non vivendo più, sono già morte prima; sono morte dal momento in cui hanno iniziato la famosa “carriera”: la carriera del lavoro, della famiglia o dei rapporti con la società… questo modo standard di vivere.

Possono esserci compromessi nel corso dalla vita?
No no no…. Compromessi non devono esserci, assolutamente. Se hai un compromesso e un senso della vita creativo prima o poi questo compromesso ti crolla, o crolli te o crolla lui. Non ci devono essere compromessi ma una chiarezza totale, poi le persone che ti stanno accanto ti devono accettare o non accettare per quello che sei. Non bisogna poi essere spaventati dalla solitudine poiché, se vissuta coscientemente, non è solitudine quanto pienezza del proprio essere. Quando una persona impara a vivere bene nella propria solitudine, vive benissimo anche insieme agli altri.

Intervista a Fabio Piscopo 2

Cosa significa per te “sperimentare”?
Prima di tutto la sperimentazione è una distruzione di ciò che sai e di ciò che ti è certo. Io ho delle sicurezze, dal momento in cui violento queste sicurezze, ho la possibilità di scoprirne di nuove. Quindi la ricerca è non aver paura di andare oltre il conosciuto, oltre il certo, oltre ciò che da sicurezza e pane quotidiano.

Cos’è la “perversione”?
La perversione è tutto ciò che è contro la naturalezza. Uno che si abbuffa di pasta asciutta è un pervertito o uno che si abbuffa di vino è un ubriacone, mentre gustare un bicchiere di vino è un'altra cosa; anche nel sesso è così. La perversione è sempre qualcosa che va oltre il naturale. Non credo che in natura essa esista, dunque se vai contro ciò che è naturale, vai contro la tua stessa natura.

Se mancassero 6 ore alla fine del mondo, cosa faresti?
Mhà… guarda penso che continuerei a fare quel che sto facendo. Effettivamente sono diversi anni che penso alla mia fine e sono dunque diversi anni che penso a gustarmi ogni momento, invece di continuare ad affrettarmi. Se dovesse finire il mondo tra sei ore, credo che rallenterei ancora di più, proprio per gustarmi ogni secondo di quel che sto facendo, perché tanto correre sarebbe inutile.

Spenderesti tempo anche per aggiustare quella mattonella incrinata?
Ahahah… Beh se mi trovassi nel momento in cui la sto aggiustando finirei di farlo. Non importa se aggiusti una mattonella o fai un quadro, tanto è la stessa cosa, arriva la fine no? L’importante è che quel che stai facendo tu lo viva… non è che cosa fai ma come lo fai.

Credi che le cose finiscano?
Si, un’opera finisce… ma solo perché ne deve iniziare un’altra. Lo stesso è per il rapporto con le persone. Quando un rapporto finisce è sempre una cosa orribile, un rapporto non dovrebbe mai finire, perché poi rimangono solo rabbia, rancore ­­­­e negatività; il rapporto dovrebbe evolvere. Il finire di una relazione dovrebbe essere il suo trasformarsi. Ad esempio, posso avere un rapporto amoroso o sessuale molto stretto con una donna, poi improvvisamente esaurirlo, per tanti motivi dipendenti o meno dalla volontà di entrambi, però questo rapporto dovrebbe rimanere vivo, rimanere costruttivo, dovrebbe percorrere un’altra strada rimanendo però sempre in cammino, un cammino evolutivo, in avanti.
Il rapporto che finisce è stato un avanzamento, un qualcosa che ha accresciuto la tua personalità… perché distruggere qualcosa che ti ha arricchito?

di Lisa Gyongy

Un giorno ci sei - Lisa Gyongy

Un giorno ci sei. Un giorno non ci sei più.

