Holy EYE

CERTIFIED

L’immaginario popolare è sempre stato in netta contrapposizione alle reali (spesso misere) condizioni di vita del popolo stesso. Come sottolinea Calvino in Lezioni Americane, la letteratura ha sempre cercato di evadere da questi problemi tramite il mondo fiabesco o di affrontarli metaforicamente come usa fare più volte Kafka (Es. Il cavaliere del secchio). Per l’Italia odierna trovi i metodi di comunicazione sopracitati utili o pensi sia più pratico, seppur meno confortante, un ritorno al realismo, sia esso di natura “comico-bukowskiana” o ancor più ferocemente verista?
Non concordo con l’analisi sull’elaborazione dell’immaginario o del fantastico. Detto che Kafka proprio non compie una simile operazione (e tanto meno lo fa proprio con “Il Cavaliere del secchio”, su cui, come notava Scholem, si potrebbe attagliare alla perfezione non solo un’interpretazione cabbalistica, ma anche una alchemica), il riduzionismo quasi feuerbachiano, ma comunque tipicamente occidentale, perde di colpo il punto centrale dell’esistenza dell’immaginario – che è quella di porre un punto umano fuori e dentro al tempo, fuori e dentro al legame di causa-effetto. Mi chiederei, a questa altezza, come può esistere un realismo: non sarebbe derivato da un apparato percettivo e, quindi, totalmente fantasmatico anche ciò che si desume dalla realtà? E perché la natura comica, che non è bukowskiana in quanto Bukowski era tutt’al più sardonico, dovrebbe suonare come una poetica in alternativa ad altre? La verità è che, terminata l’enfasi critica sui generi e la loro contaminazione, si passa grossolanamente al confronto tra poetiche...

La sofferenza, non solo fisica e psichica, ma soprattutto come prodotto di una caratteristica empatica, aiuta a capire il mondo e permette allo scrittore di penetrare il mondo reale tramite la descrizione dei moti interiori delle personae. Tu sei uno scrittore altamente empatico. Che rapporto hai con questa caratteristica, variabile congenita della tua scrittura?
La sofferenza, a mio parere e secondo l’insegnamento eschileo, aiuta a capire il se stesso, e dunque se stessi. Cogliere ciò che è comune, stabilmente comune, tra umano e umano, o tra creaturale e creaturale, significa sforzarsi di indagare l’interno quanto l’esterno, la realtà in quanto fantasma e la fantasia in quanto potenza reale. Ciò mette in secondo piano due forze che sembrano in gioco e invece appaiono soltanto occasionali: cioè lo “io” psicologico (dell’autore, ma anche del lettore) e la forma di arte con cui si entra in contatto. Tali forze sono assolutamente messe sotto scacco da ciò per cui esistono: che è altro dall’arte stessa e qualunque cosa di reale o fantasmatico che sia la sostanza di cui è fatto l’“io”. Leggevo un grande scrittore, l’altro giorno, dichiarare che morirebbe per la letteratura. Io ritengo che la letteratura muoia sempre per il “me”.

Descrivici il rapporto tra Genna scrittore e Genna personaggio. Perché Genna personaggio ha così bisogno di emozioni forti? Da cosa scaturisce questa rabbia latente che non esplode mai? Perché in Internet ti definisci “Il miserabile”?
Che il nome del grande Divisore sia legione, è cosa nota. Resta da comprendere chi o cosa sia tale Divisore. Ciò che sottintende la domanda è la differenza tra componenti dello “io”, razionali o meno, emotive o meno, psicologiche o reali. Potrei affermare che “Giuseppe Genna”, che sia autore o personaggio o l’ologramma vero e falso che appare su Rete, è una legione. Sono componenti multiple, che tentano di prendere sagomatura e possibilità di rappresentazione, per oggettivarsi davanti a una forza di discriminazione, di osservazione priva di giudizio, che non coincide con “Giuseppe Genna” (espressione che comprende anche Giuseppe Genna). Della mia vita privata molto coincide con l’esistenza o le movenze del personaggio a cui do il mio nome; molto altro, no. In Rete, poi, io seguo una retorica cangiante e contraddittoria, che molti purtroppo ha irritato. Questa personalità di Rete è la sagoma che, a ora, vorrei disciogliere con l’acido della mia capacità di sopravvivenza – e non riesco in ciò perché questo ologramma è uno strumento di lavoro, di sussistenza. Il Miserabile è un omaggio a Victor Hugo da un lato, un’autoironia circa il mio spesso esasperato o esorcistico pauperismo dall’altro lato, e infine un aggettivo bino, poiché contraddistingue lo “io”, essendo questo davvero perverso e davvero da commiserare nel senso dell’empatia.