Marta, fisico esile, capelli bruni sempre raccolti in una coda tirata stretta al centro della nuca. Occhi castani, grandi, leggermente sporgenti. Denti perfetti. Dodici anni compiuti da un mese e due settimane. La mia migliore amica, la mia gemella d’anima. Noi, separate solo da una semplice “T”.
Non si hanno sue notizie da due settimane.
La polizia mi ha interrogata. Sono stata l’ultima a vederla e l’ultima a ricevere una sua chiamata.
Io e lei, nel cortile della scuola, alle quattro e mezza di due settimane fa.
Dopo le lezioni siamo rimaste a chiacchierare del ragazzo che le piace, il biondo Antonio, perché le aveva lanciato un bigliettino sul banco durante l’ora di matematica ed era tutta eccitata. Diceva: “Venerdì cinema con Davide. Tu e Mara venite?”.
T. indossava la maglietta azzurra con il sorriso di un gatto fatto di brillantini, jeans neri attillati e Converse nere. La più bella di tutte.
Le brillavano gli occhi. Stavamo architettando di andare a farci l’orecchino al naso... Io avrei falsificato la firma per lei, e lei per me.
Quel venerdì doveva essere il nostro venerdì. Il primo bacio...
Non che a me Davide piacesse particolarmente, ma il fatto di poter condividere un momento così importante con lei... beh, con chi avrei avuto il mio primo bacio era solo un dettaglio.
Il giorno dopo avevamo il test di scienze, ma non ne abbiamo parlato, troppo impegnate a pianificare i nostri piccoli intrighi.
Siamo partite da scuola che erano le quattro e quarantotto, lo so perché mi ha chiamato mia mamma per dirmi che stava tornando dal supermercato e che se eravamo ancora a scuola poteva darci un passaggio. Non l’abbiamo voluto... volevamo parlare ancora un po’ senza orecchie indiscrete.
Abbiamo percorso via Galileo fino a via Marconi, poi all’incrocio con via Dante ci siamo fermate a definire gli ultimi piani. Ci siamo abbracciate e ci siamo separate, io verso casa mia, lei verso casa sua.  Tanto ci saremmo sentite da li a poco su internet.
Era allegra, mi ripeto, non c’era niente di sospetto nel suo atteggiamento, niente che mi avesse messa in allarme. Era la mia solita Marta.
Sono arrivata a casa che erano le cinque e un quarto. Tullio era già piazzato davanti al computer, quindi dopo averci litigato un po’ ho mandato un messaggio a Marta per dirle che non avevo accesso a internet e mi sono messa a mangiare una barretta di cereali e cioccolato davanti alla televisione. Poi mi sono ricordata del compito di scienze, ho preso il libro e ho cominciato a ripassare, stando sempre davanti alla televisione.
Alle cinque e trentadue è arrivata mia mamma, che nel frattempo si era attardata al supermercato perché aveva incontrato un’amica. L’ho aiutata a mettere via la spesa, mi ha rimproverato per il fatto che studiavo davanti al televisore e mi ha raccontato dei pettegolezzi freschi freschi.
Alle cinque e quarantadue Marta mi ha telefonato. Avevo la vibrazione, la televisione accesa, mia mamma che mi raccontava le cose e mio fratello Tullio con la musica accesa.
Non l’ho sentito...
Alle cinque e cinquantuno ho visto la chiamata e l’ho richiamata con il telefono di casa un minuto dopo. Il telefono suonava occupato, o spento. Le ho mandato un messaggio spiegando perché non avevo risposto e di squillarmi appena era libera.
Alle sei e quindici ho riprovato a chiamare. Poi alle sei e mezza, e alle sei e trentanove ho chiamato a casa sua.
Ha risposto sua madre. Appena le ho chiesto di passarmi Marta è rimasta in silenzio per qualche secondo, poi ha detto: “Ma non è con te?”
“No... ci siamo separate all’incrocio.”
“Aspetta un secondo, magari è chiusa in camera e non l’ho vista entrare. Arrivo subito.”
Suono dei suoi passi verso la camera di Marta, bussa, apre.
“No, non c’è... pensavo che ripassavate scienze insieme... Ma l’hai chiamata sul cellulare?”
“Certo, tre volte, ma sembra occupato, oppure spento... per quello ho chiamato a casa.”
Silenzio.
“Ok, provo a chiamarla anch’io. Fammi sapere se ti risponde.”
Abbiamo messo giù. Ho aspettato qualche secondo prima di richiamare, non volevo rubare la linea a sua madre. Suono di telefono spento. Riprovo dopo qualche minuto.
Ho comunicato la mia preoccupazione a mamma e le ho detto che volevo uscire a vedere se non si fosse fermata da qualche parte per strada, forse era per quello che mi aveva chiamata e poi la batteria del telefono si era scaricata.
Ho pensato: “se ha incontrato Antonio e l’ha baciato non le parlo mai più.”
Mia madre ha detto che veniva con me.
Siamo uscite, abbiamo camminato veloce fino all’incrocio con via Dante e abbiamo proseguito per via De Piscopo, poi via Serafino Uberti camminando lentamente e guardando dentro tutte le traverse. Io tenevo il telefonino in mano, pregandolo di farmi arrivare un messaggio di Marta. Ho chiamato Alice, tanto per sapere se l’aveva sentita e mi ha detto di no e perché.
Ho mandato un altro messaggio a Marta: “T dove6? Ci stiamo preoccupando. Risp!!!!”.
Alle sette e dieci eravamo davanti a casa di Marta. In quel momento sua madre mi ha richiamata e le ho detto che eravamo li davanti. Ha aperto la porta e ci ha fatto entrare.
Aveva l’aria molto preoccupata.
Ha chiamato suo marito. No, non aveva sentito Marta. Ha chiamato la nonna, no Marta non era con lei.
Alle sette e mezza la mamma di Marta ha pronunciato per la prima volta la parola polizia. Mia mamma ha cercato di sdrammatizzare.
Alle otto la mamma di Marta ha chiamato la polizia. Le hanno detto di stare calma, le hanno chiesto le generalità di Marta e hanno detto che spesso questo tipo di sparizioni si risolvono nel giro di dodici ore.
Mamma ha chiamato papà a lavoro dicendogli che ci fermavamo a casa di Marta e ha chiamato Tullio dicendo che papà arrivava presto.
Ho chiamato Luisa, Marco, Dalila e ho esitato sul numero di Antonio. Alle nove è arrivato il papà di Marta.
Alle nove e dieci abbiamo richiamato la polizia. Alle nove e quaranta sono arrivati due poliziotti. Si sono fatti dare una foto di Marta, gli ho descritto come era vestita. Sono usciti a fare un giro, poi sono tornati e hanno chiamato altri poliziotti.
Alle undici e mezza ci hanno detto di andare a casa. Ho fatto promettere alla mamma di Marta di chiamarmi a qualsiasi ora.
Ho provato a chiamare Marta altre dieci volte, se non di più, finché non sono crollata addormentata verso l’una di notte.
Mi sono svegliata alle sette, ho pianto per frustrazione non trovando nessun messaggio e nessuna chiamata, ho riprovato a chiamare,.
Alle sette e mezza mi ha scritto un messaggio Alice, per sapere se avevo trovato Marta. Non le ho risposto. Alle sette e quaranta ho chiamato a casa di Marta, ha risposto il fratello dicendo che non avevano sue notizie. Era sconvolto, avevano passato tutti la notte in bianco.
La polizia iniziava a girare per il quartiere con i cani. E poi fuori dal quartiere, e poi nelle campagne.
Alle nove ho ricevuto un messaggio di Marco, mi sfotteva per non essere a scuola a fare il compito di scienze. Non gli ho risposto.
Ho chiamato Marta a scadenze irregolari fino all’una, le ho mandato tre mail, poi ho ripercorso la strada verso casa sua e sono rimasta a guardare il viavai di gente nel suo salotto fino alle sei di sera. Poi è arrivata mia madre, mi ha sgridata per il fatto di essere uscita di casa senza dirlo, mi pensava a scuola... poi mi ha abbracciata.
Ho mandato un messaggio ad Antonio. Nel frattempo la polizia mi ha riconosciuta come ultima persona ad aver visto Marta. Gli ho raccontato tutto, più volte. Poi hanno chiamato Antonio e sono andati a casa sua.
Filippo, il fratello di Marta, mi ha raccontato che durante il giorno hanno interrogato tutti i famigliari, compresa la nonna, e alcuni vicini.
Ho riletto tutti gli ultimi messaggi scambiati con Marta, ho guardato le foto che abbiamo fatto insieme.
Volevo andare in camera sua, ma non me l’hanno permesso.
Alle otto sono tornata a casa. Ho acceso internet, ma niente.
Ho passato la notte in mezzo agli incubi. Marta mi chiamava, ma non aveva voce.
Il giorno dopo mia madre mi ha detto che era meglio andare a scuola. Mi sono rifiutata. L’ho pregata di portarmi a fare un giro in macchina per la città. Sono rimasta incollata al finestrino, sussultando ogni volta che vedevo il colore azzurro.
Venerdì ho ricevuto un messaggio da Antonio, chiedeva come stavo e se sapevo niente di Marta. Gli ho detto che non sapevo niente... e gli ho chiesto come stava lui. Mi ha mandato “:(“.
La sera hanno parlato di Marta in televisione. Marta ha sempre sognato di andare in televisione...
Lunedì ho litigato con mia madre perché non volevo andare a scuola, ma poi mi ha convinta, anche perché mi aveva scritto Alice dicendo che dovevamo organizzare una ricerca personale, che aveva già coinvolto quasi tutta la nostra classe e la B.
Mia madre si danna per non aver insistito a venirci a prendere. Io mi danno per non aver detto di si.
Soprattutto... alle cinque e quarantadue mi ha chiamata. Io non ho risposto.
Sono passate due settimane.
La polizia non ha trovato niente. Al telegiornale parlano sempre meno di Marta, niente scandali, niente di marcio nella sua famiglia o in quelle dei vicini. Non hanno nemmeno trovato il suo cellulare, o un pezzo di vestito, un libro, una matita... da nessuna parte...
C’è un poliziotto che mi piace molto, si chiama Claudio Rotolo. Buffo come nome. E’ stato il primo a interrogarmi. E’ molto gentile e spesso, con la scusa di chiedermi qualche altro dettaglio, mi chiama per aggiornarmi sull’indagine in modo discreto e per mostrarmi il suo sostegno e la sua dedizione nella ricerca di Marta.
Sta iniziando la terza settimana.
La chiamo ancora, ogni giorno. La mattina appena sveglia, nella pausa pranzo e la sera prima di andare a dormire.
C’è una nostra foto che amo particolarmente. Era il giorno prima del suo compleanno. Eravamo andate in riva al lago con l’intento di farci delle belle foto da mettere sul nostro profilo internet.  Avevamo finito per farne tantissime e una più scema dell’altra.
Marta sorride mostrando tutti i denti e strizzando gli occhi, con il collo allungato. Io rido di rimando per la sua faccia buffa e ho gli occhiali tutti storti. Dietro di noi il lago scintillante e un pezzo della panchina verde su cui eravamo sedute.
L’ho stampata grande e l’ho messa sulla mia bacheca con frasi di magica preghiera: “Marta torna”, “Marta so che stai bene”, “Marta sei la mia T.” “So che ti troverò presto”. Le ho scritte lentamente, ripassando ogni lettera dieci volte... mi dicevo, al decimo giro Marta mi chiamerà. Alla prossima lettera Marta mi chiamerà. Se ripasso questa lettera dieci volte senza uscire dai bordi Marta mi chiamerà.
Il gruppo di ricerca creato da Alice non ha avuto molto successo. Siamo usciti un fine settimana correndo per tutte le strade, fermando la gente e chiedendo se avessero mai visto questa ragazza. Ci rispondevano “Sì, in televisione”. Marta! Sei famosa! Come devi essere orgogliosa!
Marco aveva portato anche il cane di sua madre, un perfetto segugio che non smetteva un attimo di abbaiare in modo isterico. Anche Antonio era venuto con noi, e Davide, e la stronza della B che voleva solo far vedere quanto fosse brava a venire con noi sfigati a cercare Marta.
Avevamo iniziato con entusiasmo, eravamo sicuri del nostro successo, tanti piccoli investigatori. Ma dopo qualche ora i miei compagni avevano iniziato a strascicare i piedi, a inviare messaggi dicendo che avevano guardato dappertutto, chiesto ovunque, ma niente.
“Marta, se leggi questi messaggi, fammi uno squillo...”
“T, ti voglio bene, sappi che ti stiamo cercando!!”
“Mi manchi.”
“Se qualcuno ti sta facendo del male giuro che se ne pentirà tantissimo!!! Sai quando mi trasformo in ragno viscido e puzzoso, ecco!!”
“T torna da me.”

Primo mese.

... Ho solo dodici anni! Cosa posso fare!? Oggi mi sono messa a piangere al telefono con Claudio. Mi ha detto di non perdere la fiducia. E come faccio? Come faccio?
La famiglia di Marta ha organizzato una fiaccolata in suo onore. C’era tantissima gente. Foto di Marta su grandi cartelloni, frasi dolci dedicate a lei. Marta, sei una star.

Due mesi.

Ho aperto un blog, me l’ha consigliato il mio psicologo.  In realtà mi ha consigliato di scrivere un diario, dove scrivere tutte le cose che voglio dire a Marta...
Sto ricevendo molta solidarietà, da posti anche molto lontani. Marta, la gente ti vuole bene.
Grazie.

Tre mesi.

Alice mi sta molto vicina, ci vediamo spesso e mi parla di tutto. Molto più di prima. Le ho urlato contro e le ho detto che non prenderà mai il posto di  T.
Inizio a perdere i contorni del suo viso. Quando chiudo gli occhi e li strizzo non riesco più a vederla per intero. Cerco di seguirne i contorni con le dita... Vedo un suo occhio, il lobo dell’orecchio, i capelli tirati vicino alla coda di cavallo...
Non la vedo più intera.
“T. T. T. T. T. T...”

Quattro mesi.

Antonio mi ha confessato che quel bigliettino l’aveva scritto a Marta, sì, ma che era rivolto a me... era me che voleva invitare al cinema. Gli ho urlato contro, dicendo che non aveva il diritto di rovinare l’ultimo sogno di Marta.

Cinque.

A scuola Marta sta diventando un argomento da evitare. Nessuno mi guarda in modo diretto, nessuno mi guarda dritto negli occhi, è come se fossi sparita anch’io...

Sei.

Hanno fatto una messa per Marta... come se fosse morta. Non ci volevo andare, ma mia madre mi ha fatto ragionare e mi ha convinta per rispetto alla sua famiglia. Il prete ha detto che Dio è con lei, non è da sola. Gli  ho urlato contro e gli ho detto che è di noi che Marta ha bisogno.

Sette.

La nonna di Marta è morta. Il suo cuore era troppo pieno di dolore.
“T., noi ti aspettiamo sempre”.

Otto.

Nove.

Dieci.

È il suo tredicesimo compleanno. Le piaceva il tredici, diceva che a tredici anni si inizia a diventare donne.
“Buon compleanno sorella mia! Ti ho comprato una cosa bellissima, sono stata tre ore dentro al tuo negozio preferito! Volevo comprare tutto! Vieni a prenderla, ti aspetto.”

Undici.

Dodici.

Marta, ti vedo come una statua di cera, immobile, liscia, eternamente bella e fragile allo stesso tempo. Ti sogno. Faccio incubi.
“T. non mi lasciare sola. Ti prego...”
Altra fiaccolata per questo anniversario che non vorrei ricordare. Meno gente della prima volta. Marta. Hai deciso di sparire, e l’hai fatto in modo delicato, come il tuo carattere. Niente colpi di scena, niente scandalo.
Niente.

Due anni.

Vorrei solo sapere cosa ti è successo. Dove sei. Cosa fai. Come sei diventata... Chi è stato.

Tre.

Vorrei solo sapere se sei ancora viva.

Quattro.

Vorrei.

Cinque, sei. Sette. Otto. Nove.

Dieci.

di Ettore Zanca

Livello zero - Ettore Zanca 1

Ho vinto.  Mamma diceva che perdevo solo tempo, ma io stavolta mi sono messa di buzzo buono. Detesto arrivare a un passo dall’ultimo livello e perdere tutto.
Mi piacciono i videogiochi l’ho detto anche alla professoressa che somigliano un po’ alla vita. Ne ho trovato uno che mi piace tanto. C’era un Orco che prendeva una principessa e la portava in un castello diroccato, un cavaliere affrontava un sacco di piccoli mostriciattoli, ostacoli, spine infernali, fuoco fiamme, per salvarla. Mamma si arrabbia se passo troppo tempo davanti alla mia Playstation, “maledetta me e quando te l’ho comprata!” mi dice sempre.
Invece non immagina quanto mi è stata utile. L’orco che prende la principessa mi ha sempre fatto ammattire. Sembra non ci sia modo per sconfiggerlo. Il cavaliere prova a parlare con maghi e saggi dei villaggi che percorre, cerca di capire come può sconfiggerlo, ma tutti gli dicono che non deve parlare ma essere coraggioso, trovare l’arma segreta e uccidere quel mostro orribile con quella. Così ho cercato l’arma segreta, livello per livello. A papà sembro triste quando viene a trovarmi in camera. Non capisce perché quando abbiamo i suoi amici a cena mangio di fretta e scappo in camera. Mamma è preoccupata perché a scuola le hanno detto che sono molto silenziosa, sono cambiata. La psicologa della scuola e la professoressa dicono due cose diverse. “è colpa di questi videogiochi” dice la prof, “no, la ragazza sta crescendo, il fisico cambia e non tutte le ragazzine lo accettano” replica la psicologa.
Io non devo ascoltarle, sono come le streghe maligne che fermano il cavaliere e gli indicano la strada sbagliata per non farlo arrivare dalla principessa. Io invidio quella principessa che ha un cavaliere che risolve i suoi problemi, che si fa in quattro per lei e non accetta la realtà che i nemici provano a fargli vedere. Lui va oltre e lei lo aspetta. Sa che sconfiggerà l’orco. Quando troverò l’arma segreta so che sarò felice. È il mio unico obiettivo. Anche a scuola ormai non penso ad altro. Certo un po’ ne risente lo studio, ma poi recupero. Anche le mie amiche mi trovano un po’ strana. Anzi mi giudicano infantile, loro osservano e ammiccano i ragazzi della classe, ma mirano a quelli più grandi e invidiano Marina che è ripetente e ha il fidanzato con la macchina vera. Mica quelle lattine ambulanti che i genitori iperprotettivi comprano ai figli al posto del motorino.
Ieri mio padre ha parlato con i professori, è tornato nero. Non ha neanche provato ad ascoltarmi; “o studi e recuperi, o ti scordi questo schifo di console!”, ha ruggito. Stava per prendermela e portarmela via. Dopo mesi di silenzio e di passività, oggi ho reagito. Devo averlo guardato male, molto male, perché si è preoccupato, gli ho detto solo “fammela tenere per un giorno, domani te la do e non ci giocherò mai più”.
Non mi ha creduta. Mi ha lasciato la Play, ma sottovoce ha detto a mia madre che domani avrebbe chiamato una psicologa per cercare di capire, per farmi curare “da una che ne capisce”. Se avesse ascoltato almeno una volta avrebbe già capito.  Stanotte ho fatto le ore piccole, per vedere dove si trovava questa benedetta arma segreta. L’ho trovata, ho capito come si sconfigge l’orco. Ho salvato il livello, pronta allo scontro l’indomani. Ero molto stanca e volevo affrontarlo tranquilla. La mattina dopo ho fatto colazione, sono uscita per andare a scuola.
Papà mi ha detto che di pomeriggio saremmo andati “da una loro amica che voleva parlarmi”, “va bene” ho risposto contenta, mio padre mi guardava come se fossi pazza. Sono arrivata davanti scuola e sono andata oltre, volevo affrontare il livello finale, avevo l’arma segreta e sapevo come sconfiggere l’orco. È stato più semplice del previsto. Basta andare dagli uomini vestiti di blu, proprio accanto alla scuola. Nel mondo reale si chiamano poliziotti, dire il proprio nome e cognome e raccontare di come, per tre volte, il migliore amico di papà approfittando dei pomeriggi che i miei erano al lavoro fosse venuto a casa. Io mi fidavo, mi teneva sulle ginocchia da piccolina, lo chiamavo zio. Ma zio non mi ha tenuto sulle ginocchia, stavolta, per tre volte, ha fatto inginocchiare me. Sarò ancora piccola per certe cose come dice mio padre, ma anche da grande credo che mi faranno schifo.
Poi mi ha detto di non parlare, che era una cosa nostra. Per tante sere è venuto a cena da noi con sua moglie e i suoi figli piccoli. Io sentivo scorrere addosso la stessa sensazione appiccicosa della bava vomitata dall’orco al cavaliere per impedirgli di arrivare alla principessa. Così ho giocato alla play. All’inizio era perché non volevo stare a pensare, quando l’orco andava via dopo le porcherie che mi aveva fatto fare, era per scacciare i fantasmi. Ma poi ho capito che il cavaliere dalla principessa ci deve arrivare.  Perché  l’orco vuole convincerla a essere sua e dice che è amore, che gli altri non capirebbero.
L’amore però non può fare lo schifo che sento io, non è nelle parole inascoltate dai miei, quando insistevo per non restare a cena quelle sere, quando non volevo che mi facessero accompagnare da lui a danza. Ho giocato per liberare la principessa, ora so che c’è l’arma segreta. Si chiama denuncia. L’orco viene sconfitto, ma la principessa non ha tanta voglia di festeggiare, anzi, diciamo che dopotutto si sente anche morire dentro un po’.