Nell’assenza di contenuti che investe ogni campo culturale, si sente la forte mancanza di un intellettuale come Pasolini, il quale abbia il coraggio di una presa di posizione netta, estrema. Credi sia possibile oggi la diffusione mediatica di un pensiero intellettuale al pari di quello “pasoliniano”? O, altrimenti, quali ostacoli incontrerebbe?
Pasolini è anzitutto un artista – si tende a scordare questa semplice verità e a ignorare che l’atto estremo di questa conclamata nitidezza politica è essenzialmente un’opera d’arte: cioè Petrolio. Detto ciò, oggi non ravvedo alcuna possibilità di penetrazione, da parte dell’intellettuale, nel contesto pubblico e politico. Ciò non significa che l’intellettuale o il creatore non debba prendere una posizione netta: anzi, se non lo fa, non è artista. È la posizione del pasolinismo tribunizio che trovo intollerabile e deviante. È ovvio, per fare un esempio, che Roberto Saviano ha inciso in parte su una realtà; ma non illudiamoci che i suoi lettori siano stati “educati” al civico dalla scrittura di Saviano. Inoltre io trovo che Kafka o Celan sortiscano una potenza del politico di abnormi dimensioni. È soltanto il momento presente a volersi apolitico, anideologico – risultando così violentissimo, discrimatorio, ingiusto e peraltro infondato dal punto di vista umanistico. A uno scrittore, di fatto, cosa spetta? Raccontare il mito, che è anche e soprattutto ritmo.

Secondo te in cosa risiede precisamente il potere taumaturgico della scrittura?
Nel momento preciso in cui si scrive, si è e non si sa cosa si è – se maschio o femmina, se giovane o anziano. Questa è la porta della taumaturgia attraverso la scrittura. Accade lo stesso per chi legge, se è nell’incanto della lettura. Si è – questo è tutto, bisogna trarne conseguenze non semplicemente intellettuali.

Facci un’analisi del cinema contemporaneo italiano.
È inesistente se non in fenomeni (faccio un nome per molti) come Davide Manuli, autore di Beket, premiato a Locarno e vincitore del Miami Film Festival.

Cosa ne pensi delle fiere del libro che si svolgono in Italia? Quale paese sceglieresti per pubblicare?
Non ho opinioni circa le fiere. Sulla nazione in cui pubblicare: dal punto di vista linguistico, solo l’Italia e l’India detengono una lingua talmente antica da avere trapassato la propria morte, per entrare in uno stato di esaustività ed esaurimento. La lingua esausta determina una frontiera interessante sulla quale lavorare. Poi: mi piacerebbe pubblicare in America per motivi prettamente materiali, nel senso che ravvedo là più chance di vivere con la scrittura, quindi di potere studiare di più.

Nella letteratura del Novecento molti hanno scritto riguardo il trapasso dei propri cari. Gadda, ad esempio, racconta la morte della madre, Svevo quella del padre; In Italia De Profundis cosa ti ha spinto a fare altrettanto?
La verità, che è amore. La necessità libera ad accedere alla zona paterna. Non certamente il lutto.

Jodorowsky, Battiato, Lynch: tutti sostenitori di varie pratiche esoteriche. Come mai anche tu ti schieri con loro? Cosa ti affascina di tale filosofia?
Non mi schiero affatto con nessuno. A me interessa la pratica metafisica, che è filosofia autentica, e circa la quale non c’è da dire molto. In ogni caso sono estraneo a qualunque attività di ordine esoterico, che proprio non mi interessa. Dubito inoltre che Lynch, dei tre citati, sia legato a pratiche esoteriche.

Il resoconto delle varie esperienze borderline da te praticate in Italia De Profundis sembra in realtà pura finzione letteraria essendo non credibile che una tale accuratezza lessicale, culturale e introspettiva appartenga a chi ha tentato coscientemente di abiurare al proprio raziocinio. Quanto c’è di vero in tali esperienze? Cosa significa per te “romanzare”?
Non ravvedo assolutamente questa distinzione tra raziocinio ed emotivo. Anzi, per me il problema è proprio quello di unificare, stando a me e me soltanto, psichico emotivo e somatico attraverso la scrittura. È la possibilità di una sutura per un’antica ferita, quella che mi offre il refe della scrittura. Tra credibile e incredibile, poi, proprio tenderei a fare molta attenzione – in presa diretta, se si è stati molto immersi nella lingua che si percepisce come propria lingua, è possibile raggiungere gradi estremi di esattezza. Inoltre va detto che parte della critica, proprio laddove voi ravvedete accuratezza, percepisce cadute e incapacità linguistica. Se si cerca di sapere se sono stato con tre travestiti, dirò che no; se mi sono praticato inoculazioni di eroina, dirò di no; se ho ucciso un uomo affetto da SLA, dirò di no; se mi sono inviato una lettera a distanza di anni, dirò di no; se sono stato in un villaggio turistico in Sicilia, dirò di sì; se sono stato davanti a uno sciamano che somiglia vagamente al ministro Frattini, dirò di sì; se ho sofferto di orticaria insedabile perfino dal cortisone, dirò di sì. Tutto ciò non apporta nulla al grado di eventuale verità del libro. Romanzare, per me, significa spingere, attraverso verisimiglianza data a priori dalla lingua, a una domanda extraletteraria che è: “Chi sono io?”. Romanzare, per me, è tentare di giungere e far giungere al grado zero.

Quanto ti ha influenzato il filone “espressionista” (identificato da un noto critico letterario quale G. Contini) che parte da Dante e ha come sue peculiari caratteristiche ad esempio il pastiche linguistico, seppur tu lo utilizzi in ambiti stilistici?
Moltissimo, sebbene non segua alcuna indicazione teorica in tal senso. Mi è molto chiaro, e principalmente perché vengo da una militanza pluriennale nella poesia contemporanea, che la mia lingua di superficie è porosa, scarta, si muove addirittura grossolanamente, precipita per sbagli. Ciò è tipico di quella che il grande critico e traduttore Giuseppe Guglielmi definiva “linea calda”, la quale nozione molto ha a che spartire con quella continiana. Rifiuto totalmente invece l’idea del pastiche come approdo o effetto – si tratta, al limite, di un segmento di retorica, la quale retorica è un patrimonio umanistico che va reinterpretato, se non rifondato, secondo le indicazioni di Burroughs. La lingua di superficie, se di matrice espressionista, sta a indicare una lingua più carsica, fatta di ritmo e di retoriche che sono anch’essi sotterranei.

Che cos’è www.ripubblica.net?
È un’iniziativa editoriale della web agency in cui lavoro, Siris (www.siris.com), la quale iniziativa ha uno scopo che si scoprirà col tempo.

Progetti futuri?
Lavorare con più precisione, e più in silenzio, su me stesso. Dal punto di vista editoriale, che immagino interessi maggiormente, tre libri.