di Daniele Epifanio e Luca Torzolini

Intervista a Francesco Leineri 1

Cosa significa per te a livello musicale comporre, ricercare e sperimentare?
Per me fare composizione non è nient’altro che un processo di decomposizione! (ride, ndr) Ricercare, sperimentare, riscoprire, e ovviamente studiare il passato…il nostro e quello degli altri. La ricerca è tutto, è il nostro ossigeno. La ricerca è anche svegliarsi la mattina e chiedersi cosa fare. La sperimentazione deve essere strettamente connessa alla nostra quotidianità: guai a dimenticarlo.

Due sono i modi principali di concepire la musica, quello interpretativo e quello compositivo. Qual è a tuo parere la reale differenza tra il compositore e l’interprete?
Ovviamente sono due mestieri completamente diversi, anche se con punti di contatto molto forti. Banalmente: il compositore scrive mettendo su carta ciò che ha in testa, l’interprete legge e ri-scrive. La difficoltà tecnica non si svela però come l’unico ostacolo: l’interprete cerca di risalire a ciò che il compositore ha pensato quando ha elaborato l’opera, riscoprendolo e riportandolo in vita. Come compositore, è come se dessi l’imprimatur e applicassi il mio cuore su carta. L’interprete invece applica il suo al mio. È un rapporto dialettico unico. Possiamo non vederci e non parlare, ma conoscerci, volerci bene o addirittura odiarci. È magia allo stato puro.

Intervista a Francesco Leineri 3

Dunque è più “umano” il lavoro dell’interprete, emotivamente parlando, di quello del compositore?
Sono abituato a gettarmi fango addosso, quindi ti dico di sì. Scherzi a parte, sicuramente un compositore rischia più facilmente di cadere in un processo creativo cervellotico: deve impegnarsi per far risuonare il brano nelle ossa di colui che lo dovrà eseguire e giocare d’astrazione purtroppo è un rischio che sta dietro l’angolo durante la fase di scrittura. L’esecuzione la considero un po’ come la prova del nove: ogni volta che scrivo un pezzo per qualche altro musicista e che lo sento eseguire, riesco a capire se quel che ho scritto ha senso o meno.

Se possedessi una macchina del tempo, non condizionato da circostanze storico-musicali, dove andresti e perché?
L’apocalisse è vicina: il futuro! (ride, ndr). Voglio capire come finiremo...giusto per sapere dove porta la strada. Tutto il resto - in un modo più o meno realistico - lo possiamo studiare, vedere, immaginare. Sì, la curiosità impellente riguarda certamente il futuro. Il nostro futuro.

Sappiamo che recentemente hai composto le musiche per uno spettacolo teatrale per bambini sul Piccolo Principe. Come recepiscono loro la musica a tuo parere?
È divertente perché lo spettacolo andato in scena non era affatto nato come uno spettacolo di teatro per bambini avendo contenuti molto forti: era una riscrittura del testo di Antoine de Saint Exupery con ampi respiri e diverse licenze contenutistiche. Avevo scritto per l’occasione delle musiche adatte ad un pubblico adulto, che ricalcavano l’impianto drammaturgico e registico. Non che esista “musica per bambini” o “musica per adulti”, ma sicuramente se avessi saputo che l’ascoltatore medio avrebbe avuto sette-otto anni mi sarei quantomeno contenuto, sotto certi aspetti; dall’altro lato, probabilmente, sarei stato troppo influenzato dalle circostanze? Chissà, forse sarebbe venuto fuori un esperimento musicale atroce e violento! Brrr… Il fatto di aver involontariamente considerato i bambini come adulti è stato senz’altro una carta vincente, nonostante le circostanze. Essi hanno l’incredibile qualità di riuscire a stupirsi con facilità, come se fossero carta bianca. Al contrario, per quasi tutti noi, lasciarsi stupire risulta difficilissimo… (silenzio, ndr) Le musiche dello show erano per clarinetto, pianoforte e contrabbasso e ho notato con stupore come l’ingresso dal niente di uno strumento con possibilità timbriche così particolari come il clarinetto folgorasse e illuminasse gli occhi di ciascun bambino presente in teatro.
Non ho mai amato particolarmente i bambini ma con stupore si sono potuti dimostrare più intelligenti e aperti rispetto a gran parte degli adulti ai quali abbia proposto la mia musica. Me incluso.

Intervista a Francesco Leineri 2Alcuni pensatori hanno considerato la musica come la più elevata tra le forme d’arte perché non necessariamente collegata a particolari idee e concetti. Riusciamo a discernere la musica grottesca da quella rilassante identificandola in particolari suoni, tu che cosa ne pensi?
Adesso lo dico con fermezza, ma magari fra cinque minuti non lo dico più: la musica è il regno della soggettività e una delle sue più grandi qualità è quella di poter arrivare al destinatario slegata da orpelli. Sappiamo al contempo di essere però costruiti sopra un groviglio di convenzioni. Come nel mondo del cinema un esperto regista sa che attraverso determinate inquadrature e particolari giochi di luce è possibile ricreare specifiche sensazioni negli spettatori, anche un pianista saprà che una scala cromatica discendente porterebbe il pubblico a pensare, per esempio, al gatto Silvestro che ruzzola giù per le scale! Ma chi mi dice che oggettivamente siano immagini universalmente riconoscibili? La famosa colonna sonora de “Lo Squalo” fa necessariamente pensare all’animale killer? E perché non, slegata dall’immagine, ad un topolino che gira veloce per le strade in cerca del formaggio? È il caso dei bambini dei quali parlavamo poco fa: hanno un’immaginazione superiore alla nostra, sono come slegati da stereotipi e convenzioni. Loro si divertono sempre, noi siamo molto più marci. Attenzione: il pregio enorme della comunicazione musicale è la possibilità di lasciare più spazio all’immaginazione e all’interpretazione!

Qual è secondo te la differenza tra un suono ed un rumore?
Ma che domande! (ride, ndr) Il mio “Brusìo” è stato frutto di un anno di riflessioni del genere! Ne potremmo parlare fino a domani alle cinque. In una tournée di un mese ho affrontato proprio questo argomento interagendo con un’ora e un quarto di rumori, sia attraverso il pianoforte che fisicamente. Non credo ci sia particolare differenza fra un suono e un rumore. Pensa a “Experimentum Mundi” di Giorgio Battistell: è un pezzo per un ensemble di sedici lavoratori, dal falegname al fabbro, che agiscono coordinatamente! Creano musica. Capito, con classici oggetti da lavoro!

Cosa ti rende profondamente infelice?
Ora come ora? La mia sconfitta definitiva sarebbe sicuramente connessa al mio modo di rapportarmi alla musica. Il non riuscire a rispecchiarmi in quello che scrivo, e dunque in quello che vivo. Il giorno in cui sarà così, sarò pronto a gettare via carta e penna…ammesso che si possa fare. Sono profondamente infelice quando non riesco a scrivere ciò che voglio, ciò che sono. È specchio di un profondo problema che sta alla base.

Sono questi per caso momenti in cui la tua musica è più vera di te, più vera di quello che di te sai?
Sì, credo sia così. Sono le volte nelle quali non riesci a capire ciò che veramente sei. Quei momenti in cui, attraverso la musica, è come se spiassi una tua necessità di conoscerti, di riscoprirti.

Se vincessi oggi la lotteria e avessi un milione di euro in tasca, cosa faresti?
Prima la mia famiglia. Poi farei il panico: dopo avere insonorizzato casa per evitare continue discussioni coi vicini, prenderei in affitto i luoghi sacri della cultura romana e organizzerei festival, di qualità, veri, con tutta la gente vera che non può ma che è pronta a distruggere la mentalità culturale asfittica che regge questo paese e questa città: costruttivamente, partendo dalle fondamenta. Non facendo l’orrendo merchandising che pretende di rinnovare cambiando soltanto la facciata e il nome delle cose. Sarei sempre al fianco di tutte quelle persone che si ammazzano la vita dalla mattina alla sera inseguendo un sogno ma rimanendo fortemente attraccati alla terra. Al fianco di tutti quelli che in preda all’orrore hanno deciso di essere se stessi, non per alimentare folli processi creativo-masturbatori, ma perché davvero non possono fare altrimenti. Insomma, fatemela vincere sta lotteria, và! (ride, ndr)

di Lorenzo Agosti

Viaggio di Lavoro - Lorenzo Agosti

Sento il vento accarezzarmi il volto sino a stordirmi.
Stranamente non percepisco quel classico gonfiore ai piedi gravati dal peso del corpo, e le tempie non pulsano gonfie di sangue.
Un emozione mista a paura si fa spazio divampando come un incendio.

Ho freddo…
Non indosso i pantaloni e nemmeno una maglia, ora capisco … sono nudo!
Sotto di me il nulla, sopra di me un altrettanto nulla, cromaticamente più intenso certo ma pur sempre nulla, destra e sinistra faccio fatica a distinguerle.
Sto volando!
E lo sto facendo a gran velocità libero da impedimenti, capace di sfidare le più elementari leggi della fisica … sono felice, sento di essere per la prima volta padrone del mio corpo!
E’ fantastico!
L’improvviso cambio di pressione mi fa fischiare le orecchie … ho la mente completamente vuota.
Aspetta! … Non sto volando, sto precipitando!

E’un incubo!
Troppo assurdo perché sia la realtà.
Tutto quello che devo fare è aspettare di svegliarmi martellato dal fastidioso suono della mia sveglia.
Quanto la odio … prima o poi la prendo e la cestino con tanto di batterie ancora inserite.
Son talmente innervosito da sentire il sapore salato del sangue in bocca.
Qualcosa di caldo e viscoso si fa strada tra i capelli, la reazione è nervosa, mi tocco,  immediatamente intuisco … sono ferito sulla nuca e gran parte della fronte è colorata di rosso.

Voglio che finisca, non mi sto divertendo … è strano come tutto appaia cosi vero e tangibile, ma al tempo stesso fuori da ogni logica.
Anche se terrorizzato mi affascina … è demoralizzante, in una situazione simile persevero ad essere un controsenso vivente.
- Cosa voi George ? – mi chiedeva, - Ordina tu per me, non ho poi tanta fame – rispondevo, gia sapendo che qualsiasi cosa avrebbe scelto non sarebbe mai stata di mio gradimento a priori.
- Manchi di convinzioni – era solito ripetermi qualcuno a cui probabilmente ero affezionato, anche se l’ho sempre ignorato, un po’ per orgoglio, un po’ per pigrizia.
Rinnovarsi, correggendosi cosi da  migliorarsi non è semplice … e quando riesci a trovare le forze per farlo risulta essere immancabilmente troppo tardi.
Devo ammettere, questo percorso mentale si sta rivelando utile, adesso ricordo il mio nome e una parte del mio orribile carattere … davvero una magra consolazione, quasi quasi preferivo rimanere lo sconosciuto nudo e ferito di pochi attimi fa.
Tutto ciò che devo fare ora è..OUCH ! Che diavolo è stato ?
Cristo santo, ho sbattuto contro un uccello, il rumore delle sue ossa che si sbriciolano contro il mio tallone destro è raccapricciante, non sento dolore, ma il cuore mi batte talmente forte da non seguire più un ritmo sincopato.
Sto piroettando come una trottola impazzita.
Lo stomaco mi si rivolta nel vedere le piume bianche incollate dal sangue sulla mia fronte.
Ho capito, sono morto e questa è la punizione per tutte le colpe commesse … se solo ne rammentassi una … sarei più comprensivo verso questa follia allucinante.
Se devo presentarmi davanti al padre eterno, lo voglio fare dignitosamente, in barba alla paura e a quello che io penso di me stesso … ripudio il mio passato, qualunque esso sia, e da ora in avanti voglio essere una persona diversa, forse non migliore, ma sicuramente diversa.
Lo grido a pieni polmoni cosi che cielo e terra siano testimoni della nascita di:
Johnatan, uomo libero a cui piace il caffè e il liquore alla menta, per moda corrente senza  particolari tendenze politiche e forte sostenitore del concetto di riuscire a plasmare il corso della propria vita con la sola forza di volontà, perchè “volere è potere” e nessuno mai potrà negarlo, ne ora, ne mai!

Sono patetico, come questo tentativo di tirarmi su il morale.
Mi sa che ho esagerato nel sottolineare il liquore alla menta … nemmeno credo di averlo mai assaggiato.
Godiamoci il paesaggio, non c’è nulla di meglio da fare … pur sapendo di dovermi schiantare orribilmente al suolo, inizio ad annoiarmi.
E’ strano come l’essere umano si adatti cosi facilmente  … è una maledizione incapacitante non riuscire a provare prolungate emozioni, si diviene apatici e impassibile verso qualsiasi cosa, dalla più meravigliosa, alla più atroce … sto precipitando e non me ne frega un accidenti di nulla, esattamente come la mia personalità, pur non sopportandola, ci convivo, nutrendo sempre più questa frustrazione interiore che intorpidisce i sensi e la mente, lasciandomi in totale indifferenza al cospetto di questo indesiderato me stesso.
Scopro di avere ancora l’orologio grazie alla nevrotica abitudine di guardarmi il polso quando sono annoiato … segna pochi minuti prima delle sette … ma allora sto ancora dormendo!
Difficilmente mi sveglio prima delle otto.
Su Gorge alzati dal letto cosi questo delirio ha una fine !
Avanti…
Dai …
Nulla … quanto sono stupidamente pigro !
Se non fosse di trovarmi a metri e metri da terra, giurerei di aver appena addocchiato qualcun altro nelle mie stesse condizioni.
Si tratta di una donna … sbraccia in silenzio, probabilmente deve essersi resa conto di cosa le sta accadendo … quasi provo pena per lei dimenticandomi di me e della mia autocommiserazione.
E’ ufficiale sono un mostro perverso … dentro la mia testa balenano impulsi sessuali, stento a crederci.
Sbraccio freneticamente anche io, mosso da questi primitivi istinti, voglio avvicinarmi a lei, ce la sto facendo, mi manca davvero poco; piange tenendo gli occhi ermeticamente chiusi dalla paura, i pugni sono stretti al petto e il viso è contratto in una smorfia di terrore.
Non è fisicamente attraente, ma il contesto fa si da renderla una visione celestiale, oserei dire quasi paradisiaca, o più semplicemente è la divisa da hostess di volo a renderla molto sexy ai miei occhi.
Di botto cala l’oscurità, buio, non c’è più nulla intorno a me.
Tutto diventa silenzioso, il fischio alle orecchie è passato e il dolore alle tempie se ne è andato, percepisco solo un insopportabile sensazione di umido e appiccicoso.
Devo essermi svegliato … un vero peccato, alla fine non mi sarebbe dispiaciuto riuscire finalmente a cambiare quella parte di me che proprio non digerisco, ma di cui al tempo stesso non riesco a farne a meno in quanto mi compone e completa nella totalità.
Certo sarei morto da li a poco … ma mi sarei sentito realizzato e felice, indipendentemente dal nessuno tempo a disposizione per godermi quel benessere.
Almeno adesso potrò bermi un caffè … quello veramente mi piace … non come il liquore alla mente.
Strano che la sveglia non abbia ancora suonato e tutto continui ad essere buio…

di Luca Torzolini

foto di Stefano Terenzi, Manuel Chittano e Simona Falcone

Intervista a DoppioSenso Unico 1

DoppioSenso Unico è una compagnia teatrale, produzione video e musicale indipendente, fondata nel 1999 da Luca Ruocco e Ivan Talarico sulla scia dell'omonima compagnia gestita dagli antenati nel 1932.

Dal 2003 è attiva come produzione musicale di colonne sonore, canzoni e musiche per spettacoli.

Nel 2004 inizia la produzione di cortometraggi indipendenti e a basso budget: la trilogia “Horror Vacui”, “'a suppa 'e latte”, “didascalia”, “le feste dei poveri”.

Nel 2005 debutta a Roma, al Gran Teatro Ignazio Abbatepaolo, “Viageatruà”, primo spettacolo di e con L. Ruocco, I.Talarico e Lorenzo Vecchio, seguito da “Le clamorose avventure di Mario Pappice e Pepé Papocchio”, presentato nel 2008 al Teatro Furio Camillo di Roma.

A marzo 2009 si presentano alle semifinali del Premio Scenario a L’Aquila, con “Operamolla – The Flacio show”, riscuotendo interesse e suscitando curiosità.

Nel 2013 debutta al Teatro dell’Orologio “La variante E.K.” e viene presentato il primo studio di “gU.F.O.”

[www.doppiosensouni.com]

Intervista a DoppioSenso Unico 2 - Foto di Manuel Chittano

Il sipario si apre, e voi?
Noi no. Restiamo chiusi in noi stessi. Ci parliamo addosso, ci raggomitoliamo nei nostri angoli migliori. Invitiamo persone a prender la misura della nostra chiusura. Loro vengono e noi implodiamo, stretti stretti nell'estasi d'amor. Ci frantumiamo in migliaia di pezzi, la gente paga e i cocci sono loro. E noi restiamo svuotati ad aspettare il riflusso della marea.

Perché non lasciate il pubblico in pace?
Il pubblico ha raggiunto la pace dei sensi. Noi lo risvegliamo dal torpore atavico in cui si è incarcarito, dopo anni e anni di spettatoraggio teatrale, cinematografico e televisivo. La poltrona non è zona franca. Non vediamo la quarta parete, quindi non crediamo nella sua esistenza. Vogliamo uno spettatore attivo, mentalmente e fisicamente, che non voglia assimilare per osmosi qualsiasi cosa gli si propini dall'altra parte della sala. Entrare a far parte in maniera viva del meccanismo teatrale è la più grande benedizione in cui il pubblico pagante possa sperare!

Che tipo di supereroi vorreste essere e se foste supereroi come cambierebbe il vostro modo di concepire gli spettacoli?
Vorremmo essere uomini indefinibili, persone che sfuggono ai cinque sensi standard e al sesto senso aggiunto. Con fisionomie fugaci, gesti evanescenti, parole immemori. Vorremmo incontrare le persone e lasciare in loro soltanto un sapore di rabarbaro. Mettere specchi opachi al posto delle nostre foto sui documenti. Presentarci con nomi sempre diversi e stringere mani senza restituirle. A differenza degli uomini invisibili quelli indefinibili hanno proprietà di corpo e movimento e insuperabili virtù di anonimato: curvano in velocità nella memoria. Se avessimo questo potere i nostri copioni potrebbero acquistare grigiore e disinteresse, evocare l'horror vacui che tanto ci lusinga.

Che cosa significa per voi sperimentare?
Essenzialmente non annoiarsi nel creare e costruire un qualcosa di vivo, organico, che poi non annoi chi debba fruirlo. La noia intellettiva ci impaurisce.

Io vi chiudo in una stanza, dentro ci sono i seguenti oggetti: un mocio, dei soldatini e un grande naso di gomma. Che cosa fate?
Teniamo pulito. Muoviamo guerre immaginarie. Sintetizziamo odori per soddisfare il naso. Questo per i primi minuti. Poi ti chiediamo perché ci hai chiuso nella stanza. Tu non rispondi e lo chiediamo a noi stessi. Ma siamo omertosi e quindi lo chiediamo alla stanza. La stanza fa la smorfiosa. Noi la accarezziamo col mocio e lei apre un piccolo varco verso l'esterno. Inviamo le nostre truppe di soldatini armati a cercarti, ma sono dei codardi e disertano. Stracciamo il naso di gomma - in fondo i nostri nasi sono gelosi - e dentro ci sei tu, con una mollica di pane, un busto di marmo e una scodella di riso. Cosa fai?

 

Qual è il confine fra demenzialità ed arte?
Se ti riferisci ai nostri lavori teatrali, non abbiamo mai ricercato, nella scrittura o nella messa in scena, la risata scontata del demenziale, e nemmeno la prepotente personalità dell'arte. Di certo fin dall'inizio cerchiamo di proporre qualcosa di "nostro", che probabilmente sorride sia all'uno che all'altra.

Intervista a DoppioSenso Unico 3 - Foto di Stefano Terenzi

Come si concepisce un personaggio?
Come un figlio; poi nove mesi in una pancia e via, di forza. Per noi è così perché i personaggi che interpretiamo siamo noi, generati e non creati dai nostri stessi genitori. Poi in scena ci incarniamo nei nostri ragionamenti. Ogni tanto creiamo delle presenze: ci mettiamo delle parrucche, torciamo il viso, smozziamo i gesti. Ma le presenze sono un gioco facile, di sartoria, da caratteristi di cinema di serie B. Non crediamo mai di essere qualcun altro, questa è la nostra condanna.

Come si farà teatro nel futuro?
Noi facciamo teatro nel presente. E non diamo certezze sul futuro. Già partendo dalle tematiche stesse dei nostri spettacoli, temiamo un improvviso spegnersi di tutto. Se il teatro dovesse sopravvivere al futuro, speriamo si tratti di un teatro non più rinchiuso all'interno di dinamiche e scheletri rigidi ancor più opprimenti della struttura fisica dell'edificio teatrale in sé... Un nostro antenato, Marco Antonio Scicchitano - più ottimista di noi - preconizzava in una massima "In futuro reciteranno i cavalli a dondolo".

C'è un luogo della Terra, secondo voi, dove non si fa teatro?
Probabilmente nei cimiteri di ermellini a sud di Toronto. O nelle foreste di marmo che circondano la periferia di Zanzibar. Ma anche in molti teatri, spesso.

Cosa centrate voi con l'intervista ai gufi presente a fine giornale?
Alcuni gufi infestano le nostre drammaturgie e i nostri spettacoli. Due in particolare, Luigino e Marisa, hanno fatto una breve ma essenziale apparizione in un nostro lavoro del 2008, "Le clamorose avventure di Mario Pappice e Pepé Papocchio". Ora sono tornati in "gU.F.O.", lo spettacolo a cui stiamo lavorando in quest'ultimo periodo, e che attualmente presentiamo in forma di studio in vari locali romani, pretendendo con arroganza il ruolo di protagonisti assoluti del nulla scenico. Sono esseri vuoti e paranoici. Dovresti tenerli alla larga.

di Luca Torzolini

 

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 1

 

Kyrahm e Julius Kaiser sono artiste operanti nel settore della Performance Art. Diversi storici dell'arte indicano la coppia artistica come una delle nuove evoluzioni della body art storica contemporanea.
Kyrahm è artista concettuale, videoartista, body artist e performer . Elabora performance dal forte impatto emotivo. Julius Kaiser è videomaker, drag king e performance artist. La sua ricerca artistica ha origine nell'ambito della sperimentazione che indaga i ruoli sociali di genere proponendo una visione fluida degli stessi coerentemente con le teorie filosofiche Queer. Lavora anche come videomaker realizzando videoclip e documentari, organizza workshop.

“Kyrahm e Julius Kaiser sono il Capitano Achab della nuova frontiera corporea, trans/oceanica dell'esistenza, capaci di fermare e ri-creare il mondo, là dove il sacrificio diventa poesia verso l'essere umano che s'offre (per scelta) e soffre (suo malgrado)” (Marco Fioramanti).

“Kyrahm e Julius Kaiser: il corpo mutante del ventunesimo secolo” (Lorenzo Canova 2012).

“Kyrahm e Julius Kaiser sono tra i nuovi rappresentanti della body art contemporanea” (Vitaldo Conte 2012).

Premi e menzioni:

2008: tra le 30 migliori performance del mondo - Manifestazione IDKE - Columbus, Ohio, Usa 2009: vincitori del Premio Arte Laguna sezione sperimentale performance - Venezia, Italia

2010: winner on-line vote Celeste Prize International - New York, USA

2012: Miglior documentario - Corto Acquario International - Roma, Italia

Menzione Speciale Premio Chiara Baldassari - Vecchiano, Italia.

2013: vincitori del Premio Adrenalina sezione Body Art - Museo MACRO, Roma

Che significato ha per voi la parola “comunicare” e che valore ha nelle vostre opere?
La comunicazione è un processo di decodificazione di segni attraverso il quale è possibile entrare in relazione con altri ed esprimere messaggi e significati.
Attraverso il corpo presente, mezzo semantico per eccellenza, cerchiamo una connessione orizzontale con il pubblico che assiste e interpreta.
Noi ci esprimiamo attraverso il linguaggio della performance art e dell'arte visuale.
Spesso partiamo da un vissuto personale, perché crediamo fortemente nell'autenticità dei messaggi da veicolare.

Nella performance “Human Installation 0: Chrysalis”, Kyrahm è rinchiusa in un bozzolo per 24 ore, custodita per i bisogni primari dalla sua vera madre con collegamento web 24 ore su 24. Un gesto per risanare l’incomunicabilità tra genitore e figlio.

“Dormi o sei morta?”

Mamma conchiglia, 
figlia poltiglia.

“Sono viva, non senti il mio respiro?”

“Credevo fosse il vento.”

(Kyrahm)

Una webcam è posizionata allinterno della Crisalide.

Attraverso il live streaming provochiamo l'interazione tra spazio pubblico e privato, un'estensione dell'hic et nunc, l'interdisciplinarietà dei linguaggi della comunicazione.
L'azione ha avuto notevole interesse mediatico e numerosi servizi, tra cui anche Repubblica, hanno dedicato spazio all'evento.
Nel 2011 per la presentazione di Born this way, il nuovo disco, Lady Gaga dichiara di essere stata rinchiusa in un bozzolo per 72 ore con collegamento on line attraverso il social network twitter con i suoi fan.
Dopo le 30 ore, Kyrahm esce dal bozzolo per iniziare Human Installation II: Life Cycle, sulle fasi della vita. In scena un neonato e soggetti anziani che mostrano i loro vecchi corpi.

Presentata presso:


Mut-azioni Profane - Body Performance Art Festival.

Biennale di Ferrara 2010

Generatech Festival – Valencia 2010

Museo MACRO – Roma 2012

Opera vincitrice Premio Adrenalina 2012

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 2

Che significato riveste per voi la parola sperimentazione?
Elemento assolutamente necessario per il processo creativo, che spesso si traduce nel ricercare il più possibile la sintesi, togliere il non-necessario, gli orpelli.
Ci siamo ritrovati spesso a rielaborare delle azioni nel corso degli anni, asciugando gesti e ricercando l'essenziale. Durante la fase della sperimentazione, fondamentale è comunque eliminare qualunque tipo di censura alle idee, cercando di non focalizzarsi mai sui limiti di realizzazione, ad esempio tecnici. La mente deve essere sgombra da qualsiasi pensiero legato all'impedimento.
L'esperimento è il gioco, e nella body art spesso si traduce nel provare su se stessi l'effetto di cambiamenti anche estremi, allo scopo di fare ricerca.

Per il progetto Making Peace With The Wind, Kyrahm si inietta della soluzione salina nel volto per deformarlo, scurisce e rasa i capelli. Per le vie delle città del Nord Europa, ha poi raccolto i feedback dei passanti: gli sguardi erano pieni di sgomento, disprezzo, altre volte sfuggenti. E' una profonda riflessione sulla percezione e la dismorfofobia. “Kyrahm: Fino ai 15 anni mi sono sentita un mostro. Poi il corpo cambia, tutto si trasforma. Per un po' ho lavorato anche come fotomodella e attrice. Il desiderio ossessivo di essere belle è una sconfitta, un disperato bisogno di accettazione, un adattamento ai feroci canoni imposti dalla moda, dalla società e dai media.
Trasformandomi in una bella donna avevo, in un certo senso, perso.”

Presentata presso:

Mitreo Arte Contemporanea- Roma 2012

Hasselt – Belgio 2012

Considerate sia possibile eliminare le distinzioni di razza e genere?
Non crediamo nell'eliminazione delle distinzioni, ma nell'educazione al valore delle differenze e dunque al superamento dei pregiudizi.

In Human Installation I: Obsolescenza del genere, Julius Kaiser, effettua la trasformazione da donna a uomo sulla scena. L'opera parla di fluidità dei generi, coerentemente con la teoria queer. Unisce body art e teoria queer, affermando che il genere in realtà è una costruzione sociale.  Sullo sfondo una serie di corpi nudi: sono presenti donne e uomini biologici e transessuali FtM e MtF che non hanno ancora terminato l'iter di riassegnazione sessuale.

“Il corpo nudo e l'io, la maschera e lo stereotipo. Un quadro ginoandroide. Una fila di corpi nudi avanza lentamente. Il sesso biologico come pelle, maschio, femmina. Il genere come senso del sè, uomo, donna. Percorso, attraversamento, transizione. Ogni soggetto, una storia. Cambiare sesso è doloroso come la nascita. Le maschere d’oro sul volto non nascondono le identità: come son riconoscibili le sfumature del genere. Solitaria subentra una creatura di sesso femminile. Accarezza i corpi uno per uno. Il travaglio è faticoso, la carne materia da modellare. Il rito della vestizione tra fasce contenitive, pantaloni, giacca e cravatta è il ritorno all’opposto. Non è più necessario indossare la maschera: l’io è rivelato.”

Presentazioni e menzioni più significative:
Idkex – USA, Columbus 2009 selezionata tra le 30 più belle del mondo

Werkstaddt der Kulturen -  Berlino 2009

Opera vincitrice sezione performance del Premio Arte Laguna - Venezia 2009

MACRO – Museo d'Arte Contemporanea di Roma - 2012

Museo di Nocciano – Pescara 2011

MutAzioni Profane – Body Performance Art Festival 2009

MutAzioni Humane e Pensiero – International Performance Art Festival 2012 – con il patrocinio dell'Ambasciata del Cile.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 3

Cos’è la violenza? Che percezione avete del dolore?
Il dolore fa parte della vita. Potrebbe essere anche una grande risorsa.
Ma non lo è la violenza che è sopraffazione e sopruso.
La body art estrema attua pratiche che hanno origini antichissime (body mods, sunspension, piercing, scarification) e rende il corpo protagonista assoluto considerandolo soggetto e oggetto dell’espressione artistica ed esibendolo come opera e pone una riflessione su interventi sul corpo socialmente accettati (chirurgia estetica) e modificazioni corporee che hanno faticato (e continuano) a proporsi come modelli alternativi diffusi. C'è un atteggiamento condiviso che impone ciò che è giusto o sbagliato in proporzione all'autodeterminazione. Più un corpo autodetermina se stesso (ad es. transessuali, freaks) più è considerato deviante perché non omologato alla società (il corpo deviante somiglia a se stesso e non alla società, quindi potenzialmente pericoloso per l'equilibrio e sfuggente alle dinamiche di controllo).

Tra le performance "Human Installation III: Sacrifice" dove avviene una vera crocifissione con la tecnica della sospensione e Kyrahm piange sangue togliendo aghi inseriti nell'arcata sopraccigliare. Un'opera tra body art estrema e iconografia cristiana.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 4

Durante la performance “Human Installation IV: Il gioielliere”, Julius Kaiser crea una composizione estetica di aghi e perle inserite nella schiena di Kyrahm. Il gioiello usato per ferire la carne è rappresentativo del tema atavico delle differenze di classe e dei giochi di potere legati ai ruoli di genere.
Kyrahm si volta e continua a ferirsi all'altezza del petto: il sangue che scorre sull'immagine proiettata del bambino sulla pancia ricorda che spesso nelle diatribe tra genitori sono i figli a pagarne le conseguenze.
Ma è anche rappresentativo della brutale violenza spesso omicida attuata sulle donne.
“Kyrahm: Le pratiche di auto-inflizione sono solo linguaggi che ho recuperato dagli ambienti underground. Parafilie e affini sono derivazioni eventuali e non il punto di partenza. Per quanto mi riguarda quindi non c'è una tendenza masochistica, si tratta solo di una scelta estetica. Il corpo è il mio mezzo, territorio semantico, così come anche per altri artisti.
Credo fortemente che accanto ad azioni simili sia necessaria una ricerca estetica minuziosa. Altrimenti si tratta soltanto di pratiche fine a se stesse.”

Presentata presso:

Evento collaterale della Biennale di Venezia 2009 Blue Wedding

Festival di arti performative Corpo al museo di Nocciano a cura di Sibilla Panerai, alla Dinnerwave Art Gallery in Arizona e per i festival Mut-azioni Profane, Female Extreme Body Art  e MutAzioni Humane e Pensiero creati da Kyrahm e Julius Kaiser.

Performance ospite d'onore del Festival Internazionale delle Arti di Ferrara.

L'opera ha preso parte al progetto Woyzeck by Cercle.

Intervista a Kyrahm e Julius Kaiser 5

Qual è il rapporto fra performance art e teatro?
C'è molta confusione rispetto la performance art e il teatro. Nel teatro l'elemento dell'interpretazione è preponderante, nella performance art tutto ciò che avviene è reale. Parliamo di linguaggi completamente differenti.
Siamo in una fase di cambiamento. Durante l'ultimo festival organizzato, MutAzioni Humane e Pensiero (con il Patrocinio dell'Ambasciata del Cile), abbiamo maturato la convinzione della necessità di un’estensione ulteriore dal corpo.

Qual è il limite della performance art rispetto alle arti tradizionali e quali le possibilità intrinseche solo ad essa?
Non crediamo ci siano limiti. La performance art è una necessaria evoluzione rispetto alle arti tradizionali.

Come si vendono le performance? Che opinione ne avete in merito?
La performance in origine nasce per sfuggire alle dinamiche di mercato.
Tuttavia un artista chiamato a performare deve avere inevitabilmente cachet e copertura costi di realizzazione.
Tentare di intrappolare l'opera è mera illusione. Possiamo però parlare relativamente alla nostra esperienza. Di ogni performance esistono i suoi corrispettivi come gli oggetti di scena, le immagini, i video, ma anche i suoi schizzi preparatori.
L'artista interviene manualmente sull'immagine derivata dall'azione performativa per riconoscere quel frame, quella foto come unico o in tiratura limitata, senza il quale il valore è assolutamente diverso.  Questo per sfuggire alla riproducibilità digitale.
Un conto sono le immagini che circolano liberamente utilizzate per la diffusione del lavoro (anche se molti artisti preferiscono non adottare la politica della condivisione), un conto l'immagine resa unica dall'intervento dell'artista che “performa” quindi nuovamente sul suo corrispettivo.
È poi necessario un riconoscimento scritto da parte dell'artista che ne attesta l'autenticità. Questo per quanto riguarda la nostra personale esperienza.
Poi ci sono stati casi come l'acquisto dei diritti da parte del Moma della performance Kiss di Tino Sehgal.
Le nostre azioni e i suoi corrispettivi fanno parte di collezioni pubbliche e di privati.

Nell’identificazione costante delle masse verso determinate “mode del pensare”, trovate sia possibile un’evoluzione?
Siamo in un'era in cui il desiderio di omologazione è molto forte. Anche nel rifiuto dei codici della maggioranza, le subculture comunque adeguano la propria estetica al gruppo di riferimento. Crediamo fortemente, a differenza di quanto venga detto, che il pubblico abbia una naturale predisposizione alla cultura. I mezzi di comunicazione di massa che propongono contenuti di bassa qualità con il pretesto dell'intrattenimento lavorano verso la diseducazione alla coscienza critica. L'evoluzione è possibile solo attraverso un distaccamento cosciente ed oggettivo.

Molti media pongono questo secolo come momento di massima libertà di pensiero e di espressione. Trovate reale questa affermazione?
Siamo sicuramente privilegiati per quanto riguarda la nostra condizione attuale, la nostra generazione e la nostra cultura.  Purtroppo tutto questo non è ancora possibile per altri popolazioni. Non dimentichiamo però che le informazioni sono spesso filtrate, rielaborate e riproposte proprio dagli stessi media che quotidianamente lavorano alla costruzione della percezione della nostra realtà.

Datemi una definizione della parola amore.
Calore e rispetto reciproco. Piacere nel dare e nel condividere, trasparenza, unicità. L’unico vero atto rivoluzionario utile.

Che cosa vi fa paura?
La morte delle persone care. La fine delle risorse. La stigmatizzazione. Il buio della mente.

Che cos’è per voi una bella vita?
Salute, affetti, economia. Quando i bisogni primari di intere società vengono bruscamente attaccati, tutti i parametri di valutazione saltano. Una bella vita è quando hai la sensazione che sia compiuta, incanalando le tue energie nella direzione di ciò che ti appassiona, ti stimola, ti fa evolvere.
Dovremmo sempre considerare che gli anni passano in fretta, le occasioni scivolano via.
Andate ad abbracciare qualcuno che amate, telefonate ai cari, meravigliatevi come se foste ancora bambini, ambite a quel che volevate fare da grandi...

Su cosa mettereste la parola “Fine”?
Alle diseguaglianze nella distribuzione delle risorse, alla manipolazione dei poteri sulla verità, agli impedimenti all'istruzione, alla sopraffazione.

Contatti e riferimenti:

www.humaninstallations.com

www.kyrahm.blogspot.com

www.juliuskaiser.blogspot.com

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